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Autore: Lady1990    02/06/2019    2 recensioni
Ashwood Port, situata sulla costa del Massachusetts, vanta circa ventimila abitanti. Tre anni dopo la sua fondazione, risalente al 1691, fu teatro di un grande processo per stregoneria, mentre alla fine dell'Ottocento, durante la Guerra Civile, ospitò una sanguinosa battaglia. Al giorno d'oggi deve la sua popolarità a un florido commercio di pesce.
Le persone conducono una vita normale, spesso noiosa, perché nulla di sensazionale accade mai ad Ashwood Port.
Regan, sedici anni, erede dell'agenzia di pompe funebri McLaughlin, ha iniziato il liceo con un chiaro obiettivo in mente: stare lontano dai guai. Ma quando Teresa Meyers scompare senza lasciare traccia all'inizio dell'anno scolastico, Regan capirà di non avere altra scelta che lasciarsi coinvolgere nella follia che infesta Ashwood Port.
Infatti, quella di Teresa sarà solo la prima di una serie di impossibili sparizioni che, assieme ad altri eventi sinistri, si abbatteranno sulla tranquilla cittadina.
Tra fantasmi, streghe, licantropi, cacciatori, incubi e inganni, Regan si impegnerà per svelare il mistero. Ma a quale prezzo?
Anche se si è nati nell'oscurità, perdersi in essa è più facile di quanto si pensi.
[IN REVISIONE]
Genere: Horror, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Quella domenica mattina, il cielo sopra Ashwood Port sfoggiava un inquietante color piombo. Vento gelido soffiava dall’oceano verso la terra ferma, penetrando tra le case e ululando tra le chiome degli alberi. Grosse onde si infrangevano con violenza sulla scogliera su cui si stagliava il faro e facevano rollare le barche attraccate al porto, lasciando impronte spumose miste ad alghe sulla banchina. La bandiera rossa era issata e garriva selvaggia. I gabbiani si erano rifugiati nelle insenature tra gli scogli o sulla spiaggia ciottolosa per sfuggire alla furia degli elementi.

Rintanato nella sua stanza, Regan fissava il paesaggio fuori dalla finestra con espressione vacua. Ma, al posto dei tetti spioventi delle case, vedeva edifici di pietra di vago gusto goticheggiante fagocitati dalle fiamme; invece delle nubi scure che incombevano sulla città, simili a fumosi mostri affamati, vedeva un cielo tinto delle sfumature del rosso e dell’arancio.

Gli abitanti del quartiere, quelli abbastanza temerari da uscire con quel tempaccio, cambiavano aspetto non appena il suo sguardo si posava su di loro, assumendo a turno il volto di Fiona, Poppy, Sheila, Andrew, e di tutte le streghe e gli stregoni Morgan che aveva incontrato. E quei volti, tutti quanti, erano carbonizzati; la carne viva e sanguinolenta, non più celata dalle ombre della notte, era esposta senza alcuna dignità o pudore alla luce del giorno, testimone e giudice delle sue colpe.

Regan sapeva che era un trucco della sua mente, rivoltatasi contro di lui per sbattergli in faccia la cruda verità, il suo imperdonabile crimine. Eppure, da un momento all’altro, si aspettava di vedere davvero quelle persone, quelle streghe, radunarsi in mezzo alla strada per marciare in massa verso la sua casa, l’indice puntato su di lui in accusa. E insieme a loro, in mezzo a loro, la polizia, Hillary in testa, in tenuta da battaglia. Non si sarebbero disturbati a bussare; avrebbero appiccato un incendio dal vialetto, intrappolando lui e sua nonna all’interno, per guardarli bruciare e morire in un’atroce agonia.

Un rantolo gli si incastrò in gola. Si sentiva esausto, sia nella mente che nel corpo. I suoi occhi erano sbarrati, il respiro lento. Il battito del cuore era lento ma forte, un martellare sordo che somigliava al rintocco di una campana che suona a morto. Il pallore del viso era accentuato dalle occhiaie, simili a due mezzelune nere. Un sottile rivolo di sangue sgorgava dal piccolo foro sul labbro inferiore, dove un canino si era conficcato con forza per impedire alle corde vocali di vibrare nell’urlo disperato che gli raschiava il petto, o di scoppiare in una cacofonia di singhiozzi.

Durante il viaggio da Athens a Salem era riuscito a tenere a freno le emozioni, focalizzandosi, piuttosto, sui rituali fotocopiati. Dopo essere sceso dal pullman, aveva deciso di farsela a piedi fino ad Ashwood Port, convinto che una camminata nel freddo di gennaio lo avrebbe aiutato a scaricare la tensione e schiarirsi i pensieri.

Era bastato imboccare il sentiero che costeggiava il bosco, lontano dalla strada quel tanto da dargli l’illusione di essere solo, per crollare. Era bastato il ricordo dei visi rigati di lacrime di Poppy e Sheila per sentire qualcosa in lui spezzarsi. La sua maschera, assieme a tutte le sue difese, si era sgretolata.

Era caduto carponi su un tappeto di foglie umide e rametti, schiacciato da un peso che gli impediva di respirare. Circondato da alberi, buio e silenzio, aveva sguinzagliato il caos che infuriava in lui e gridato sino a irritarsi la gola. Aveva pianto, sferrato pugni sul terreno, maledetto un dio in cui non aveva mai creduto. Con unghie incrostate di fango, si era graffiato ripetutamente la pelle delle braccia, nella speranza che il dolore fisico cancellasse quello che gli ruggiva dentro: ma, grazie alla sua natura soprannaturale, le ferite erano guarite dopo pochi secondi, incuranti del suo bisogno, delle sue suppliche di restare aperte.

Tutto ciò era servito soltanto a stremarlo. La rabbia, il senso di colpa, la tristezza, la solitudine non erano arretrate di un passo, come ostinati soldati decisi a non porre fine all’assedio per niente al mondo. Anzi, si erano aggrappate ai suoi organi interni con rinnovata determinazione, artigliando la sua anima, divorandola come voraci parassiti.

Una volta tornato a casa, dopo essersi assicurato che Deirdre stesse dormendo profondamente, si era chiuso a chiave in camera, cacciando fuori Poe. Non si era nemmeno svestito a parte per le scarpe, seppellendosi lesto sotto le coperte in un vano tentativo di nascondersi da tutto e tutti.

Adesso, imbacuccato in un bozzolo di stoffa, in gabbia tra le mura della sua camera, riviveva in loop l’incendio alla villa dei Morgan, incapace di sottrarsi al vortice che lo risucchiava giù, sempre più giù, in un abisso nero da cui non c’era via d’uscita.

Non vedeva che oscurità e fiamme intorno a sé. Nelle sue orecchie riecheggiavano ancora le urla strazianti delle streghe. Le avrebbe anche ignorate se non fossero state accompagnate dai singhiozzi di Poppy e Sheila.

Non sapeva cosa lo spaventava di più: venire rintracciato dalla polizia e accusato di incendio doloso e omicidio, oppure il delirio di onnipotenza che lo aveva pervaso quando aveva mietuto le vite delle sue vittime con il fuoco.

Mentre osservava i corpi delle streghe bruciare, lì per lì non aveva provato niente. Vuoto totale, indifferenza. Più tardi, ripensandoci, aveva avvertito una risata folle ribollire in gola. Per quanto volesse negarlo, si era sentito eccitato, invincibile. La brama di vendetta aveva offuscato tutto il resto, lasciandolo in balia di un istinto primitivo che lo spingeva a reclamare il sangue di coloro che gli avevano fatto un torto, senza mostrare alcuna pietà.  

Una grossa parte di lui non era affatto pentita di aver preteso giustizia, specialmente da Fiona. La strega aveva confessato di aver ucciso sua madre e aveva tentato di uccidere pure lui, perciò si era meritata quella fine. Dove avesse trovato i due vampiri, Regan non lo sapeva. Ma se c’era una cosa su cui non nutriva alcun dubbio, questa era che Fiona aveva firmato da sola la sua condanna quando aveva deciso di orchestrare l’omicidio di Shannon.

Le cose che gli aveva sussurrato nello studio lo avevano scosso ancora di più: per un terzo stregone, per un terzo vampiro, per un terzo demone. L’ennesima prova che Regan non possedeva neanche una briciola di purezza. Più ci rimuginava, più lo trovava assurdo, agghiacciante. Era già venuto a patti con la propria natura abominevole quando aveva scoperto il retaggio vampiresco, poi quello magico, e ora disperava al pensiero di dover ricominciare da capo. Se Fiona aveva detto il vero – e Regan sentiva che non era una menzogna – allora la sua esistenza assumeva tutto un altro peso sulla bilancia morale, che già prima pendeva verso la zona grigia.

Altre domande fecero capolino nella sua mente, fiaccata dal rimorso e dal lutto: suo padre era ancora vivo? Era al corrente di avere un figlio? Il suo nome era davvero Stefan Black? Il Consiglio dei Sei gli avrebbero dato la caccia, non aveva dubbi, ma quanto ci avrebbero messo a stanarlo?

E Deirdre… lo avrebbe scoperto. La notizia dell’incendio di sicuro sarebbe finita sui notiziari, data l’alta conta delle vittime. Non importava che fosse stata legittima difesa, almeno per quanto concerneva Fiona. Oltre a non provare alcun rimorso durante e dopo l'atto, c'era stato un momento in cui aveva addirittura goduto nel trucidarli tutti. Rabbrividì, domandandosi cosa diavolo ci fosse di sbagliato in lui.

Era un assassino.

Si seppellì di più nel bozzolo caldo delle coperte, che nulla poteva contro il gelo che gli aveva invaso le ossa. La prospettiva di restare lì per almeno una settimana era allettante, ma dopo un'oretta si impose di alzarsi.

Mentre si faceva la doccia, si arrovellò per imbastire una storia convincente, tralasciando l’omicidio di massa e i segreti che gli aveva rivelato Fiona. Se Deirdre avesse saputo che Regan aveva anche sangue di demone nelle vene, temeva che non avrebbe accolto la “lieta novella” con un sorriso entusiasta. 

Si asciugò in fretta, si vestì con una tuta e scese in cucina a fare colazione. Non si stupì nel trovare Deirdre intenta a sorseggiare il suo tè davanti ai fornelli, fasciata dall’immancabile vestaglia lilla. I capelli rossi erano legati in una crocchia disordinata, le palpebre semi chiuse.

Poe saltò sul tavolo e lo salutò con un miagolio. Regan curvò le labbra nella brutta imitazione di un sorriso. Non appena lo prese in braccio per fargli le coccole, scusandosi tacitamente per il trattamento che gli aveva riservato la notte prima, il gatto produsse un concerto di fusa che sciolse una parte dello strato di ghiaccio che gli ricopriva il cuore.

“Buongiorno, leprotto. Sei rincasato tardi. Non ti ho sentito.”

Regan si sedette a tavola, usando Poe come scudo contro le occhiate indagatrici della donna.

“Sì, intorno alle tre del mattino. Il viaggio è andato bene.”

“E il soggiorno? I tuoi messaggi erano parecchio sintetici…”

“Prima posso avere qualcosa da mangiare? Sto morendo di fame.”

“Toast e succo? Non ho preparato i pancake perché non sapevo quando ti saresti svegliato.”

“Va bene, grazie.”

Deirdre ignorò la smorfia mesta del nipote e gli pose di fronte un piatto con due toast imburrati e un bicchiere di succo d’arancia corretto con del sangue. Regan si fiondò subito su quest’ultimo, non badando ai tentativi furtivi di Poe di rubare uno dei toast.

“I Morgan sono stati molto ospitali. Mi hanno insegnato un paio di trucchetti e mi hanno aiutato a capire come bandire il demone.” snocciolò velocemente in tono distaccato, simulando una calma che non provava, “Ho conosciuto Sheila, la madre di Shannon. È stata gentile. Mi ha raccontato alcuni aneddoti su di lei. Il cibo era ottimo, la compagnia piacevole…”

Deirdre prese posto dall’altro lato del tavolo. Posò la tazza, intrecciò le dita e lo guardò con sussiego.

“Non sono nata ieri, Regan. Dimentichi che ti conosco come le mie tasche? Lo vedo che sei turbato.”

Poe riuscì ad appropriarsi di un toast e balzò giù dalle ginocchia del padroncino per andare a sgranocchiarselo sul termosifone in salotto.

Regan si morse un labbro, percependo montare l’agitazione. Voleva raccontarle cosa aveva fatto. Voleva togliersi quel peso dallo stomaco, ricevere la giusta punizione. Voleva purificarsi, disfarsi del male che lo ricopriva come una seconda pelle. Ma le parole sembravano non avere alcuna intenzione di venire fuori. La verità rimase bloccata da qualche parte tra lo sterno e la coscienza, una massa infetta che bruciava come sale su una ferita. La paura di perdere l’affetto dell’unica persona che lo amava, dell’unica famiglia che aveva, e diventare bersaglio del suo disgusto, disprezzo e ira, assunse la forma di una muraglia invalicabile. Al contrario, le bugie saltarono sull’attenti e si appropriarono senza indugio del palcoscenico, reclamando con facilità ancora una volta lo spazio che erano convinte di meritare. Dopo aver rapito un paio di verità per camuffarsi meglio, diedero inizio allo spettacolo.

“All’inizio erano tutti cordiali, ma quando hanno scoperto cosa sono… non erano felici di avermi lì con loro. C’era un’atmosfera tesa. Non ero il benvenuto. L’unica che mi trattava con gentilezza era Sheila. Ieri, la strega a capo della congrega mi ha fatto capire che avrei fatto meglio a non farmi vedere mai più. Fine della storia, titoli di coda.”

Deirdre assottigliò le palpebre, sospettosa, ma poi la sua espressione si ammorbidì e gli rivolse un sorriso triste.

“Mi dispiace, Regan. Mi dispiace moltissimo. Speravo che questo viaggio ti avrebbe giovato, non che ti strappasse il sorriso. Però, guardiamo il lato positivo: almeno hai trovato qualcosa che possa aiutarti a combattere il demone, giusto?”

Per una frazione di secondo, Regan fu tentato di chiedere “Quale? Quello dentro di me o quello che sta infestando la città?”, ma si morse la lingua in tempo.

“Ho delle fotocopie di alcuni rituali di esorcismo.”

Deirdre si accigliò: “Per compiere un esorcismo serve-”

“Un sacerdote, lo so.” la interruppe, “Comunque, prima devo procurarmi delle prove.”

“Prove?”

“Non siamo certi che si tratti di uno Shedim. Quindi, finché non avremo trovato delle prove, non ci sarà alcun esorcismo.”

“Mi sembra ragionevole. E rischioso. Aspettare ancora significa restare inerti mentre altre persone vengono divorate dal demone. È un prezzo che sei disposto a pagare?”

“Ho altra scelta?”

“Temo di no.”

La donna sospirò e si alzò. Prima di mettere la tazza sporca nell’acquaio, si chinò per scoccare un bacio tra i capelli ancora umidi del nipote.

“Bentornato a casa, leprotto. Mi sei mancato.”

Regan l’abbracciò e, col naso affondato nell’incavo del suo collo, si riempì i polmoni del suo odore di gelsomino e miele, cercando di imprimerselo non solo nella memoria, ma anche nell’anima.

Deirdre, sorpresa da quello slancio di affetto, rimase paralizzata per qualche istante. Poi si rilassò e lo abbracciò di rimando, conscia che c’era qualcosa che il nipote non le stava dicendo. Decise di non indagare, per ora, e lasciargli tempo per digerire qualunque cosa lo turbasse.

Tornato in camera con Poe alle calcagna, Regan si chiuse la porta alle spalle. Il gatto andò a raggomitolarsi sul letto, mentre lui rimase in piedi in mezzo alla stanza a ponderare il da farsi. Un’occhiata al giubbotto abbandonato sulla sedia e la decisione fu presa.

Aprì la cerniera della tasca interna ed evocò dalla dimensione magazzino il libro che conteneva tutto il sapere che Sheila aveva assorbito per lui. Si sedette alla scrivania e cominciò a sfogliarlo. Notò subito che molti dei testi trascritti erano in altre lingue. Nonostante non le conoscesse, il suo cervello le tradusse senza problemi, svelandogli gli arcani segreti di cui erano depositarie.

Si imbatté anche in una caterva di rituali, sia per evocare che per bandire i demoni. Come Sheila gli aveva detto, i rituali erano diversi a seconda delle culture, o addirittura del rango dei demoni. Se questi erano deboli, i rituali erano piuttosto semplici; se erano forti, i rituali apparivano più complicati, con ingredienti di difficile reperibilità.

Appuntò sul quaderno che aveva dedicato al demone di Ashwood Port i dettagli che gli sembrarono più utili, dalle formule ai pentacoli, persino liste di probabili ingredienti. Poi comparò i rituali a quelli fotocopiati che gli aveva fornito Rabbi Joseph. Notò subito delle somiglianze.

A quel punto, un’idea audace si fece strada nel suo cervello. Infatti, se, in qualche modo, fosse riuscito a creare un rituale di esorcismo pseudo-universale, in grado di cacciare demoni di culture diverse, non avrebbe più corso il pericolo di rimanerci secco nel caso in cui avesse sbagliato a catalogare un demone. Cioè, se lo Shedim alla fine si fosse rivelato qualcos’altro, poco male, il rituale avrebbe funzionato comunque. Era un azzardo, però. Un solo errore poteva costargli la vita. Un solo simbolo errato, un ingrediente sbagliato, o la mancanza di un simbolo o un ingrediente fondamentale avrebbe potuto rivelarsi fatale.

Trascorse ore a leggere, studiare e memorizzare, perdendo la nozione del tempo. Quando il cellulare squillò, sussultò ed inspirò violentemente. Sullo schermo c’era il nome di Derek. Non aveva alcuna voglia di parlarci, ma non poteva sottrarsi. Così accettò la chiamata e si portò il cellulare all’orecchio.

“Ciao.”

“Ciao. Ti disturbo?”

“No. Dimmi.”

“Come stai? Scusa se non ti ho mai chiamato in questi giorni… ho avuto da fare.”

“Tranquillo. Anch’io sono stato molto impegnato.”

“A che ora torni oggi?”

“A notte fonda.”

“Ti vengo a prendere a Salem in macchina?”

“No, lascia stare. Ci vediamo domani a scuola.”

“Che hai? Ti sento un po’ mogio.”

“Ho parlato con il rabbino. Dice che per compiere un esorcismo serve un sacerdote.”

“Questo avrei potuto dirtelo io.”

“E che devo trovare delle prove a sostegno della mia teoria. Finché non sarò sicuro al cento percento, l’esorcismo non potrà essere praticato. Il rabbino mi ha fatto intendere che, se andiamo avanti alla cieca, la morte è una possibilità concreta.”

“Come pensi di trovare queste prove?”

“Non lo so. Non è successo più niente da quando sono partito?”

“Tutto tace.”

“Mmm. E l’agente Bennett? Pianifica ancora di farmi una visitina?”

“No, è sotto controllo. I cacciatori, però, iniziano ad agitarsi. Se il demone attaccherà di nuovo, non credo di esagerare dicendo che ti daranno carta bianca per cacciarlo. Io dovrò essere al tuo fianco quando e se accadrà, ma non mi metterò fra te e qualsiasi cosa tu voglia fare. A patto che il demone venga definitivamente distrutto o bandito.”

Regan si passò una mano tra i capelli e sospirò. Era tentato di rivelare a Derek che il demone in questione aveva posseduto una Gorgone, ma qualcosa glielo impediva, come se il suo sesto senso gli stesse suggerendo di non fidarsi. Gli venne voglia di sbuffare. Non si era mai fidato di Derek, non c’era bisogno che il suo subconscio lo mettesse in guardia di nuovo.

“Farò altre ricerche, anche se non ti prometto nulla. Ci vediamo domani.”

“Okay. A domani. Oh, Regan?”

“Mh?”

“C’è altro che devi dirmi?”

A Regan non sfuggì il tono insinuante. La prima cosa che gli balenò in mente fu l’incendio alla villa dei Morgan. Poi rivide le facce bagnate di lacrime di Poppy e Sheila, i loro corpi carbonizzati riversi sul pavimento, simili a bambole rotte. Il suo naso si riempì dell’odore di carne bruciata, le sue orecchie delle grida agonizzanti delle streghe. E la sua gola si chiuse.

“No.” rispose.

“D’accordo. A domani, allora.”

“Sì, a domani.”

Regan spense il telefono e lo gettò con malgarbo sulla scrivania. Nascose la faccia tra le mani, i denti stretti fino a farsi dolere la mandibola e un urlo di rabbia, impotenza e frustrazione incastrato nello sterno.

 
*

Giunto a scuola lunedì, il primo ad approcciarlo fu Roman. Il licantropo gli corse incontro e lo avviluppò in un abbraccio spaccaossa, il naso affondato nell’incavo del collo di Regan e le dita artigliate al suo giubbotto.

Regan gli diede un paio di leggere pacche sulla schiena mentre aspettava che Roman lo annusasse per bene. Poi si staccò e si lasciò esaminare dal suo sguardo critico, cercando di sopprimere le emozioni come Deirdre gli aveva insegnato. Stranamente, gli risultò difficile. Da quando era tornato, l’unica cosa che desiderava nel profondo era qualcuno con cui confidarsi totalmente, aprire il suo cuore senza timore di venire giudicato male e vomitare tutta la tempesta emotiva che gli infuriava dentro.

“Stai bene?” gli chiese Roman, una smorfia preoccupata stampata in viso.

“Sono solo stanco. Il viaggio è stato lungo.”

Roman corrugò la fronte e piegò la testa. Regan impose al proprio cuore di rallentare e al cervello di bandire qualsiasi ricordo relativo ai giorni scorsi.

“Okay.” pronunciò lentamente il lupo, senza smettere di scrutarlo, “Novità?”

“Te lo dico dopo, questo non è il posto adatto. Con Jennifer come sta andando?”

“Se la cava, tutto sommato. Si sta ancora abituando alla situazione. Mio padre è più che soddisfatto, invece. È convinto che lei sia la compagna perfetta per me. Non ti starò a elencare tutti i momenti imbarazzanti che si sono susseguiti uno dietro l’altro da quando è entrata nel branco. Ci manca solo che ci afferri entrambi per la collottola come due cuccioli e dica ‘Ora baciatevi’.”

Regan soppresse una risatina: “E tu? Come te la passi?”

“Rimpiango i giorni tranquilli e la libertà. Senza contare che tra poco ci sarà la luna piena…”

“Programmi?”

“Io andrò a correre. Jennifer resterà con mio zio nel bunker.”

Si incamminarono lentamente verso l’entrata, dove un nutrito gruppo di popolari li stava aspettando. Le ragazze non persero tempo. Si fiondarono subito su Regan, appiccicandosi a lui con le ventose, e squittirono eccitate nelle sue orecchie.

Accorgendosi di come il loro odore stesse inesorabilmente coprendo il suo, Roman represse a stento un ringhio di gelosia.

 “Regan! Mi sei mancato! Come hai passato le vacanze?” partì alla carica Lorie.

“Regan, vieni qui, abbracciami!” si intromise Mary, stampandogli un bacio su una guancia.

“Ragazze, non lo monopolizzate.” le redarguì James.

“Fate largo, arriva il fratello maggiore.” disse Mike, sgomitando tra i coetanei, e cinse con un braccio le spalle di Regan per pilotarlo dentro la scuola, “Ti trovo in forma, sei fantastico, mi sei mancato, eccetera. Ora, bando ai convenevoli e parliamo di cose serie. A breve avremo un’altra partita. Come l’ultima volta, voglio vederti sugli spalti a fare il tifo.”

“Non dovreste studiare?”

Peter abbaiò una risata: “Ben detto! Il coach ci ha minacciati, sai? Se non abbiamo la sufficienza in tutte le materie, ci sbatterà fuori dalla squadra.”

“Io sono sotto a Chimica e Biologia.” ammise Mike, d’un tratto moscio.

“Io a Storia.” disse James.

“Io a Matematica e Letteratura.” mormorò Tyler.

Uno ad uno, tutti i membri della squadra di football elencarono le materie in cui avevano l’insufficienza. Poi fu il turno di quelli di basket. Lo stupore dilagò quando Roman rivelò di avere una media abbastanza alta.

“Come diavolo fai?” pretese di sapere Zack.

“A volte Regan mi aiuta. È avanti rispetto a noi, anche se è al primo anno.”

“Oh, un genietto!” chiocciò Mike, spettinandogli i capelli con una mano, “Daresti ripetizioni anche a m-”

La campanella suonò. Gli studenti imprecarono, corsero verso gli armadietti per prendere i libri e si precipitarono verso le rispettive aule, con la promessa di ritrovarsi a mensa.

Regan e Roman, avendo Francese insieme alla prima ora, si diressero in classe come meno furia, dato che Miss Rochelle arrivava sempre con cinque minuti di ritardo.

Sedendosi al banco, Regan realizzò che non aveva visto né Derek né il duo Charlotte-Jennifer. O, almeno, non erano stati presenti al comitato di benvenuto.

“Dove sono Jennifer, Charlotte e Derek?” domandò a Roman.

Lui scrollò una spalla: “Jennifer è nei paraggi, sento il suo odore. Charlotte e Derek… non ne sono sicuro.”

Miss Rochelle entrò in classe sventolando un plico di fogli.

Bonjour! Pronti per un test a sorpresa?”

Tutti grugnirono, tranne Regan, che accettò il test con aria tranquilla.

“Mi sa che ho parlato troppo presto.” borbottò Roman, “Un’insufficienza a Francese non me la leverà nessuno.”

Regan occhieggiò in direzione del suo compito e bisbigliò: “Coniugazione dei verbi in -ir, aggettivi possessivi e domande. Li abbiamo ripassati meno di un mese fa, ricordi? Ti avevo fatto gli schemi sul quaderno.”

Roman si illuminò e i suoi occhi brillarono di rinnovata speranza.

Alla seconda ora si diresse a Chimica. Condivideva la classe con Jennifer, Charlotte e Derek. Appena Regan entrò, notò che il cacciatore era assente. Jennifer, invece, puntò lo sguardo su di lui e annusò l’aria. Subito dopo, Regan scorse la luce riflettersi su un canino appuntito. Charlotte non se ne accorse, occupata a digitare qualcosa sul cellulare.

Regan diede loro le spalle e fece del suo meglio per non badare a Jennifer, anche se era dura ignorare i solchi che la sentiva scavare nella sua schiena con gli occhi. Non si illudeva di riuscire a evitarla per sempre. Presto si sarebbero trovati faccia a faccia e allora, senza dubbio, la verità sarebbe venuta a galla. Fino a quel momento, tuttavia, si sarebbe impegnato a restare fuori dalla portata del radar lupesco della ragazza, per quanto possibile.

Alla terza ora, Regan si diresse in biblioteca a studiare. Aveva un test di latino dopo pranzo. Anche se non aveva bisogno di ripassare, decise che era un buon modo per tenere la mente occupata e smettere di pensare all’incendio.

Si sedette a un tavolo vuoto in mezzo a due file di scaffali e tirò fuori i libri. La biblioteca era semi deserta. Ogni tanto udiva il fruscio delle pagine di un libro o il picchiettare di dita su una tastiera, i classici rumori di sottofondo che riuscivano sempre a favorire la sua concentrazione. Ma non oggi, a quanto pareva, perché non faceva che distarsi al minimo suono.

Dieci minuti dopo, percepì un battito cardiaco in avvicinamento, accompagnato da un odore familiare. Si sforzò di non tradire alcuna emozione e incanalare pensieri positivi. Soprattutto, si ripeté di non pensare all’incendio.

Derek si sedette sulla sedia accanto alla sua e si sporse a scoccargli un casto bacio su una guancia.

“Ciao.”

“Ciao. Dov’eri?” gli chiese Regan.

“Sono entrato poco fa. I soliti impegni di famiglia. Che studi?”

“Latino.”

“Perché? Scommetto che sai già tutto.”

“Sto cercando di non pensare a ciò che mi aspetta.”

“Cioè?”

Regan gli lanciò un’occhiata in tralice: “Esorcismo? Demone? Ti ricorda niente?”

“Hai un piano?”

“Sai, potresti renderti utile invece che stare a girarti i pollici e lasciare a me tutto il lavoro sporco.”

“Che vuoi che faccia?”

“Aiutami a raccogliere prove.”

“Okay. Da dove cominciamo?”

“E io che ne so? Sei tu l’esperto di queste cose.”

“Mi sopravvaluti.” Derek fece passare un braccio attorno alle spalle di Regan e lo trasse a sé, “Rilassati. Respiri profondi.”

Regan si scostò in malo modo e sibilò: “Rilassarmi è proprio la cosa che non voglio più fare. Devo agire. Non c’è più tempo.”

“Chi lo dice?”

“Lo sento.”

Derek sospirò, scansò di poco la sedia e si girò a fronteggiarlo, sfoggiando un’espressione seria che poco si addiceva alla sua giovane età.

“Che è successo ad Athens?”

Regan si irrigidì. Aveva controllato i siti dei giornali di Athens appena si era svegliato e, come si aspettava, aveva visto la notizia dell’incendio campeggiare su tutte le testate di ogni singolo quotidiano e telegiornale locale. Non era traspirato ancora niente, però, al di fuori dell’Ohio, quindi non era certo che Derek sapesse. In ogni caso, il suo fiuto si era spesso dimostrato eccellente, perciò se non lo sapeva ancora, lo avrebbe saputo presto.

“Qualcosa ti turba, lo vedo. Avanti, cosa c’è?” insisté il cacciatore.

“Niente. Sono solo… stressato. Il viaggio non è andato come speravo. Sono tornato con un pacco di rituali fotocopiati e più incertezze di quando sono partito. Volevo trovare risposte, invece sto ancora affogando nelle domande. Desidero soltanto liberarmi di questo demone e riavere indietro la mia vita. Nonostante tutto, era tranquilla, serena…”

“Noiosa…”

“La noia è sottovalutata. Non sai quante volte l’ho rimpianta nell’ultimo periodo.”

“Ti penti di come sono andate le cose?”

“In parte, sì. Avrei potuto gestire meglio alcune situazioni, evitarne delle altre… col senno di poi siamo tutti bravi a pentirci di certe scelte.”

Derek mugugnò un assenso e, dopo qualche secondo di silenzio, chiese: “Ti sei mai pentito di noi due?”

“Spesso. Quello che abbiamo è così complicato che rimuginarci su mi provoca il mal di testa. I nostri mondi non sono capaci di coesistere come vorremmo. Sono sicuro all’80 percento che finirà in tragedia.” rispose schietto.

“Wow, non ti facevo così ottimista: solo l’80 percento.” scherzò, e il tentativo per sdrammatizzare funzionò.

Regan sbuffò una risata e, un po’ più rilassato, lo guardò negli occhi. Le lampade al neon sul soffitto li facevano apparire più scuri, tanto che la pupilla si confondeva con l’iride. I capelli biondi erano cresciuti di un paio di centimetri, dandogli un aspetto più adolescenziale e meno da uomo vissuto. La mascella squadrata incorniciava due labbra carnose curvate in un lieve sorriso.

Il cacciatore azzerò la distanza che li separava e lo baciò con trasporto. Una mano andò a posarsi sulla nuca di Regan, le dita intrecciate nei riccioli corvini, e l’altra si ancorò al bordo del tavolo. Sospirò sulla sua bocca, come se avesse finalmente ricevuto una nuova dose della sua droga preferita dopo un interminabile periodo di astinenza.

“C’è una cosa che devo dirti, Regan.” sussurrò sul suo collo, alitandogli sulla pelle.

“Cosa?”

Derek non fece in tempo a rispondere, perché la campanella che segnalava la fine dell’ora suonò. Sobbalzarono entrambi e si staccarono con una smorfia.

“Non importa. Te lo dirò più tardi.” disse il biondo, anche se il suo tono di voce comunicava il contrario.

“Okay. Ci vediamo in mensa?”

“No, approfitterò della pausa pranzo per ripassare Storia.”

Regan annuì, raccolse i libri e si caricò nuovamente lo zaino in spalla. Si accodò a Derek per uscire dalla biblioteca. Giunti in corridoio, si salutarono con un cenno e imboccarono direzioni diverse.

Più tardi, prima di recarsi a mensa, Regan fece una sosta in bagno. Mentre svuotava la vescica, lasciò la mente libera di vagare su pensieri di poco conto, godendosi miseri attimi di agognata pace. Qualche divinità non dovette gradire, perché all'improvviso Regan udì un rumore secco provenire da uno dei cubicoli. Si tirò su la zip e si voltò di scatto, in tempo per vedere una bottiglia di whiskey rotolare sulle piastrelle e fermarsi in mezzo al bagno.

Con i muscoli contratti per la tensione e l’adrenalina, Regan si avvicinò al cubicolo da cui la bottiglia era sbucata fuori. Posò un palmo sulla superficie liscia della porta. Esercitando una lieve pressione, la costrinse ad aprirsi. I cardini emisero un cigolio sinistro che rimbalzò su tutte le pareti. Regan rilasciò il fiato di colpo quando vide che il cubicolo era vuoto.

Un momento dopo, la porta del bagno venne spalancata bruscamente, provocandogli un vistoso sussulto e un principio di infarto.

“Cazzo!” imprecò.

“Regan, stai bene?” domandò Roman.

Sfoggiando un’espressione preoccupata, il licantropo gli si avvicinò e posò lo zaino sul pavimento. Regan abbassò lo sguardo e vide che la bottiglia era sparita. Scrollò la testa e si diresse ai lavandini per lavarsi le mani.

“Sto bene.” grugnì.

L’altro annusò l’aria e fece una smorfia disgustata: “Puzzi di Derek.”

“E tu di cane bagnato. Perché non sei in mensa?”

“Potrei farti la stessa domanda.”

Regan si sciacquò velocemente la faccia e prese un paio di salviette per asciugarsi.

“Dovevo pisciare. C’è altro che vuoi dirmi, oltre a commenti non richiesti sul mio odore?”

Roman sospirò e infilò le mani nelle tasche dei jeans: “Jennifer.”

“A-ha?”

“Aveva promesso di mantenere il segreto della mia famiglia, ma credo che lo abbia spifferato a Charlotte.”

“Da cosa lo hai capito?”

“Ho incrociato Charlotte in corridoio pochi minuti fa. Oltre a restare a debita distanza, mi ha guardato dall’alto in basso, come se cercasse qualcosa, ed era… non lo so, rigida, in all’erta, quasi si aspettasse di essere attaccata. È evidente che sa.”

“Non mi stupisce.” disse Regan.

“Cosa?” domandò il licantropo, mettendosi sulla difensiva.

“Che Jennifer abbia sputato il rospo. Non mi sarei mai fidato di lei a prescindere. Ti aspettavi davvero che una ragazzina di sedici anni avrebbe mantenuto un segreto così grande con la sua migliore amica? Lei e Charlotte si conoscono dall’asilo, sono pappa e ciccia. Si dicono tutto. Non mettere in conto una simile eventualità è stato un errore da parte tua. Anzi, di tutto il branco.”

Roman assottigliò le labbra e distolse lo sguardo, puntandolo sul loro riflesso nello specchio. Regan appoggiò un fianco ai lavandini e incrociò le braccia sul torace.

“Se può consolarti, Charlotte è più brava a tenere la bocca chiusa. Non dico che il segreto è al sicuro con lei, perché adesso che sta con Zack è possibile che un giorno si lasci sfuggire qualcosa. Sono ragazzini, Roman, non puoi riporre su di loro assurde aspettative.”

“Tu sei un ragazzino, eppure mi fido ciecamente.”

“Io sono speciale.” ghignò, “E ti ricordo che ho affidato a te il mio segreto come garanzia. Ho da perdere tanto quanto te se venisse fuori.”

Roman fu su di lui in un attimo, le braccia avvolte attorno al suo busto e il naso affondato tra i suoi riccioli. Regan si impietrì, gli occhi sbarrati fissi sul muro.

“È vero, mi hai dato la garanzia che non avresti parlato. Ma anche se non mi avessi affidato il tuo segreto, so che non avrei avuto nulla da temere. Se c’è una cosa di te che ho capito, è che sei leale con chi ritieni degno della tua lealtà. È un dono che non ho mai dato per scontato, e mai lo farò.”

Si scostò di qualche centimetro. Il suo sguardo intenso di specchiò in quello di Regan. Le loro fronti aderirono. Le mani di Roman salirono ad accarezzargli le guance fredde a palmi aperti, i pollici a sfiorare le ciglia nere e gli zigomi.

Il momento si protrasse per incalcolabili istanti, sospeso nel tempo e nello spazio, finché Roman non lo spezzò facendo la prima mossa. Chinò il capo, abbastanza da portare le labbra alla stessa altezza di quelle di Regan, e le sfiorò leggero, quel tanto da saggiarne timidamente la consistenza.

Il ricordo dell’unico bacio che avevano condiviso, alla festa di Halloween, si era impresso a fuoco nella sua memoria. Da allora, aveva desiderato spesso ripeterlo. Lo aveva sognato, addirittura, insieme a tante altre cose. E adesso che stava accadendo, doveva sforzarsi il doppio per impedire ai propri arti di mettersi a tremare.

Regan, sorprendentemente, non si ritrasse, né lo insultò. Rimase immobile a scrutarlo con una maschera granitica. Nemmeno il suo odore trasmetteva niente. Pareva una statua.

Roman deglutì e si umettò le labbra. Inspirò la fragranza della sua pelle per riempirsene i polmoni, nel caso in cui quella fosse l’ultima volta che Regan gli avrebbe concesso di farlo. Le sue ciglia sfarfallarono per il piacere, le palpebre scesero a mezz’asta, le pupille si dilatarono e il cuore accelerò.

“Sai che il mio lupo ti considera branco?” bisbigliò dopo qualche istante, spezzando il silenzio che si era protratto fin troppo per i suoi gusti, e subito dopo maledisse il tremolio nella sua voce.

“Lo immaginavo. Non sei sottile come pensi.” sbuffò Regan in tono piatto.

“Perché non hai mai detto niente?”

“Perché non esiste che tuo padre mi accetti nel suo branco, Roman. Quindi che senso ha parlarne?”

“Non il branco di mio padre. Il mio branco.”

Regan aggrottò le sopracciglia e sollevò il capo per scoccargli un’occhiata confusa. Roman lesse senza difficoltà la domanda che aveva scritta in faccia.

“Il branco di mio padre non è più il mio da quando ti ho conosciuto. Ci ho messo un bel po’ a capirlo. Tu hai cambiato tutto, Regan. Mi hai fatto dubitare, hai polverizzato le mie certezze, ma mi hai anche dato ciò di cui non sapevo di avere bisogno.”

“E sarebbe?”

Regan si sentiva leggermente a corto di fiato, non sapeva se per la tensione che Roman gli stava trasmettendo con le sue confessioni o per l’atmosfera solenne che era piombata su di loro tutto d’un tratto.

“Un vero alfa. Un capo degno della mia lealtà. Un compagno a cui posso affidare la mia vita. Un amico per cui sarei disposto a sacrificarla.”

In quel momento, Regan ebbe un tuffo al cuore. Emozioni che non sapeva di poter provare ancora, non dopo il severo addestramento a cui Deirdre lo aveva sottoposto, tornarono a galla prima che riuscisse a fermarle. Gratitudine, serenità, speranza lo investirono con la forza di una valanga.

Roman non era più solo un amico, era diventato un pilastro della sua esistenza, come Deirdre e Hillary. La sua amicizia era stata una costante sin da quando era arrivato, e non lo aveva mai deluso. Roman c’era sempre stato, in un modo o nell’altro, anche quando Regan aveva tentato di allontanarlo, o quando lo aveva sminuito e umiliato. Roman era rimasto con lui tra alti e bassi, con una fedeltà che Regan trovava scioccante.

Fu sconcertante realizzare di non essere più solo. Ora aveva qualcuno su cui poter contare veramente, una creatura soprannaturale come lui, che comprendeva le sue angosce meglio di chiunque altro. Per quanto amasse Deirdre, lei non era abbastanza potente per aiutarlo ad affrontare i pericoli disseminati sul suo cammino; e Hillary, nonostante la sua posizione di sceriffo, non poteva accompagnarlo nella strada che aveva imboccato. Roman, invece, aveva tutte le carte in regola per seguirlo ovunque, persino nelle profondità più remote della notte.

Erano un branco. Composto solo da due persone, sì, ma non meno unito e importante. Aveva perso la famiglia di sua madre e l’unico legame di sangue che gli era rimasto, ma con Roman ne aveva guadagnata un’altra che andava al di là del sangue, altrettanto forte e compatta.

E Roman lo considerava il suo alfa, una guida e un protettore. Regan avrebbe fatto di tutto per non deluderlo, per dargli ciò di cui aveva bisogno e, al contempo, prendere da lui la forza per restare ancorato al suo vero io. Allora seppe che sarebbe morto per Roman, che si sarebbe preso cura di lui finché avesse avuto fiato in corpo e che niente avrebbe mai potuto spezzare il loro legame.

Deglutì e ricacciò a fatica le emozioni nel caveau da cui erano saltate fuori. Una parte di esse, però, continuò a indugiare nel suo cuore, riluttante ad abbandonarlo.

“So che mi avevi ordinato di starti lontano per via del demone, ma non posso, Regan. Non posso. Io-”

“Roman.”

Roman interruppe i suoi balbettii e ammutolì.

“Grazie.” proferì serio Regan.

Si accostò di più a lui, sollevò il mento e premette le labbra sulle sue in un bacio casto e intenso. Notò che Roman stava tremando, così gli artigliò le spalle per rassicurarlo. Quando si staccò, gli elargì un piccolo sorriso.

“Se lo vorrai, sarai il mio braccio destro nella battaglia che verrà. Come mi hai ripetuto giorni fa, non posso combattere il demone da solo.”

“Sono con te, alfa.” rantolò, sopraffatto dall’euforia, e le sue iridi si tinsero di giallo, “Sempre.”

“Bene. Passa da me mercoledì pomeriggio. Dobbiamo elaborare un piano di attacco.”

“Perché mercoledì?”

“Oggi ho da fare e domani tu hai gli allenamenti di basket.”

“Ah, giusto. Hai già in mente qualcosa?”

“Forse. Ne parleremo mercoledì, a casa mia.”

“Okay…”

“Piuttosto, potremmo avere un problema ora che Jennifer è un lupo mannaro.” disse Regan.

“Quale?”

“Se non lo ha già fatto, mi fiuterà presto. Capirà subito che ho qualcosa di diverso. Oggi, a Chimica, mi ha guardato in modo strano.”

“Temi che possa diventare ostile?”

“Basta ricordare come ha reagito la tua famiglia quando sono venuto a casa tua quella volta.”

“Io non ho reagito male.”

“Tu non hai reagito affatto, perché sei tonto.”

“Hey!”

“Non avresti mai capito cosa sono se non te lo avessi scandito a chiare lettere. Inoltre…”

Si bloccò prima di terminare la frase, perché Roman non sapeva che Regan aveva usato il controllo mentale su Jennifer. Comunque, dal momento che era diventata un lupo mannaro, ergo una creatura soprannaturale, era più che probabile che adesso Jennifer sarebbe stata immune. E se avesse già realizzato che Regan le aveva fatto qualcosa? Se fosse tornata a quando non lo sopportava? In tal caso, non ci avrebbe messo molto a trascinare Charlotte dalla sua parte e, insieme a lei, tutte le altre ragazze del gruppo. Ad aprire loro gli occhi, per così dire. Regan non poteva permetterglielo.

“Niente. Andiamo a mensa, siamo già in ritardo.”

Roman gli lanciò un’occhiata confusa, ma non indagò.

A mensa, si sedettero al tavolo dei popolari. Regan venne accerchiato dalle cheerleader in un lampo, mentre Roman venne coinvolto in una discussione accesa sul basket dai suoi compagni di squadra.

Di Jennifer e Charlotte non c’era traccia. Ad ogni modo, Regan non abbassò mai la guardia, convinto che Jennifer sarebbe spuntata fuori alla prima occasione da qualsiasi anfratto in cui si stava nascondendo per saltargli alla gola. Non era una bella sensazione sentirsi braccati, e non c’era molto altro che potesse fare a parte restare vigile.

Okay, un problema alla volta. Mi occuperò di Jennifer dopo che avrò esorcizzato il demone e mi sarò sbarazzato dei cacciatori. Mi serve un piano.

“Regan, questo sabato verrai con noi a fare shopping.” dichiarò Lorie, e tutte le amiche annuirono d’accordo.

“Eh… e se avessi già altri impegni?”

“Sciocchezze. Cosa c’è di più importante dello shopping? E a te mancano camicie.”

“E scarpe.” aggiunse Claire, “Non credere che non abbia notato che porti sempre quei brutti anfibi.”

“I miei anfibi sono bellissimi, grazie. E comodi.”

“Stanno cadendo a pezzi! Come fai a non vederlo?”

“Okay, se gli piacciono gli anfibi, ne compreremo un paio nuovi.” disse Lorie.

Regan le osservò battibeccare fino alla fine della pausa pranzo, senza davvero ascoltarle, il cervello impegnato a elaborare una linea d’azione per gestire demone, cacciatori e Jennifer in rapida successione, se non addirittura nello stesso momento. L’adrenalina che gli trasmise quel pensiero scacciò l’ansia e le sue labbra si piegarono in un minuscolo ghigno.

Roman lo intercettò e gli rivolse uno sguardo interrogativo. Regan gli fece l’occhiolino e trangugiò mezza borraccia di acqua corretta con sangue.

 
*

Roman scese dalla macchina e improvvisò una corsetta verso la porta di casa. Si sentiva galvanizzato, su di giri, e non solo per aver baciato Regan. Il suo alfa lo aveva accettato ufficialmente nel branco e il lupo in lui scalpitava dal desiderio di renderlo orgoglioso, dimostrargli di essere degno del suo nuovo posto. Certo, doveva mantenere segreti gli ultimi sviluppi e impegnarsi a non lasciar trapelare nulla a suo padre, ma questo non smorzava affatto la sua eccitazione.

Udì il battito di sua zia e dei cugini al piano di sopra, ma quelli di sua madre e Sean erano assenti. Si diresse subito in biblioteca. Bussò rispettosamente e aspettò che gli venisse dato il permesso di entrare. Quindi scivolò all’interno e raggiunse Vincent alla scrivania.

“Regan è tornato.” esordì, fermandosi dinanzi a lui con la schiena dritta e il mento alzato come un bravo soldatino.

Vincent interruppe ciò che stava facendo e lo squadrò per lunghi secondi. Notò subito la totale assenza di sottomissione. Corrugò la fronte e si raddrizzò. Avvertiva qualcosa di diverso, ma non riusciva a individuarne la fonte.

“E?” indagò con voce neutra.

“Intendo assisterlo contro il demone.”

L’alfa sbuffò: “Roman, non fare lo stupido. Cosa credono di poter fare due ragazzini come voi contro un demone?”

“E tu cos’hai fatto finora per risolvere questo casino, oh grande e potente alfa?” lo sfidò.

Vincent si alzò di scatto. I suoi occhi divennero gialli e dalle labbra stirate sui denti, leggermente più appuntiti del normale, rotolò fuori un ringhio.

“Il tuo tono non mi piace, Roman.”

“Ho detto solo la verità. Sei persone sono scomparse, e tu stai qui a rigirarti i pollici invece di pattugliare la città in cerca della tua Gorgone. Almeno Regan si è dato da fare per trovare una soluzione. Non dico che dovresti comprargli un cesto regalo, ma ringraziarlo sarebbe il minimo.”

L’uomo aggirò la scrivania e torreggiò sul figlio, fulminandolo dall’alto con sguardo minaccioso. Quello sguardo grondava potere, così come l’aura che lo avvolgeva. Eppure, Roman non si piegò. Non abbassò la testa né mostrò la gola. Rimase immobile, gli occhi fissi in quelli del padre e i pugni stretti lungo i fianchi. Non nascose di essere intimorito, chiunque lo sarebbe al cospetto di un alfa arrabbiato, ma non lasciò che quel timore avesse la meglio su di lui.

“Sai, papà, comincio a capire perché Declan si rifiuti di tornare. Non riesci nemmeno ad ammettere i tuoi errori. Non sei onesto né con te stesso né con il tuo branco. So che vuoi proteggerci. So che lotteresti per noi fino al tuo ultimo respiro. So quante energie spendi per tenerci tutti al sicuro. Il problema è che non ti fidi di nessuno eccetto che di te stesso. Ed è proprio questo, la mancanza di fiducia, che sta spezzando i legami interni al branco. Capisco non volersi fidare delle altre specie, ma noi siamo licantropi come te. E io e Declan condividiamo il tuo sangue. Pretendi che eseguiamo i tuoi ordini senza protestare e rifiuti di ascoltarci, di dare un peso alle nostre parole. Ci affidi dei compiti solo quando ti serviamo, mentre per il resto del tempo è come se non esistessimo.”

Roman trasse un profondo respiro per calmarsi. Il battito del suo cuore rallentò e le mani si rilassarono. Litigare con suo padre non avrebbe portato a niente, e non era neanche il suo vero scopo.

“Non sono arrabbiato con te, papà. Non ne ho il diritto. So di essere giovane e inesperto, di avere ancora molte cose da imparare. Ma sentirmi umiliare un giorno sì e l’altro pure non mi aiuta a crescere, anzi. Mi stai bastonando da mesi, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Se è così, dimmelo. Se non lo è, smetti. Non sono più un cucciolo, ormai. Non ti seguirò più ciecamente se prima non vedrò ragionevolezza dietro le tue azioni e decisioni. Mamma potrà anche mostrarti la gola e obbedire in silenzio, io no. Non sono dolce come lei, né freddo e letale come Sean, né abile come Ruby, né intelligente come Declan, ma non significa che tu mi debba scartare a priori. Non significa che io sia inutile.” scandì pacato e curvò le labbra in un minuscolo sorriso, “Regan me lo ha fatto capire. È stato lui a insegnarmi che non c’è niente di male ad essere come sono, e lo ha fatto accettandomi lui stesso per primo. Non ha mai cercato di cambiarmi, a differenza tua. Per questo motivo lo aiuterò, che tu lo voglia o meno. Te lo sto dicendo perché mi piacerebbe avere il sostegno del branco. Non posso forzarvi, ovvio, ma spero che ci penserai.”

Vincent tacque. Non boccheggiò come un pesce fuor d’acqua solo perché conservava ancora un briciolo di contegno, ma la bocca si schiuse comunque di qualche millimetro. Osservò Roman come se lo vedesse per la prima volta, percependo una fitta al petto che gli mozzò il fiato.

Lo guardò uscire dalla biblioteca e, appena il tonfo della porta riecheggiò nell’aria, sobbalzò. Il silenzio piombò sull’alfa come un macigno. Le sue spalle si afflosciarono ed esalò un sospiro tremolante.

L’occhio gli cadde sui volantini e i moncherini di pietra adagiati sulla scrivania. Il senso di colpa conficcò gli artigli ancor più in profondità, scavò con rinnovato zelo, per poi lasciarlo a corto di ossigeno, con i palmi poggiati sul ripiano, il busto piegato in avanti e la testa china, incassata tra le spalle. Prostrato come un uomo sconfitto.

 
*

La radio sulla mensola stava riproducendo Don’t Fence Me In di Bing Crosby, accompagnando i movimenti esperti di Deirdre. Regan la osservava lavorare seduto sul ripiano accanto al lavandino, passandole gli arnesi del mestiere al momento opportuno, senza che lei glielo dicesse. Poe sonnecchiava sulle sue ginocchia, sazio e contento.

“C’è una cosa che ieri non ti ho detto.” mormorò Regan, una mano intenta ad accarezzare il pelo nero e soffice del gatto e l’altra protesa verso la nonna.

Deirdre gli riconsegnò le forbici e lui le depositò nella bacinella, insieme agli altri strumenti usati durante l’imbalsamazione.

“E sarebbe?”

“Vincent ha trovato alcuni resti delle persone scomparse, tempo fa, abbandonati in un fossato nel bosco.”

Deirdre si bloccò e si voltò verso Regan. Si tolse i guanti di lattice sporchi di sangue, gettandoli nel cestino, per poi aggiustarsi l’acconciatura e riposizionare il fermaglio.

“Perché non me lo hai detto prima?”

“Me ne sono dimenticato.” ammise sincero, “Comunque, quei resti erano pietrificati. A quanto pare, è opera di una Gorgone.”

Deirdre boccheggiò: “Una Gorgone?! Qui, ad Ashwood Port?”

“No, a Las Vegas. Sì, una Gorgone. E sono certo che lei e il demone lavorino insieme. Anzi, non proprio insieme. Penso che lui la stia possedendo.”

“Hai prove?”

“Il sibilo. I serpenti. I resti pietrificati delle vittime mietute dal demone. Lo so, non ha senso che una Gorgone collabori con un demone, perché loro non cacciano donne e bambini, solo uomini adulti. Ma se il demone la sta usando, tutto quadra. Resta da scoprire chi sia e dove si trovi la sua tana.”

Deirdre lo fissò con palese shock. Dopo qualche secondo, scrollò la testa e andò al lavandino con la bacinella degli strumenti per lavarli e disinfettarli.

“Ripetimi tutto quello che sappiamo. Lentamente. Fai un elenco.”

Regan sospirò e adagiò la nuca sul muro freddo, senza mai cessare di accarezzare Poe.

“Il demone è attratto dal lutto. Un lutto che risale a non più di sette giorni nel passato. Viene annunciato da dei sibili. I corpi delle vittime sono stati tramutati in pietra e buttati in un fossato. In qualche modo, influenza le persone, facendole compiere azioni folli.”

“Cos’hanno in comune le vittime, a parte il lutto?”

“Niente. È questo il problema.”

“No, intendo i posti che hanno frequentato prima di sparire. Dicesti qualcosa su un ristornate, se non ricordo male, e-”

“Ristorante al molo, sì, ma soltanto per tre delle sei vittime. Il parco per due. La Fondazione Sthenos… bah, non lo so. Hillary dice che Miss Sthenos è pulita… nonna? Che ti prende?”

Regan la vide aggrottare le sopracciglia e bloccare qualsiasi movimento.

“Petra Sthenos… Sthenos…” ripeté sottovoce Deirdre, prima di sgranare gli occhi, “Petra Sthenos! È greco. Significa pietra robusta, o pietra forte, solida, o ancora pietra vigorosa, violenta.”

“Oh. Oh! Merda.”

“Dicesti che ha due sorelle, se non sbaglio.”

“Cora Thalassa e Phidya Kidemonas.” le riferì, incespicando su alcune sillabe.

“Cora Thalassa… pure questo è greco. Cora viene dalla parola ‘kore’, che significa ragazza o figlia, mentre ‘thalassa’ vuol dire ‘mare, oceano’. Phidya, invece, mi fa venire in mente lo scultore greco Fidia. Lo scultore lavora la pietra, o le rocce in generale. Ma in greco ‘phìdi’ significa ‘serpente’. La parola ‘kidemonas’ si traduce letteralmente con ‘guardiano’.”

Regan si agitò quando sentì il battito cardiaco della nonna accelerare e il suo odore tingersi di paura.

“Come diavolo ho fatto a non arrivarci prima?! È lei! Petra Sthenos è Steno, una delle tre Gorgoni. Detta anche la Corruttrice. Le altre due sono Euriale, la Viandante Urlatrice, e Medusa, la Guardiana degli Inferi. Si dice che siano figlie di due mostri marini, o di una ninfa e di un mostro marino, per questo spesso stabiliscono la loro dimora vicino all’acqua. Oh! I tarocchi. La Regina di Coppe: una donna importante, legata al mondo dell’arte e della cultura. Il Tre di Coppe: il cattivo presagio legato alla donna. E il Diavolo. Il demone. Regan, mi sa che hai ragione, il demone la sta possedendo. Come l’abbia catturata non lo so, ma la sta indossando come un vestito. Oh astri celesti, Hillary ci ha anche parlato!”

“Cazzo.” Regan scattò in piedi, disarcionando malamente Poe, che emise un miagolio indispettito, “Sapevo che c’era qualcosa di strano! Lo sentivo! Sapevo che la Fondazione aveva un ruolo in tutta la faccenda! Ce l’ho avuta sotto il naso per tutto questo tempo, accidenti! Okay, cosa facciamo?”

“Niente.” rispose pacata Deirdre, tornando a lavare gli strumenti.

Il repentino cambio di tono scombussolò Regan, che barcollò all’indietro come se qualcuno lo avesse schiaffeggiato.

“Come niente?”

“Che vorresti fare? Bussare alla sua porta e interrogarla sulle sparizioni? Il suo sguardo può trasformarti in pietra, è sufficiente che lei lo desideri. È meglio che resti alla larga, leprotto. Una Gorgone non è un avversario che puoi affrontare. Sono tutte feroci, prive di misericordia. E avide, molto avide. Per non parlare del fatto che è posseduta da un demone.”

“Deve esserci un modo!”

“Non che io sappia.”

Regan sbuffò rassegnato: “Okay. Cosa sai su Steno?”

“La caratteristica principale della Corruttrice è il totale disprezzo per ogni forma di moralità, quindi colleziona prede che ne possiedono tanta. Il che, ora che ci penso, spiegherebbe perché il demone l’abbia scelta. Uccidere donne e bambini non è nella natura di una Gorgone, è vero, ma forse il demone ha accentuato la fame di moralità di Steno.”

“Se prende persone di salda morale, allora io dovrei essere al sicuro.” scherzò sarcastico, “Ma perché le Gorgoni tramutano gli uomini in pietra? Me lo sono sempre chiesto.”

“Per mangiare, Regan. Per cos’altro sennò?”

“E cosa mangerebbero, scusa?”

Deirdre gli scoccò un’occhiata in tralice: “L’anima. La risucchiano via dal corpo attraverso i loro occhi. E mentre ciò accade, la carne si trasforma in pietra. Steno è una Gorgone particolare, però. Non caccia solo per mangiare, ma anche per mantenere un aspetto umano e mimetizzarsi. Più moralità mangia, più la sua maschera innocente si rafforza. Credo sia per questo che agli occhi della legge, o di chiunque la incontri, appaia pulita, una brava persona. Non sospetteresti di lei nemmeno se avessi le prove della sua colpevolezza. È così che sopravvive.”

“E le sue sorelle?”

“Sono diverse. Euriale è simile a una banshee. Sai cosa sono le banshee?”

“Messaggere di morte.”

“Esatto. Si sposta seguendo il vento, pur senza allontanarsi mai troppo dal mare. Si nutre per lo più di marinai. Spesso viene scambiata per una sirena. Medusa è la più famosa. È l’unica che si nutre degli umani soltanto perché li odia, e non le interessa minimamente assumerne l’aspetto per attirarli in trappola. Anzi, le sembianze umane le suscitano ribrezzo. Non vive sulla terra, ma negli Inferi, appena fuori dal portale d’accesso.”

“E dove si trova?”

“Io che ne so?”

Deirdre si tolse il grembiule per sciacquarlo. Regan canticchiò a labbra strette la canzone diffusa dalla radio, tamburellando le dita sul tavolo, quando all’improvviso gli tornò in mente un’altra cosa.

“Ah, mi sono dimenticato di dirti anche che Roman e Jennifer si sono scontrati con il demone la sera del compleanno di Roman. Sono sopravvissuti entrambi, ma, nella colluttazione, Roman ha morso per sbaglio Jennifer. Ora lei è un lupo mannaro.”

A Deirdre andò di traverso la saliva e si mise a tossire.

 
*

Mercoledì pomeriggio, Roman suonò il campanello di casa McLaughlin alle cinque in punto. Deirdre gli aprì e lo accolse con un sorriso materno.

“Ciao, Roman. Come stai?”

“Non c’è male, signora.”

“Oh, chiamami Deirdre e dammi del tu, caro.”

Roman arrossì imbarazzato e annuì: “Okay. Stai uscendo?”

Deirdre finì di indossare il cappotto e afferrò la borsa, frugando all’interno per appurare che ci fossero chiavi e telefono.

“Sarò dall’altra parte della strada, vado a fare compagnia alla signora Greenwood. Voi ragazzi fate i bravi, d’accordo?”

“Non prometto niente. Sai com’è Regan.” scherzò.

“Eccome se lo so!” rise lei, per poi aggirarlo e uscire dalla porta, “Torno per cena. Ti va di restare?”

“Eh…”

“Ottimo. C’è il polpettone.”

“Ehm, grazie.”

“A dopo!”

Roman la salutò e si richiuse la porta alle spalle: “Regan?”

“Di sopra.”

Lo raggiunse salendo i gradini a due a due. Quando si affacciò in camera, vide Regan seduto sul pavimento a gambe incrociate, circondato da una marea di libri e fotocopie. Stette immobile per svariati secondi, non sapendo dove mettere i piedi. Regan se ne accorse e gattonò con attenzione sui fogli per spostarli e creare un passaggio verso il letto.

“Cosa stai facendo?” gli chiese il lupo, arrampicandosi sul letto dopo essersi tolto le scarpe.

Regan lo fissò dal basso per qualche istante prima di sospirare. Si passò le mani fra i capelli, spettinandoli ancora di più, e si scrocchiò le dita.

“Okay. Innanzitutto, devi sapere che ci sono delle cose che ti ho taciuto. Il motivo per cui l’ho fatto è semplice: non mi fidavo di te.”

L’espressione di Roman somigliava a quella di un cucciolo bastonato. Regan soppresse una smorfia e proseguì. Non poteva farsi distrarre dagli occhioni dell’amico, un’arma letale in sé e per sé.

“Non ho dubbi che mi avresti aiutato in ogni caso. È solo che non avevo la tua completa lealtà. Tutto ciò che ti ho detto lo hai sempre riferito a tuo padre, e lo capivo, era il tuo alfa. Ma ci sono certe informazioni che non volevo arrivassero alle sue orecchie, perché anche se mi tollera, non siamo alleati. Adesso che mi hai scelto come tuo alfa, la situazione è cambiata. So che non andrai a spifferargli quel che verrà fuori oggi pomeriggio, a meno che io non te ne dia il permesso.” proferì lentamente, in modo che il messaggio giungesse a destinazione forte e chiaro, e notò Roman irrigidirsi, “Non sarò il tipo di alfa che ti ordina di fare questo o quello senza curarmi della tua opinione, di questo puoi stare certo. Ti chiedo solo di discuterne prima con me, per confermare che ciò che vuoi fare non sia stupido o pericoloso. Fin qui hai capito? Ci sono domande?”

Roman scosse debolmente il capo: “Ho capito. E… mi dispiace.”

“Per cosa?”

“Per averti lasciato solo. Per averti spinto a dubitare di me. Per aver tradito la tua fiducia senza accorgermene.”

“Non ti sto incolpando, Roman, e mai lo farò, non per simili motivi. Comprendo le dinamiche di branco, grazie a tutti i libri che ho letto, e so quanto i licantropi beta siano devoti al loro alfa. Tuo padre era il tuo alfa, a lui dovevi obbedienza e trasparenza. È normale che il tuo istinto favorisse lui a me. Francamente, avrei continuato a tacere se tu non mi avessi scelto come tuo nuovo alfa. So quanto questa azione sia importante per un licantropo. La scelta deliberata di un alfa non è da prendere alla leggera. Mi sento onorato e grato. E ora so che è a me che obbedirai, è a me che verrai a riferire tutto, non a tuo padre. Questo mi rassicura e mi dà il coraggio di rivelarti le informazioni che ti ho tenuto nascoste.”

“Okay. Quali sarebbero?”

“Per cominciare, di recente ho scoperto che mia madre era una strega.” sollevò subito una mano per bloccare qualsiasi domanda Roman fosse sul punto di fare, “Apparteneva a una congrega residente in Ohio. Ho ereditato da lei la magia, il che fa di me uno stregone vampirizzato. Anche se sarebbe meglio dire che sono mezzo stregone e mezzo vampiro. Va beh, non perdiamoci nella semantica. In quanto stregone vampirizzato, possiedo dei poteri psichici: vedo i fantasmi, ho delle visioni e sono perennemente sintonizzato sul mondo soprannaturale. Da qui si va all’informazione numero due: sin dall’inizio, a quanto pare, ho instaurato un contatto con il demone. Avverto quando è vicino, sento quando si nutre e ho delle visioni premonitrici sulle sue vittime.”

“Vuoi dire che sai in anticipo chi colpirà?!”

“Sì e no. Le visioni sono troppo vaghe per capirlo in tempo. Solo dopo la scomparsa delle vittime i tasselli vanno al loro posto. Ammetto che è frustrante. Ne ho avuta una oggi, per esempio: ho visto una bottiglia di whiskey rotolare sul pavimento del bagno, a scuola.”

Roman abbozzò una risata, per poi tornare serio quando si accorse che Regan non stava scherzando.

“E le altre?”

“Uhm, vediamo… ho visto il fantasma del cugino di Teresa e poi lei stessa con una faccia grottesca, simil cadavere; un fantasma mi ha cantato una filastrocca per avvertirmi di Timothy; il fantasma della moglie di Rupert Gullon mi è apparso per parlare di tubi; un corvo per Evelyn Richardson; cubetti di ghiaccio per terra per Joshua Pryce; un gatto bianco per Lucy Hammond. Ora una bottiglia di whiskey. Forse dobbiamo cercare un alcolizzato.”

“Oookay…”

“Dietro la vaghezza delle mie visioni c’è una ragione: credo sia il demone a farmele avere, per confondermi e divertirsi alle mie spalle. Che ce l’abbia con me è chiaro, anche se non so ancora il perché. Comunque, i poteri psichici ci portano al prossimo punto: il mio incremento di popolarità tra gli studenti è dovuto al fatto che ho esercitato un leggero controllo mentale sulle cheerleader e i membri della squadra di football. Non sono sempre stato in grado di farlo, bada bene, ma confesso di averne approfittato spudoratamente non appena l’ho scoperto.”

Roman puntò un dito contro di lui, sbigottito, ed esclamò: “Hai barato!”

“Sì, ho barato.” ridacchiò Regan, “Ma se avessi preso la via più difficile, ci avrei messo mesi a inserirmi. Ti ho già spiegato come mai mi serve circondarmi di persone popolari. Sono il mio scudo.”

“Regan, nessuno ti accuserà mai di-”

“Zitto e ascolta, non ho finito. Derek, Gregory, Kevin e le loro famiglie sono cacciatori. Sanno di me, di Deirdre, di te e del tuo branco. Ancora non sanno che ho sangue di strega nelle vene, e voglio che le cose restino così. Sono al corrente che c’è un demone in città, ma solo perché l’ho detto a Derek. Derek è il punto di contatto tra me e loro. Siccome è innamorato di me, sto recitando la parte del suo fidanzato, per questo ho sempre il suo odore addosso. In pratica, lo sto usando sia per pararmi il culo, sia per tenermi aggiornato su cosa accade tra i cacciatori. No, non fare quella faccia. Sappi che intendo uccidere lui e gli altri cacciatori alla prima occasione. Oh, a proposito, il tuo branco sa dei cacciatori, con l’eccezione di Trevor e Nina. Tuo padre mi ha chiesto di non dirtelo perché credeva che l’ignoranza ti avrebbe protetto.”

“Okay, devo fermarti.”  

Roman si sentiva sopraffatto dal rancore, dalla rabbia e dall’incredulità. Non era stupito del fatto che suo padre avesse deciso, per l’ennesima volta, di tacergli qualcosa di vitale importanza. Vincent aveva fatto del diritto di rimanere in silenzio una regola di condotta. Né lo sorprendeva venire a sapere che Derek, Gregory e Kevin non erano umani, dato che la loro presenza lo aveva sempre messo a disagio. Insomma, aveva intuito che nascondevano qualcosa ed era stato lui lo stupido a non capire cosa. Piuttosto, ciò che lo feriva era la rivelazione del rapporto tra Regan e Derek. Il solo pensiero gli faceva rivoltare lo stomaco.

“Stai con Derek?”

“Faccio finta di stare con Derek. Lui pensa che sia reale, ma non lo è.” precisò Regan.

“Oh.” sospirò, più tranquillo ma non meno geloso, “E le ragazze? Cioè, ti ho visto spesso con loro, so che ci hai almeno pomiciato… anzi, alla festa di Halloween ci hai fatto più di una innocente pomiciata!”

“Quella è stata la notte in cui ho scoperto e perso leggermente la presa sul controllo mentale. Mi hanno accolto a casa di Lorie mezze nude e mi è venuta sete. Sì, Roman, sete del loro sangue. Ho desiderato ardentemente che si offrissero a me. In un certo senso, lo hanno fatto. Ma non mi sono spinto troppo in là, tranquillo.”

“Non erano consenzienti!” sbottò scandalizzato.

“Non ho fatto niente! A parte sfinirle di orgasmi mentre mi nutrivo di loro, s’intende. È stato uno scambio equo, a mio parere. E poi ho tenuto i vestiti addosso tutto il tempo e non mi sono fatto toccare dove non batte il sole.”

“Ti sei nutrito di loro?”

“Un po’.”

“Ecco perché puzzavi di sangue fresco…” 

“Il loro sangue mi ha rinvigorito, rafforzando anche i miei poteri e il controllo che ho su di essi. Comunque, eccetto per bere da loro, non ho mai fatto del male a nessuna delle ragazze. A dirla tutta, è quasi un mese che non tocco una goccia del loro sangue. E non è che prima fossi tutti i giorni a prosciugarle. Bevevo solo qualche sorso, il tanto per restare in forze. Mi duole ammetterlo, ma la razione che mi fornisce Deirdre non è più sufficiente. Allo stesso tempo, non voglio chiedergliene di più, perché rischierei di compromettere la sua salute. Perciò ho dovuto cercare altre fonti. Più fonti ho, meno sangue prendo da ciascuna di esse.” al vedere Roman scuotere con veemenza la testa, sospirò, “Sono mezzo vampiro, Roman. Il sangue mi serve per sopravvivere. Come tu mangi coniglietti e cerbiattini, io bevo sangue umano. È la mia natura. Per fortuna, la mia parte umana attutisce di molto il bisogno di sangue, tanto che per conservare le energie ne bevo meno della metà della dose di un vampiro normale.”

“Regan, capisco quello che dici, davvero, ma non giustifica il fatto che ti sei approfittato di loro. È stupro, anche se di genere diverso.”

“Voglio vivere, Roman.” sibilò con voce fredda e dura, “E l’unico modo che ho per farlo è bere sangue umano, che ti piaccia o no. Se mi nutrissi di una singola persona, finirei per prosciugarla e ucciderla. Credimi, so di cosa parlo.”

Al che, Roman ammutolì, mentre il suo cervello immagazzinava e processava quell’informazione. Quando fu certo di aver compreso bene, esalò un sospiro e chiuse gli occhi. Si concentrò sul battito cardiaco di Regan, rimasto regolare per tutto il tempo, e sul suo odore familiare, venato di stanchezza, frustrazione e quello che Roman interpretò come un appena accennato senso di colpa. Quando riaprì gli occhi, lo soppesò con lo sguardo e gli pose la domanda.

“Chi hai ucciso, Regan?”

“Un’infermiera. Avevo tredici anni. È successo poco dopo il mio Risveglio. Fuggii dalla soffitta dove Deirdre mi aveva incatenato e andai a caccia. L’odore di sangue era più forte intorno all’ospedale, così mi ci diressi. Trovai lei. Zoe. Le raccontai una balla per farmi portare a casa sua e lei abboccò. Mentre dormiva, l’attaccai. Avevo sete, così tanta sete… realizzai cosa avevo fatto quando il mio stomaco fu finalmente pieno. Deirdre mi aiutò ad occultare il corpo. Lo bruciammo nel forno crematorio, giù nel seminterrato.”

Roman annuì a labbra strette e inspirò a fondo: “Grazie per avermelo detto. E sappi che mi dispiace che sia capitato a te.”

“Capitato?” domandò confuso Regan.

“Sì. Queste cose capitano a quelli come noi. I mostri.”

“Parli per esperienza?” indagò esitante, in un sussurro.

“Non ho mai ucciso nessuno, no, ma non mi illudo di restare innocente ancora per molto. Mio padre, mia madre, mio fratello e i miei zii, invece, hanno già le mani macchiate di sangue. In particolare mio zio Sean.”

“Che cosa ha fatto?”

“Era un lupo mannaro da appena un paio di lune quando perse il controllo. Fuggì dalla cella in cui Ruby lo aveva rinchiuso, corse per la città finché non si stancò. Vide una casa, fiutò gli umani. Uccise un’intera famiglia: genitori, nonni e tre bambini. Li massacrò senza pietà. Non era cosciente di quello che faceva. All’alba tornò in sé e ululò disperato. Lo trovammo al centro dei cadaveri dilaniati, intento a lacerarsi la pelle con gli artigli cercando di suicidarsi. Ruby lo fermò. Da allora, Sean è cambiato drasticamente: ha smesso di ridere, ha lavorato ancora più sodo sul controllo, si è dato da fare più di tutti gli altri messi insieme per essere un buon lupo, una risorsa indispensabile per il branco. Il senso di colpa è la sua ancora alla parte umana. Da quella notte, non ha più perso il controllo, neanche per un secondo.”

Roman sospirò, mentre i ricordi svanivano di nuovo nella nebbia e gli occhi rimettevano a fuoco il presente. Sbatté le palpebre e strusciò i palmi delle mani tra loro.

“La maggior parte delle creature soprannaturali sono predatrici. È la nostra natura. Col tempo, abbiamo imparato a non biasimarci per questi incidenti, prendendoli invece come le lezioni di vita che sono. E, da quanto mi hai detto, è proprio quello che hai fatto tu: hai imparato la lezione.” Si massaggiò le palpebre ed esalò un lungo respiro, “Non sono arrabbiato con te per esserti nutrito delle ragazze, comprendo le tue esigenze. Sono arrabbiato perché hai usato il controllo mentale. È una violazione della volontà simile allo stupro, Regan.”

“Oh, avresti voluto che glielo chiedessi gentilmente? ‘Ciao, Lorie, potresti lasciarmi bere il tuo sangue? Sai, sono mezzo vampiro e mi è venuta un po’ di sete’.” disse sarcastico.

Roman sbuffò: “Va bene, fa’ come vuoi. Non sono tuo padre, né il tuo alfa, non posso dirti cosa fare. Ti suggerisco soltanto di non cadere preda del delirio di onnipotenza. Controllare le menti può fare questo effetto.”

“Parli di nuovo per esperienza personale?”

“No, ho solo visto un sacco di film. Tutti i personaggi che abusano del controllo mentale sono degli stronzi psicopatici.”

“Chiamami Regan.”

“Non sto scherzando!”

“Nemmeno io. Informazione segreta numero… a che numero siamo?”

“Ehm… ho perso il conto.”

“Va beh. Dunque, come sai, sono andato in Ohio la scorsa settimana. Sono sì andato a parlare con un rabbino, ma il motivo principale per cui sono partito era per conoscere la famiglia di mia madre, la congrega. Per fartela breve, ho imparato a far germogliare i fiori a velocità supersonica, a trovare oggetti nascosti con i cristalli e a manipolare il fuoco, per poi venire pugnalato alle spalle e diventare il bersaglio di un tentativo fallito di omicidio. Sono scampato alla morte, come puoi vedere, ma la maggior parte della congrega è perita in un incendio. Ho perso la mia vera nonna e mio zio tra le fiamme.”

Roman boccheggiò scioccato: “Oh, merda. Regan, mi dispiace…”

“Risparmia le condoglianze. Sono stato io ad appiccare l’incendio.”

“Cosa…?”

“Li volevo tutti morti. Tranne mia nonna e un’altra strega adolescente, il loro è stato un tragico incidente.” snocciolò con voce distaccata, imponendosi di ignorare la fitta gli attorcigliò lo stomaco.

Fu difficile mantenere il contegno. Guardò con cautela l’espressione di Roman passare da incredula ad atterrita nell’arco di pochi istanti. Il proprio cuore martellava nel petto, le mani sudate stringevano spasmodicamente la stoffa dei pantaloni della tuta e l’ansia gli annodava le viscere.

Roman era pallido come un cadavere. Anzi, il suo colorito stava virando verso il verdognolo. Gli artigli erano spuntati fuori e li aveva conficcati nelle cosce. L’azzurro delle iridi stava iniziando a tingersi di giallo con sempre più frequenza.

La reazione del licantropo rafforzò la decisione di Regan di tacere sulla sua presunta natura demoniaca. Tuttavia, una parte di sé lo spinse a fare una cosa che il suo lato razionale disapprovava.

“Sei ancora convinto di volermi come alfa? Non ti biasimerò se ci ripensi.”

Roman aprì e chiuse la bocca un paio di volte prima di mormorare un incerto “Mi stai offrendo una via d’uscita?”.

“Sì. Come ho detto prima, non ti costringerò a fare nulla che tu non voglia. Se sceglierai me, lo farai sapendo chi sono e di cosa sono capace.”

Roman rimase in silenzio per qualche secondo, assorto nei suoi pensieri. Ricapitolò tutte le informazioni ricevute e le catalogò in ordine di importanza. Ce n’era una che non gli dava pace, un tarlo molesto che si era intrufolato nella sua coscienza e non lo lasciava andare. Prima era rimasto zitto, ma adesso aveva bisogno di sapere.

“Hai mai usato il controllo mentale su di me?”

“No.”

“Perché non ne sei in grado o perché non hai mai voluto?”

“Ammetto di aver tentato, all’inizio. Ma non funziona sulle altre creature soprannaturali, a quanto pare. Non ha funzionato né su di te né sui cacciatori. Invece, le streghe non sono immuni come pensavo. Ma sono umane, in fondo, quindi riesco a spiegarmelo.”

“Ci hai provato. Lo avresti fatto. Mi avresti strappato il libero arbitrio.”

Regan ignorò la sua faccia devastata e rispose con sincerità: “Non ti conoscevo ancora bene e non mi fidavo di te. Adesso è diverso. Non lo farei mai.”

“Su chi lo hai usato, a parte le ragazze e i giocatori di football?”

“Charlotte, Jennifer, Zack… tutti i popolari.”

“Deirdre?”

“No, mai. Mi fido ciecamente di lei. È la mia famiglia.”

“Io sono la tua famiglia, ora?”

“Se mi vuoi ancora come alfa, allora sì. Sei la mia famiglia. Io proteggo e mi prendo cura delle persone a cui tengo. È il mio principio base, la mia ancora. Per la mia famiglia morirei.”

Roman deglutì. Un po’ di colore gli tornò sulle guance, ma il suo sguardo rimase stralunato, lontano.

“Okay. Mi sa che mi occorrerà del tempo per digerire tutto ciò che mi hai detto, ma… sei il mio alfa, Regan. Non sei perfetto, le nostre nature sono incompatibili, a volte mi fai paura, ma sento che sto facendo la scelta giusta. Non so come spiegarlo, è una sensazione. L’importante è che tu mantenga la tua promessa: rispetterai la mia volontà, anche se andrà contro la tua.”

“Lo farò.” giurò Regan.

“Bene. Okay. Fiuuu… sono esausto.” scherzò.

“Oh, aspetta, non è finita.”

“Che altro c’è?” grugnì esasperato il lupo, levando gli occhi al cielo.

“Il demone che dobbiamo combattere ha posseduto una Gorgone. La Gorgone è Steno, conosciuta ad Ashwood Port come Petra Sthenos, la direttrice della Fondazione.”

Roman aprì e richiuse la bocca più volte prima di rantolare un flebile “Figo” e ammutolire di nuovo.

“Bene, ora andiamo al sodo. Il piano è questo: ci intrufoleremo nella Fondazione per trovare il portale, cioè il punto di accesso, che il demone ha usato per arrivare nella nostra dimensione e, dopo averlo preso, prepareremo il rituale di esorcismo, per il quale occorrerà un sacerdote e alcuni ingredienti. Oh, e il classico pentacolo disegnato sul pavimento per intrappolare il demone.”

Roman alzò timidamente la mano.

“Sì?”

“Cos’è il portale?”

“Non lo so.” ammise Regan, “La mia unica speranza è che lo capirò non appena lo vedrò. Se questo non accadrà, immagino che ci vorrà più tempo del previsto per scandagliare tutti gli oggetti contenuti nella Fondazione. Prossima domanda.”

“Come scoviamo un sacerdote disposto a compiere un esorcismo? Dubito che il pastore Higgins accetterà.”

“Non è detto che debba essere un pastore. Se la teoria dello Shedim è esatta, ci servirà un rabbino.”

“Perciò dobbiamo prima scoprire di che tipo di demone si tratta.”

“Sì. Ma dopo aver recuperato il portale. Se ce lo prendiamo noi, saremo in vantaggio. E magari ci fornirà qualche indizio.”

“Sarà ben protetto.”

“Può darsi. Prossima domanda.”

“Luogo dell’esorcismo? Serve compierlo in una chiesa, o in un cimitero?”

“Stando a quanto ho letto, no, può essere un posto qualunque. La prossima.”

“Perché ha scelto quelle particolari vittime?”

“Avevano subito una perdita sette giorni prima della loro scomparsa.”

“Non mi torna, Regan. Senza offesa. Se fosse così, il demone avrebbe dovuto prendere anche le loro famiglie. Rupert Gullon non ne aveva una, ma tutti gli altri sì. Senza contare che ha attaccato anche te, me e Jennifer.”

“Non credo che avesse intenzione di prenderci.”

“Ah, no?”

“Non corrispondiamo al profilo. Nessun lutto, nessuno di noi ha mai visitato la Fondazione. La mia migliore ipotesi è che gli attacchi contro me, te e Jennifer siano stati una provocazione. Ha attaccato me per dirmi ‘hey, sveglia, io sono qui, vuoi giocare?’, poi ha attaccato voi o per ripicca, perché me ne sono andato ad Athens di punto in bianco, o per richiamarmi ad Ashwood Port, o entrambe. Sapeva che mi avresti messo al corrente, sei il mio migliore amico. Questa ipotesi trova ancora più conferma se pensi che in quella settimana non ha mietuto vittime. Credo che abbia pensato qualcosa del tipo ‘se lui non c’è, che senso ha?’. Oppure mi sto montando la testa. Magari la mia presenza non c’entra niente e si è solo preso un breve periodo di vacanza.”

“Mmm… stranamente, la tua teoria suona plausibile. Sin dall’inizio, è stato ovvio che ce l’avesse con te per qualche motivo. Comunque, come mai ha preso solo quelle persone e ha risparmiato le loro famiglie?”

“Deve essere accaduto qualcosa che li ha resi un bersaglio.”

“Forse è successo alla Fondazione. Se Petra Sthenos è posseduta dal demone, quella è la sua tana.”

“Tutte le vittime sono andate a visitare la mostra, ergo le risposte sono lì.”

“Quando pensi di farci un salto?”

“Prima è, meglio è.”

“La luna piena è tra una settimana. Aspettiamo che passi?”

“No. Facciamolo venerdì notte.”

“Okay. E con Derek cosa vuoi fare? Portiamo anche lui?”

“Assolutamente no! Nessuno dei cacciatori deve sapere cosa abbiamo in mente.”

“Come mai? Cioè, non che non sia d’accordo, ma non capisco.”

“Il mio vero piano è usare la Gorgone per ucciderli tutti, anche se devo ancora elaborare i dettagli.”

“Oh. Furbo.” considerò Roman, impressionato, “Così faresti ricadere la colpa su di lei e tu ne usciresti con le mani pulite. Se qualcuno di loro dovesse sopravvivere o qualcun altro dovesse mettersi a indagare, sarà Miss Sthenos a venire cacciata.”

“Esatto.”

“Hai piani di riserva nel caso qualcosa dovesse andare storto?”

“Sì, non preoccuparti.”

“Ti va di dirmeli?”

“Non ora, devo mostrarti delle cose.” afferrò diversi plichi di fogli dal pavimento e glieli porse uno alla volta, “Questi sono alcuni dei rituali di esorcismo che mi sembrano più attuabili. Gradirei il tuo input.”

Discussero dei rituali finché Deirdre non li chiamò a tavola. La cena trascorse tranquilla, tra chiacchiere superficiali e qualche battuta a sfondo canino in onore di Roman, che le incassò tutte con classe. Deirdre propose di mettere agli atti che Roman era il suo preferito tra i nuovi amici del nipote. Verso le otto Roman salutò e montò in macchina per tornarsene a casa.

Regan aiutò la nonna a sparecchiare e lavare i piatti, poi andò a farsi una doccia e si preparò per andare a dormire. Non aveva ancora aggiornato Deirdre riguardo agli ultimi sviluppi nel rapporto tra lui e Roman, ma solo perché era stanchissimo. Lo avrebbe fatto l’indomani con calma, sperando che non le venisse un infarto. L’unica cosa su cui avrebbe mantenuto il silenzio era la retata alla Fondazione Sthenos di venerdì. Per un trenta percento non voleva farla preoccupare, per il restante settanta semplicemente non aveva voglia di sentirsi ordinare di rimanere a casa.

Prima di andare a letto, fece ordine sul pavimento, finì di scrivere un saggio per Letteratura e ripassò Biologia per il test del giorno seguente. Due ore dopo, si infilò sotto le coperte con un sospiro. Cercò la posizione giusta e chiuse gli occhi. Il sonno lo ghermì in pochi minuti.


 
Accostò la bottiglia di whiskey alle labbra e bevve un lungo sorso. L’alcool gli bruciò la gola e un formicolio simile a fuoco liquido raggiunse le estremità intirizzite dal freddo, dandogli un temporaneo sollievo.

Le luci del molo erano sfocate, piccoli aloni giallognoli disseminati lungo il percorso verso la sua barca come fuochi fatui. Le voci roboanti e roche di altri marinai riempivano il silenzio, seppur attutite dalle mura dei pub che incorniciavano la strada. Udiva anche della musica in sottofondo, un pezzo country diffuso sicuramente dal vecchio jukebox piazzato in un angolo del Martha’s Pitcher.

Se non fosse stato per il lutto che gli gravava sulle spalle, si sarebbe unito volentieri a loro. Passare il tempo in compagnia davanti a un boccale di birra, circondato da calore, risate e battute ridicole, di solito era un toccasana per la sua anima, nonché un modo per ammazzare le interminabili ore che era costretto a trascorrere sulla terra ferma. Ma non poteva. Non era più degno di ricevere sorrisi e pacche sulle spalle, non dopo quello che aveva fatto.

La bandiera rossa era ancora alzata dopo due settimane e nessuno sapeva quando sarebbe stata tirata giù. Il mare ruggiva in un’imitazione più selvaggia di quanto stava accadendo nel cielo, le onde si alzavano fin sopra la testa quando meno te lo aspettavi e le correnti erano così forti da strappare le reti. Quello era uno dei pochi momenti in cui ringraziava la globalizzazione. Se Ashwood Port avesse vissuto solo di pesca, sarebbero già morti tutti di fame. Dio benedica gli hamburger.

Abbracciò la bottiglia e barcollò con passo malfermo sulla banchina. La sua barca, la sua casa, distava solo una decina di metri. Non vedeva l’ora di trovare riparo dal freddo pungente e scolarsi il suo fedele amico alcool fino a ottenebrarsi la mente e cadere svenuto.

Salì piano le scalette di ferro attaccate al fianco della barca e si issò faticosamente sul ponte. Venne distratto dalla nuvoletta di vapore in cui si condensò il suo respiro, così non vide la fune arrotolata ai suoi piedi. Ci inciampò sopra e andò giù con uno squittio, finendo a gambe all’aria. La bottiglia rotolò lontano, svuotandosi quasi del tutto.

Imprecò e mise il broncio, ma non compì alcuno sforzo per alzarsi. Rimase a fissare il cielo nero e a farsi schiaffeggiare dal vento gelido che soffiava da nord. Il berretto di lana calcato sulla testa e il piumino non erano abbastanza per proteggerlo dalle temperature invernali, ma per fortuna l’alcool stava sortendo il suo effetto: tutto il corpo era intorpidito, il cervello leggero. Per un attimo dimenticò cosa fosse la morsa che gli stritolava il cuore. Grugnì e si girò su un fianco, lo sguardo vacuo puntato sulla bottiglia. Troppo lontana. Sbuffò e chiuse gli occhi.

Quella settimana era stata un vero incubo, e l’unico che poteva incolpare era se stesso. Se avesse dato ascolto a suo fratello, da sempre la voce della ragione… se non fosse nato così testardo, impulsivo, Darren sarebbe stato ancora vivo.

Darren, il suo fratellino. Più giovane di cinque anni, ma molto più maturo di lui. Sposato, padre, amico di tutti. Non come lui, un fallito lupo solitario che rovinava tutto ciò che toccava. Il loro vecchio glielo aveva ripetuto spesso sin da quando era bambino.

“Jackson,” gli diceva, “sei un cocciuto buono a nulla! Se non sapessi per certo che condividiamo il sangue, dubiterei che tu sia mio figlio. Guarda tuo fratello. È più piccolo di te, ma sembra già un ometto. È intelligente, quello scricciolo. Perché non prendi esempio da lui e ti dai una sistemata? Dio, ogni volta che ti guardo mi sale la delusione. Se solo ripenso a tutte le volte che ho dovuto tirare fuori il tuo culo dal fango…”

Per anni era stato la pecora nera, l’imbarazzo della sua famiglia. Sembrava non azzeccarne mai una. E quando il vecchio era morto, Darren aveva preso il suo posto, prendendosi cura del fratello maggiore come farebbe un vero padre. Senza cinghiate, senza urla o schiaffi, solo parole ben ponderate e prive di fronzoli.

Poi, come succede a ogni eroe delle favole, Darren aveva conosciuto una ragazza, si era innamorato e l’aveva sposata. Un anno dopo avevano già due gemellini schiamazzanti a correre per tutta la casa.

Ricordava bene come, fino a una settimana prima, Mercer lo accoglieva sempre con un sorriso e un bacio sulla guancia quando si fermava da loro per salutare i nipotini, prendere bonariamente in giro Darren e scroccare un pasto. Quella donna era un angelo incarnato. Lei e Darren erano la coppia perfetta.

Ma da quando suo fratello era morto, Mercer aveva perso il sorriso. Non riusciva nemmeno a guardarlo negli occhi. E quando per caso le loro strade si incrociavano, trovava una scusa per girare i tacchi e andarsene.

Era accaduto anche quel pomeriggio. Li aveva seguiti in macchina, lei e i gemelli, come una silenziosa guardia del corpo. Sentiva che era suo dovere vegliare su di loro adesso che Darren non c’era più. Aveva promesso sulla sua tomba che avrebbe fatto di tutto per aiutarli. Così li aveva pedinati fino alla Fondazione Sthenos. Aveva parcheggiato, era sceso dall’auto ed era entrato.

Per minuti interi li aveva osservati da lontano, indeciso se mantenere le distanze o provare ancora ad avvicinarsi, nella speranza di strappare loro un sorriso o due. Gli mancavano i suoi nipotini. Gli mancava Mercer. Gli mancava terribilmente la sua famiglia. L’assenza di Darren in quel quadretto era come un buco nero che risucchiava tutti i colori.

Aveva atteso una mezzora, un sorriso amaro e intenerito ad arricciargli gli angoli della bocca. Non aveva mai distolto lo sguardo dal trio, disinteressato agli oggetti antichi e preziosi che gli sfilavano accanto mentre camminava. Poi, raccogliendo il coraggio a due mani, li aveva raggiunti.

Mercer si era irrigidita all’istante. Il suono della sua voce era capace di far defluire tutto il sangue dal suo viso tondo in un battito. Si era sentito malissimo, per sé e per lei, così aveva rivolto l’attenzione ai bambini, che lo avevano guardato con identici sorrisi sdentati.
L’interazione era durata cinque minuti al massimo. Era finita con Mercer che gli sibilava contro in preda al rancore, accusandolo di aver ucciso Darren. E lui non si era difeso, perché sapeva che era la verità. I ricordi erano vividi, come se fosse successo ieri.

Il mare era mosso, cavalloni giganti si innalzavano per metri simili a muraglie, il vento ululava e la pioggia torrenziale rendeva difficile vedere. Per questo né lui né Darren si erano accorti dell’onda enorme che si era gonfiata oltre il parapetto finché essa non si era abbattuta con violenza sul ponte, trascinando in acqua Darren prima che lui potesse afferrarlo. Si era tuffato, certo che lo aveva fatto, ma era stato troppo tardi. Darren era affogato quasi subito, sospinto giù dalle correnti.

Poche ore prima della sua dipartita, suo fratello aveva cercato di farlo ragionare, ma no, lui voleva salpare, andare a pesca, inalare a pieni polmoni il profumo dell’oceano. Al diavolo il tempo e Madre Natura. E Darren non lo avrebbe mai lasciato solo in quella tempesta. E lui lo sapeva. Sapeva che Darren lo avrebbe seguito. Sapeva che non era abbastanza forte per dirgli di no. Si era approfittato di quella buon’anima di suo fratello una volta di troppo, e ora ne pagava il prezzo.

Mercer era fuggita, lasciandolo imbambolato di fronte a un tavolo disseminato di eccentriche anticaglie. Un cartello appeso al muro riportava la scritta “Questi oggetti si possono toccare. Maneggiare con cura!”. Sul tavolo c’erano ninnoli vari, accompagnati dalla targhetta descrittiva.

Ne aveva presi un paio e se li era rigirati tra le dita, tanto per fare qualcosa, ma la sua mente era altrove, in mezzo al mare e all’infuriare della tempesta. L’occhio gli era caduto su un vassoio di monete scheggiate. Ne aveva afferrata una manciata con aria distratta, lasciandole ricadere una per una sulle altre che riempivano il vassoio. Dopo averle liberate dal giogo delle proprie dita, per ultima rimase una moneta grande quanto il suo palmo. Aveva delle incisioni strane, disposte in cerchi concentrici, e al centro c’era una mano stilizzata. L’aveva ributtata nel mucchio con uno sbuffo annoiato ed era uscito a passo strascicato, sforzandosi di digerire l’ennesima sconfitta.

Adesso, scrutando il cielo nero, ebbro e devastato dal lutto, non poté impedire a un singhiozzo di valicare la barriera dei denti. Si prese la testa fra le mani e pianse, emettendo versi che suo padre avrebbe definito patetici. Ma lui non c’era più, Darren non c’era più, Mercer non lo voleva più… non c’era nessuno lì con lui, per giudicarlo o offrirgli conforto, quindi al diavolo! Se voleva piangere, avrebbe pianto.

Dopo quelle che gli parvero ore, esausto sia nello spirito che nel corpo, si puntellò su ginocchia e gomiti e si tirò su. Un conato fu tutto l’avvertimento che gli servì per abbandonare del tutto l’idea di rimettersi in piedi. Così, gattonò con la grazia di un cucciolo ubriaco fino alla porta ed entrò sottocoperta.

Il calore lo avvolse subito, ma non era abbastanza forte da scaldargli anche il cuore. Si sentiva svuotato, annichilito. Perso. Avrebbe dovuto essere lui a morire, non Darren. L’onda avrebbe dovuto prendere lui.

Si trascinò verso la panca imbottita. Si aggrappò al tavolo e si issò quanto bastava per sdraiarsi a pancia in giù sui cuscini. L’olezzo di stantio e unto gli invase le narici. Non era chiaro se provenisse da lui o dalla panca. Non gli importava.

L’unica fonte di luce che rischiarava l’ambiente era una lampadina al neon posta sul ripiano che Darren era solito usare per aggiornare il suo diario di bordo e consultare le mappe delle correnti. La sua sagoma si delineò con estremo realismo nella sua mente: lo rivide seduto sullo sgabello, la schiena incurvata in avanti, i gomiti sul tavolo, la mano che impugnava la penna che si muoveva velocemente sulla pagina del diario, lo sguardo concentrato sulle parole che scriveva, con quella punta di serenità nelle iridi azzurre che gli aveva sempre invidiato.

Fu sul punto di chiamarlo quando l’illusione svanì. Sospirò afflitto e tirò su col naso.

La lampadina sfarfallò e si spense. Grugnì scocciato, troppo stanco per alzarsi e sostituirla con una nuova. Ma che senso aveva farlo ora, mentre si stava per addormentare?

Mugugnò parole indistinte e cercò una posizione comoda sulla panca. Sulla soglia del mondo onirico, un rumore lo disturbò. Esalò un altro grugnito, aggrottò le sopracciglia e si strinse di più nel giubbotto. Era così ubriaco che il pensiero di spogliarsi, o anche muovere un dito, era inconcepibile.

Dopo qualche secondo, il rumore si ripeté. Sembrava un… sibilo? Cosa poteva emettere un sibilo? Un tubo? Un serpente?

Socchiuse appena le palpebre per guardarsi intorno. La stanza era immersa nell’oscurità più fitta che avesse mai visto. Nemmeno le familiari luci del molo filtravano attraverso i vetri.

“Ma che diavolo…”

Non terminò mai la frase. Qualcosa gli circondò la gola e strinse così forte da bloccare le vie respiratorie. Boccheggiò spaventato. Si aggrappò a quello che pareva un braccio, ma avrebbe tranquillamente potuto essere un accalappiacani. Lo strattonò per liberarsi, ma l’alcool in circolo nelle sue vene gli aveva sottratto tutte le energie.

Stava soffocando. Il solo suono che sentiva era quel dannato sibilo, ora divenuto assordante.

Qualcosa lo spinse giù dalla panca e lo rivoltò supino.

L’ultima cosa che vide fu una figura piegata su di lui. Era nera e scheletrica, altissima, senza faccia. Poi il buio lo divorò.



 
Regan si svegliò di soprassalto col fiatone, gli occhi sbarrati nel vuoto e una mano avvolta attorno al collo, là dove percepiva ancora il fantasma della mano del demone. Il sogno, se di questo si era trattato, era stato il più vivido che avesse mai avuto. Aveva assistito agli eventi attraverso gli occhi di qualcun altro, un marinaio di nome Jackson; aveva provato le sue emozioni e udito i suoi pensieri come se fossero i propri.

Rabbrividì e cercò di regolarizzare il respiro. Poe lo scrutava dal fondo del letto con i suoi occhietti gialli.

“Tranquillo, era solo un incubo…” gracchiò, la voce resa roca dall’indolenzimento che avvertiva nell’area della gola, “Spero.”

Era stato parecchio inquietante. Se era una visione, era di sicuro la più agghiacciante che il demone gli avesse mai mandato. Pregò che lo fosse, perché stavolta aveva un nome. Poteva salvare questo Jackson. Quanti marinai ad Ashwood Port si chiamavano Jackson e avevano un fratello recentemente defunto di nome Darren?

Incamerò ossigeno con una lenta boccata e aspettò che i polmoni bruciassero prima di soffiarla fuori. Determinato ad andare in fondo a quella storia, decise che la prima cosa che avrebbe fatto l’indomani dopo le lezioni sarebbe stata scovare Jackson.

Si sdraiò di nuovo, si sotterrò nelle coperte e si riaddormentò in un baleno.
 
 




 
  
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