Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Moonlight_Tsukiko    02/06/2019    2 recensioni
Eren Jaeger sogna di vivere in un mondo dove sua sorella è ancora viva e di non dover usare le sue preziose strategie di adattamento per provare qualcosa che non sia dolore. Ma la vita ha il suo modo per distruggere tutto ciò che vi è sul suo cammino, ed Eren si ritrova in una spirale dalla quale non sembra uscirà molto presto.
Come capitano della squadra di football della scuola superiore Shiganshina, Levi Ackerman sembra essere la colonna portante per i suoi compagni di squadra. Ma quando non è in campo e non ha indosso la sua maglia sportiva, diventa semplicemente Levi. Levi Ackerman forse sarà anche in grado di aiutare le altre persone, ma Levi certamente non può difendersi dallo zio alcoldipendente.
Nessun altro ha provato il loro dolore, nessun altro ha vissuto ciò che hanno vissuto loro, e nessun altro potrà mai capirli. Ma tutto cambia una volta che si stabilisce una relazione non convenzionale che li forza a mettere a nudo tutte le loro cicatrici.
Genere: Angst, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Berthold Huber, Eren Jaeger, Jean Kirshtein, Levi Ackerman, Marco Bodt
Note: AU, OOC, Traduzione | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate
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Go Ahead and Cry, Little Boy
Capitolo 9
 
Eren

05:45 di mattina, 17 novembre.

Sono seduto nello scantinato, gambe incrociate e mani posate mollemente sul grembo. Fa freddo qui sotto, più che altro perché il riscaldamento non è acceso, ma non ho abbastanza energie per alzarmi e accenderlo. Quindi me ne resto seduto in pigiama, fissando senza guardare davvero le tele davanti a me.

Sono bianche, tranne una con un occhio dipinto al centro; la tempera è spessa, facendo capire di essere stato usato troppo colore nero. C’è persino un barattolo pieno di pennelli accanto al quadro. Sono duri e ancora ricoperti di colore, le setole attaccate tra loro in strane posizioni. I barattoli di tempera sono chiusi, ordinatamente disposti sulla mensola.

C’è odore di polvere qua sotto. Immagino sia perché nessuno si è mai preso la briga di pulire ormai da un paio d’anni. Non ce n’era alcun bisogno. Tanto qui non viene mai anima viva. Una delle lampadine non funziona come dovrebbe e per questo motivo la stanza è molto più soffusa. Ma non ho intenzione di andarne a comprare una nuova.

Sposto lo sguardo dalla lampada per posarlo in un punto indefinito davanti a me. La mia chitarra rotta è nascosta da qualche parte dietro i dipinti di Mikasa accatastati sulla parete. L’ho messa lì perché sapevo che i miei genitori non l’avrebbero mai trovata. Prima o poi la butterò via. Riesco a vedere una delle corde rotte spuntare da dietro una tela. Chiudo gli occhi e li apro per guardare il tavolo. C’è un pacchetto vuoto di sigarette al mentolo e il posacenere è ancora pieno di rimasugli di sigaretta. Forse sarebbe una buona idea buttare via anche quelli.

Cerco di non guardali, però, perché farlo mi causa un profondo e tagliente dolore che mi attraversa il corpo.

Ogni volta che sbatto le palpebre c’è un nuovo pizzicorio all’angolo dei miei occhi. Ma non importa quanto ci provi, non riesco a piangere. Non so dire se i miei occhi umidi sono dovuti alla polvere o al fatto che mia sorella non tornerà mai più e non prenderà mai più in mano un pennello. Mi convinco sia colpa della polvere perché il pensiero di piangere per Mikasa fa fisicamente male.

Questa stanza è l’unica sicurezza e prova che Mikasa sia davvero esistita. Le sue foto da piccola sono state messe via da mia madre in un impeto di rabbia disperata, i suoi vestiti e oggetti personali sono stati venduti ai vicini o a vari negozi dell’usato. Penso abbia senso, però. Mikasa non si è cucita da sola vestiti, collane, coperte e qualsiasi altra cosa possedesse. Qualcun altro li ha fatti e lei li ha comprati. Ma questi dipinti sono qualcosa che ha fatto lei, qualcosa che nessuno potrà mai sostituire.

“… Eren?”

Alzo subito la testa al suono di una voce così sottile. Mi giro per vedere Jean a pochi passi da me. Resta immobile ai piedi delle scale per un po’. I suoi occhi si spalancano quando il suo cervello registra i miei denti che sbattono per il freddo. Li stringo insieme per farli smettere, ma è troppo tardi. Lui si allenta la calda vestaglia da casa e cammina velocemente verso di me.

“Porca miseria, si gela qui sotto,” dice per poi avvolgermi le spalle con la vestaglia. “Cosa stai facendo?”

“Oggi è il 17 novembre,” rispondo e Jean si irrigidisce accanto a me.

“Eren…”

“Questo è tutto ciò che è rimasto di lei,” continuo; mi metto sulle ginocchia per poi dirigermi verso la tela più vicina, riuscendo a respirare il sottile odore di tempera. “Questo è tutto quello che mi è rimasto. Qualche stupido, fottuto dipinto.”

Non penso per niente che i dipinti siano stupidi. Crescendo, ho sempre ammirato le abilità artistiche di mia sorella. Arte e creatività non sono mai state il mio forte, ma Mikasa è sempre stata brava in questo tipo di cose. Ecco perché ha scelto di studiare arte all’università.

“Ehi,” chiama Jean. “Andiamo, Eren. Vieni.”

Non oppongo resistenza quando mi afferra delicatamente il braccio per farmi alzare. Lascio che mi diriga verso le scale, il mio intero corpo sembra troppo pesante. È come se mi stessi facendo trascinare da una forza invisibile e parte di me si sente in colpa che Jean deve sostenere anche il mio peso.

“Va’ a vestirti,” dice quando raggiungiamo la mia camera. “Poi possiamo andare.”

“I miei genitori...?” 

“Stanno ancora dormendo,” risponde, guardando la porta chiusa della loro camera da letto. “Sono sicuro andranno dopo.”

Mi sforzo di annuire ed entro in bagno. Dopo aver fatto una doccia, torno in camera per indossare una camicia nera abbinata a pantaloni dello stesso colore per poi mettere su la giacca. È un blazer che mia madre ha comprato per il ballo di Sadie Hawkins[1] il primo anno di superiori. È leggermente stretto sulle spalle, ma non ho altra scelta.

Incontro Jean al piano terra. È vestito in un modo molto simile al mio. Mi sorride, ma io non riesco a fare lo stesso. Anche il suo sorriso sparisce lentamente e io distolgo lo sguardo.

“Pronto?”

“Per quanto potrò mai esserlo,” mormoro. Lo seguo entrando nella sua auto e allaccio la cintura in un gesto meccanizzato. Jean lo nota e si ferma, osservandomi.

“Come stai?” Chiede preoccupato.

“Bene,” rispondo. Se me lo avesse chiesto due anni fa, probabilmente sarei scoppiato a piangere. “Andiamo.”

Jean annuisce lentamente, accende il motore per poi uscire dal vialetto. Faccio finta di non notare le nocche bianche sul volante. Di solito non guida in questo modo; così rigidamente, intendo. Ma immagino oggi sia un’eccezione.

Osservo le case che passiamo fuori dal finestrino. Dopo un po’, le case diventano più sporadiche, venendo sostituite da piccoli negozi e uffici. Mi salta all’occhio un fioraio e dico a Jean di accostare. Fa come dico, anche se sembra un po’ confuso. Lo ignoro ed esco dall’auto e tiro fuori il portafoglio dalla tasca.

Spingo la porta del negozio, il campanello suona annunciando il mio arrivo. La donna dietro il bancone sembra sorpresa di vedermi. Continua a spostare lo sguardo da me alla porta d’entrata fino a quando non sono proprio davanti a lei.

“Siamo ancora chiusi,” dice lentamente, guardandomi cautamente. Realizzo di dover essere un vero schifo in questo momento. Annuisco, passandomi una mano tra i capelli.

“Lo so,” dico. “Avrei solo bisogno di tre dalie nere. La prego.”

La donna solleva un sopracciglio e gli angoli della sua bocca si curvano in un leggero sorriso. So già cosa sta per dire; ormai ho sentito questa correzione tantissime volte.

“In realtà non sono nere, ma-”

“Sono burgundi,” finisco, ignorando la sua espressione sorpresa. La mia voce suona flebile e lontana. Scuoto la testa e mi schiarisco la gola. “Io… uh, lo so.”

“Okay,” risponde semplicemente la donna. Apre la teca di vetro dietro di lei e tira fuori tre dalie. La osservo avvolgere i fiori nella carta decorativa e poi applicarci un fiocco nero attorno. Una volta finito, le appoggia sul bancone, allungandomele con un sorriso triste. “Condoglianze.”

Il mio intero corpo duole quando sento le sue parole.

“Cosa?” Dico, la mia voce è spezzata. “Come fa a…” mi interrompo. Lei indica il mio abbigliamento.

Ah, giusto.

 Annuisco a tratti, afferrando le dalie. Stringo gli steli in una mano e con l’altra apro il portafoglio.

“Quant’è?” Chiedo. Quando non risponde, alzo lo sguardo. La donna mi sta guardando con espressione pensierosa. “Signorina? Quanto le devo per-”

“Niente,” risponde. “Non siamo aperti, ricordi? Questo non è un affare. Consideralo un regalo.”

Deglutisco il nodo in gola e cerco di sorridere al meglio che posso.

“La ringrazio,” dico sinceramente.

Lei annuisce, sorride, e torna a leggere il giornale che stava scorrendo quando sono entrato. Mi giro ed esco dal negozio, tenendo in mano i fiori come fossero la cosa più preziosa che possiedo.

Salgo in macchina e allaccio la cintura. Gli occhi di Jean si posano sulle dalie, ma non dice nulla.

“Pronto?”

Faccio un cenno con la testa e lui rimette in moto il veicolo. La prossima volta che ci fermiamo siamo arrivati alla nostra destinazione. Osservo il cancello di ferro e una sensazione nauseabonda mi attanaglia lo stomaco. Sento di stare per vomitare, ma cerco di trattenermi.

Esco dall’auto, ma Jean resta dentro ancora qualche secondo, osservando qualcosa in distanza. Dopo un po’ esce anche lui. Camminiamo in silenzio, l’unico suono che ci circonda sono la ghiaia calpestata dalle nostre scarpe e lo scricchiolio delle foglie secche.

“Siamo arrivati,” dico, anche se so che non ce n’era bisogno.

“Già,” la voce di Jean si spezza. Si mette in ginocchio, le sue dita scorrono tremanti sulle incisioni della lapide. “Siamo qui.”

È la prima volta che vedo la tomba di mia sorella dal suo funerale. Jean, mia madre e mio padre sono venuti parecchie volte, ma io ho sempre rifiutato i loro inviti. Non volevo vedere la lapide di mia sorella. Sarebbe solo un’altra conferma che lei è morta e io… no.

Mi piego per poggiare le dalie ai piedi della tomba. Jean passa le dita tra i petali, il labbro inferiore trema per cercare di non piangere. Mi siedo accanto a lui, le nostre spalle si toccano e guardiamo con sguardo assente la lapide.

“Va bene piangere,” dico. Dovrebbe essere confortante, ma faccio davvero schifo a confortare le persone. Fortunatamente, non sembra far più male a Jean di quanto già non faccia l’essere qui.

“Lo so,” risponde tremante Jean. Sospira e abbassa la testa, le mani chiuse in uno stretto pugno.

Guardo altrove e i miei occhi trovano di nuovo la lapide. La luce mattutina è abbastanza per farmi guardare il riflesso dei nostri corpi nel marmo. Deglutisco il nervosismo e allungo la mano per toccare la pietra di mia sorella. Non ci riesco, però. Le punte delle dita si fermano giusto poco prima di toccarla. Prendo alcuni respiri profondi e ritiro la mano.

L’intero corpo di Jean sobbalza mentre piange silenziosamente. Io sto seduto, insensibile, riuscendo a malapena a non cadere a pezzi.

“Le dalie erano i suoi fiori preferiti,” dico, giusto perché sento il bisogno di distrarmi dai miei stessi pensieri, ma non aiuta molto. Se non altro, rimpiango le parole non appena escono dalla mia bocca.

Jean solleva lentamente la testa. Le spalle sono incurvate e le braccia sono immobili sui suoi fianchi. Osserva distrattamente le dalie.

“Lo so,” dice con voce vuota. “Le avevamo al nostro matrimonio. Nere, sono piuttosto sicuro-”

“Non sono nere,” dico, la voce spezzata. “Sono burgundi.”

“Giusto,” sussurra Jean. “Dalie burgundi siano.”

“Proprio come queste, no?” Borbotto.

“Proprio come queste,” conferma.
 
***
 
14:52, appartamento di Nick. Poco dopo che Jean mi ha portato a scuola, ho capito che non sarei stato in grado di sopportare le lezioni. Quindi non sono entrato a scuola e sono andato in libreria per un po’. Quando mi sono stancato, ho preso un autobus per arrivare da Nick. Mi ha lasciato entrare senza commenti irriverenti su come io scrocchi sempre il cibo da lui. Sa che giorno sia oggi.

Nick è seduto sulla poltrona a guardarmi e fingo di non essermene accorto. Il mio blazer è abbandonato sullo schienale del divano e le maniche della camicia sono arrotolate fino al gomito.

L’appartamento di Nick è freddo, ma in questo momento non riesco a rendermi conto della temperatura. Sono… beh, insensibile.

“Eren.”

Alzo la testa. È la prima parola che mi rivolge da quando sono arrivato.

“Sì?” Chiedo, la voce roca. Mi schiarisco la voce e gioco con le dita.

“Dovresti essere a scuola,” dice fermamente Nick. Lo fa spesso ultimamente. Cercare di essere risoluto, intendo. Di solito ha un atteggiamento passivo, ma all’improvviso vuole essere autoritario.

“Hai ragione,” dico, ma invece sprofondo ancora di più nel divano. Ho una terribile emicrania e sento il corpo pesante. “Lo so.”

“Allora perché sei-”

“Non ci riuscivo,” rispondo. “Di solito sono bravo a fingere di stare bene. Di solito sono bravo a fingere che non me ne freghi nulla. Ma oggi non ci riesco. Era troppo difficile.”

Nick spalanca la mascella. La chiude e preme le labbra in una linea sottile.

“Eren, mi dispiace.”

“Non hai fatto nulla,” borbotto.

“Avrei potuto...” insiste Nick. Si sente in colpa e lo odio. “Avrei potuto-”

“Se vuoi giocare a scarica barile, allora credo che alla fine vincerei io,” dico, interrompendolo. “È tutta colpa mia.”

Gli occhi si Nick si spalancano.

“Eren, no, tu non hai-”

“Sarebbe dovuto toccare a me,” dico con voce bassa. Non ho mai dato voce a questi pensieri a qualcuno prima d’ora. Ma ci ho pensato molte volte. “Sarei dovuto morire io quella notte, Nick. Io dovrei essere morto e Mikasa invece-”

Nick improvvisamente è in piedi davanti a me. Al mio cevello ci vogliono alcuni secondi per capire che il pulsare che provo alla guancia è dovuto allo schiaffo che mi ha appena dato Nick. Giro lentamente la testa per guardarlo: gli occhi sono pieni di lacrime, il viso accartocciato come se stesse per piangere.

“Non dirlo mai più,” sussurra.

“Okay, Nick.”

“Sono serio!” Mi afferra per le spalle e cade in ginocchio davanti a me. “Non… non dirlo.”

“Okay,” ripeto. Sollevo una mano per asciugargli le lacrime. “Non lo farò.”

“Bene,” annuisce Nick. Appoggio le mani sul suo viso e lui si piega per nascondere la testa nel mio petto. “Okay, bene.”

“Nick?” Ora mi sento in colpa. Deglutisco a fatica. “Nick, stai bene?”

“Sì.” Solleva la testa e mi guarda dritto negli occhi. Mi distendo sul divano portandolo sopra di me, facendo in modo che il mio corpo sia agiato tra le sue ginocchia. “Sto bene, davvero.”

Annuisco perché non so cos’altro dire. Faccio cadere la testa fino a quando non arrivo ad appoggiarla sulla sua spalla, le mani stringono il tessuto della sua maglietta. Mi stringe i fianchi con le mani e si avvicina a me, il suo respiro tremante mi solletica i capelli.

“Non posso perderti,” mormora Nick. Posso praticamente sentire l’aggiunta ‘anche te’ nell’aria.

“Non mi perderai,” dico. Non lo spingo indietro per guardarlo. Ho paura che se lo faccio, capirà che non sono sicuro di poter mantenere ciò che ho appena detto. Non mi piace fare promesse che non posso mantenere. Ma se sono costretto, mi piace non far capire a nessuno di star mentendo. “Non vado da nessuna parte.”

“Bene,” la sua voce è abbattuta e realizzo che mi ha capito. È sempre stato bravo in questo. Non sono molte le cose che riesco a tenergli segrete.

Restiamo così, stretti l’un l’altro, fino a quando Nick non mi lascia andare. Lo guardo interrogativo.

“Sembri stanco,” dice. Scuoto la testa.

“Sto bene,” rispondo e lui solleva un sopracciglio. “Smettila. Sono serio.”

“Andiamo,” dice, colpendomi il fianco. Si alza in piedi e mi offre la mano per aiutarmi a fare lo stesso. L’afferro reclutante e mi metto in piedi.

“Non sono stanco,” provo ancora, ma Nick mi ignora e appoggia una mano sulla parte bassa della mia schiena e mi conduce nella sua stanza.

“Puoi dormire qui,” dice e io mi fermo sul ciglio della porta, guardandolo.

“E tu?” 

“Io non sono stanco,” risponde, sembrando un po’ finto e mi offre un timido sorriso. “Sto bene, tranquillo. Non preoccuparti, va bene?”

“Jean… lui, uh, non sa che non sono andato a scuola,” dico. “Lui è a casa ora. Se non sa dove sono, andrà nel panico.”

Normalmente, non mi importerebbe se Jean, o qualcun altro, sa dove sono. Ma oggi è un’eccezione. Se non faccio presente a Jean dove mi trovo, sono sicuro che si preoccuperebbe più del solito. Non voglio che oggi si preoccupi per me.

“Lo chiamerò io,” si offre Nick, interrompendo i miei pensieri.

Il mio intero corpo si irrigidisce.

“Non penso sia una buona idea.”

“Tranquillo, Eren. Non preoccuparti di questo.”

“Come posso non farlo?” Protesto, “Sai com’è lui e-”

“Smettila di preoccuparti.”

Premo le labbra in una linea sottile e rimango in silenzio. Una volta che Nick si mette un’idea in testa, è difficile fargliela cambiare. Sono capace di capire quando perdo una battaglia. Annuisco ed entro in camera sua.

“Come preferisci,” dico, camminando verso il letto e sedendomi a peso morto. “Fa quello che vuoi.”

Nick fa un cenno con la testa e mi guarda.

“Hai bisogno di qualcos’altro?” 

“Io…” mi sento infantile tutto d’un colpo. “Resta con me.”

Nick non sembra sorpreso dalla mia richiesta. Chiude la porta e mi raggiunge sul letto, sedendosi di fronte a me.

“Sei sicuro?”

“Sì,” dico, la voce sicura. “Ho… ho bisogno di te.”

“Va bene,” sussurra. Si distende lentamente e mi guarda per un momento. Faccio lo stesso, poggiando la schiena sul morbido materasso. Mi avvicino piano fino a quando non appoggio la testa sul suo petto e lui avvolge le braccia intorno a me.

Chiudo gli occhi e permetto al mio corpo di rilassarsi. Per la prima volta da stamattina, sento la tensione nel mio corpo dissiparsi. Poco prima di perdere conoscenza, sento Nick sussurrare qualcosa al mio orecchio, ma è troppo basso per riuscire a capire cosa sta dicendo, ma qualsiasi cosa sia, diffonde un’onda di calore nel petto.

Finalmente, mi addormento.
 
***
 
Quando mi sveglio, sono nel mio letto. Sbatto le palpebre guardando il soffitto prima di girare la testa e guardare la figura rannicchiata ai piedi del mio letto. Jean ha il respiro regolare, una delle mie coperte gli avvolge le spalle. Gli do un leggero scossone per svegliarlo. La stanza è parzialmente illuminata dalla lampada sul mio comodino; è luminosa abbastanza da farmi vedere Jean aprire gli occhi. Deglutisco.

“Ehi,” dico, la voce roca per il disuso.

“Ciao,” mi saluta Jean. Si mette seduto e guarda l’orologio. “È tardi. Dovresti riposare. Domani hai scuola e-”

“Jean?”

Si ferma e mi guarda. “Cosa c’è?”

“Come ci sono finito qui?” Lui si siede completamente, la coperta cade a coprirgli la vita.

“… È stato Nick,” risponde. “Ti ha riportato qui mentre dormivi. Ha avuto una piccola crisi perché, forse, ho cominciato a urlargli contro.”

“Oh,” dico. Si forma una strana sensazione alla bocca del mio stomaco che cerco di ignorare.

“Perché eri con lui, Eren?” Chiede Jean e io assottiglio gli occhi. So che piega prenderà questa conversazione.

“Avevo bisogno di fuggire,” dico con tono piatto. “Ero travolto dalle mie emozioni e avevo bisogno di un po’ di spazio.”

“Avresti potuto chiamarmi,” continua Jean. Sta alzando la voce e mi sta provocando un mal di testa. Non penso sia questo il momento giusto per dirglielo, però, quindi tengo la bocca chiusa. “Ti sarei venuto a prendere a scuola.”

“Ho pensato fossi impegnato.”

“Non potevi saperlo!” Eccolo, sta finalmente urlando. Lo guardo assente e aspetto che aggiunga qualsiasi altra cosa voglia. “Se me lo avessi chiesto, sarei venuto e-”

“Fai così solo perché si tratta di lui, vero?” Lo interrompo. “Se fosse stato chiunque altro, non te ne sarebbe fregato nulla.”

“Esatto, Eren, è perché si tratta di lui,” risponde stancamente per poi scuotere la testa. “Perché? Perché lui tra tutte le persone?”

“C’è sempre stato per me,” rispondo, la voce piatta e bassa. Deglutisco e fisso le mani sulle mie ginocchia. “Nick si prende sempre cura di me-”

“Oh, come si è preso cura di Mikasa?” Sbotta. “Fa davvero un ottimo lavoro nel prendersi cura delle persone, Eren. È colpa sua se Mikasa è morta!”

“Vaffanculo!” Sbotto anch’io, spingendolo più forte che posso per allontanarlo da me; non è molto, ma è abbastanza da soddisfarmi. “Non è stata colpa di Nick, ma mia.”

“Non eri tu quello che guidava, porca miseria!” Jean sta urlando. “Smettila di coprirlo ogni fottuta volta. Non sei tu dalla parte del torto, Eren. Lui sì. Quanto tempo ti ci vorrà ancora per finalmente capirlo?”

Rimasi in silenzio, il petto si muoveva a ritmo del mio respiro, le mani tremanti dalla rabbia.

“… Vattene.”

“Perché? Perchè ho-”

“Vattene via da qui!” Afferro la prima cosa che trovo sul comodino e gliela lancio addosso. “Va via!”

Continuo a ripeterglielo mentre gli lancio tutto ciò che trovo. Jean riesce a fermare quello che gli lancio e cammina verso la porta. La apre e la richiude sbattendola, forte abbastanza da far tremare gli stipiti in legno e riesco a sentirlo scendere le scale. La voce di mia madre mi salta all’orecchio, acuta dal panico e sento Jean rassicurarla, dicendo che va tutto bene.

Qualcosa cade sul mio braccio. Sbatto curiosamente le palpebre e un’altra goccia si forma sulla mia mano. Spalanco gli occhi e faccio scorrere le dita sulle guance. Sicuramente, nonostante cerchi di asciugarmi gli occhi, tornano lucidi non appena allontano la mano. Altre gocce mi arrivano alle labbra e riesco ad assaporarne il sapore salato.

Sono le prime lacrime che verso dopo due anni. 
 
 

[1] Ballo di fine anno dove sono le ragazze ad invitare i ragazzi a ballare, contrariamente alle tradizioni di galanteria.
   
 
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