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Autore: JoSeBach    01/07/2019    1 recensioni
*Attenzione: scena di suicidio nel primo capitolo!* (incompiuta)
Da quando Randall è precipitato in quelle rovine, Hershel non è più lo stesso: sembra vuoto, apatico, come se lui stesso stia affogando in quelle tenebre...
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Angela Ledore, Erik Ledore, Hershel Layton
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Incompiuta, Tematiche delicate
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Lucille Maxwell in Layton POV

Nella mia giovinezza non ho mai dedicato la dovuta attenzione alla tristezza, forse a causa del mio lavoro che non mi chiedeva tale sforzo.
Ero una fotografa che non faceva altro che catturare meravigliosi paesaggi e guadagnare soldi per il minimo indispensabile per una giovane scapola.
La prima volta che ho sentito il brivido lungo la schiena è stato quando il capo mi ha incaricata di collaborare col giornalista Arthur Layton, di cronaca nera, fotografando la finestra rotta di una scena del crimine. Ero così disgustata che ho avuto la nausea a sentire il fetore della carne marcia e il ballo delle mosche. Immaginatevi quando ho visto il cadavere...

Da quel momento mi sono ricordata dell'esistenza della morte. Ma non ho mai pensato che potesse sfiorare un giovanotto, dopotutto quel cadavere coperto di larve apparteneva a un fallito di mezza età. I giovani dovrebbero essere spensierati, meritano tutta la felicità di questo mondo. Allora perché, Hershel?

Lui è lì, intrappolato in un corpo immobile che giace sulla barella tra le lenzuola candide. Solamente quando Arthur e Alphonse hanno lasciato la stanza, nonostante l'eccessiva luce riflessa dalle pareti, noto i tagli che tappezzano le braccia, i palmi e... la gola.

È vero, ho già visto un cadavere anche sviscerato, il ventre inciso dal sangue a forma di cifre dal creditore che si è fatto ripagare con un gioco sadico. Il suo debito. Ma quelle lesioni, quelle di Hershel, auto inflitte, cosa indicavano? Un diciassettenne che dovrebbe essere a scuola, pensare al futuro, magari qualche litigata con noi... Ma non è in debito con nessuno.

Il suo sorriso apatico potrebbe dar l'idea che stia semplicemente riposando. Ma non è così. Lui di solito non è a dormire dopo il levar del sole. Lui non vuole essere al centro dei pensieri degli altri. Ed è questo ciò che mi tormenta.

Quel senso di colpa dal vedere qualcuno precipitare, troppo pesante da sopportare, è la causa dei mancanti palpiti del mio cuore. Ma è davvero ciò che Hershel ha provato in tutte queste settimane? È già difficile per me tenere duro per poche ore, ma per giorni e giorni...

Forse il rimorso era così tanto che soffocava in quel corpo gracile. Questo gesto gli ha dato libertà? Quando si risveglierà e vedrà le bende e le macchine, sarà lo stesso Hershel che ho portato a casa tredici anni fa? Oserà farlo di nuovo? Cosa ne penserà suo fratello? Riusciremo a sal-

Basta. Non lo farà più. Lo aiuteremo a qualunque costo. Immagino che voglia lasciare Stansbury come tutti noi, nonostante il signor Ascot e Angela siano stati davvero gentili a non solo impedire la nostra partecipazione al funerale o memoriale o come accidenti lo abbiano chiamato, ma anche a scomodarsi di inviare un agente della polizia a casa nostra, per portare via Hershel. E per cosa? Per omicidio! Anzi, l'omicidio, visto che a quanto pare in questo paesino dimenticato da Dio solo una persona ha perso la vita. Hanno provato a interrogarlo, senza successo: si contorceva, chiudeva gli occhi, le orecchie, premendo tutto il suo dolore. Successivamente hanno ritentato chiedendo l'aiuto di una psicologa, che ha ricevuto solo silenzio. Lei ha confermato il suo stato traumatico. Se ne sono andati senza chiedere scusa.

Ero al corrente della condizione di Hershel, ma solo ora ho capito ciò che ha passato, l'essere soggetto a una pressione impossibile da sopportare, fino a mollare. Fino a chiedersi:«Sono stato proprio io?». Nonostante i nostri innumerevoli no, non può non sentirsi responsabile, a pensare ad altre irraggiungibili possibilità e alla causalità-

Ero al corrente di questo, eppure non lo ero. Non potevo capire che la situazione fosse così grave. Mio figlio aveva bisogno di un supporto, e io non sono stata affidabile.
Come ho potuto essere così cieca e insensibile? Posso essere considerata una madre? E quando si risveglierà, mi dirà che mi odia?

No, non lo farà, purtroppo: lui non odia altri che se stesso. Ma perché? Forse per non ignorare la gente, per non attirare l'attenzione. Per nascondere il suo disgusto e odio per se stesso.

Allora una madre deve desiderare di essere odiata dal suo stesso figlio piuttosto che lasciare che il giovane covi il dolore in segreto.
Io spero soltanto che tutto si risolva al più presto.

Nel silenzio che ne consegue sento dei suoni più rapidi, il respiro ora nel ritmo di veglia. Dagli angoli degli occhi posso vedere palpebre che supine permettono l'ingresso della luce. Nonostante la mia vista sia offuscata e non focalizzata da nessuna parte, noto Hershel ruotare la testa, cercando di ispezionare la stanza e poter dedurre il corso degli eventi. È proprio tutto suo padre: mi ricordo che anche lui scrutava ogni angolo, anche il più insignificante, per risolvere quei tremendi omicidi.

Si volta verso di me. Non sembra essere contento, altrimenti non ci sarebbero tutte quelle rughe e la pelle sarebbe distribuita omogeneamente. Alla mia vista, si irrigidisce, allontanandosi. Gli prendo la mano appoggiata al materasso, quasi si sia dimenticato della sua esistenza, e la accarezzo dolcemente. Poi la bacio e la avvolgo tra le mie, più calde. Allora Hershel si rilassa e si lascia andare, mollando le lacrime bollenti.

«Mamma―» i singhiozzi lo soffocano e gli accarezzo la schiena per calmarlo. «Perdonami... ho fatto un gran pasticcio... è tutta colpa mia...»

Mi limito a consolare quella povera anima, gocce crudeli zampillano dai miei occhi. «Andrà tutto bene, Hershel.» Con l'indice alzo il suo mento prima inerme, il suo sguardo annacquato. «Risolveremo questa storia. Insieme.»

Reciprocamente ci stringiamo, io cercando di stare attenta alle ferite. Sento la sua testa sulla mia spalla destra, i suoi respiri accelerati dai singhiozzi, i battiti guidati dal panico iniziale. Nonostante le lacrime, le bende e i medici che sono appena entrati nella stanza, non posso far altro che sorridere alla vita. Hershel è qui, tra noi.

«Signora Layton, se permette.» i medici intervengono e sciolgono l'abbraccio senza problemi. «Dobbiamo controllare le condizioni del paziente.» Senza protestare, annuisco e lascio la stanza, non senza un sorriso indirizzato al figlio che non avrei mai potuto avere.

Mi accomodo a una delle tante sedie in plastica scomode, ma non ci faccio molto caso, come 'sta mattina del resto. Vedo tutti i medici e le infermiere correre tra le varie stanze, marionette del tempo, minacciati dalla morte. I dottori escono dalla stanza 289. Mi informano della condizione stabile del paziente con fare affrettato. Infine, abbandonato dai colleghi, l'unico rimasto aggiunge che il paziente sta riposando e sarebbe meglio non dargli troppe pressioni, quindi massimo una persona alla volta a visitarlo. Non faccio in tempo a chiedere altro che corre verso una stanza e sparisce. Molto svelto, il giovanotto. Una barella mi passa davanti, la donna che vi è distesa coperta di sangue e lividi, e viene fiondata nella medesima porta, quella che continua a cigolare negli ultimi cinque minuti. Spero che quella donna sopravviva. Prima che possa dedicare le mie poche energie ai miei pensieri, nel corridoio sento delle voci familiari, tra cui una grave ma calda, la voce dell'amore. Senza perdere un istante, mi alzo e li raggiungo. Sono Arthur, Alphonse e... Angela? Il mio volto si fa più cupo alla presenza di quest'ultima, ma aguzzando la vista noto la sclera dell'unico occhio scoperto non più tanto candido, l'altro aggredito dai riccioli, le guance purpuree, le labbra morsicate e un naso che non vuole piantarla di gocciolare. Non ho mai visto quella ragazza così sconvolta. Lei non osa incrociare il mio sguardo, con fare vergognato, avvolgendosi con le sue braccia striminzite...

Arthur mi sopraggiunge anche sulla parola: immediatamente mi spiega che Angela vuole porgere le sue scuse, sia a me che a Hershel. Alla menzione del suo nome, si limita ad annuire freneticamente.

«Mi perdoni per quello che è successo, signora Layton.» Non mi volge lo sguardo, ma le formalità. Fa un piccolo inchino, incurvando la schiena.

Normalmente, potrei essere così sfrontata da dirle le solite frasi di circostanza come non chiedermi scusa o semplicemente lasciar parlare le mie mani. Ma effettivamente, nonostante ciò che ha causato dichiarare Hershel come assassino, non posso punirla. Anzi, non ne ho il diritto. Oltre al fatto che lei non si tratta di mia figlia, non posso giudicarla come persona. Ha perso il suo amato alla giovane età dell'adolescenza, forse il momento più importante nella crescita psicologica. Ma comunque il lutto non è un peso facile da portare sulle spalle. E ne ha già uno, da 8 anni. Come la si può giudicare? Non so cosa avrei fatto se quello a morire fosse stato Arthur... Meglio non pensarci.

Allora, per rompere il ghiaccio, la abbraccio. Inizialmente rigida e immobile, le scoppia un terremoto interiore, il diaframma sotto sforzo e i singhiozzi non poco udibili, la mia maglia bagnata. Anche i due uomini, nonostante il fisico non lo faccia pensare, sono commossi e si aggiungono alla stretta. E rimaniamo lì, in un angolo di corridoio dove, nonostante il traffico dei medici, il tempo è sospeso.

«Tutti noi ti perdoniamo.»



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Scusate il ritardo. Scusate gli errori. Scusate tutto. Ma ultimamente sono molto stressata e scrivo sempre più merda. Ancora scusatemi.

  
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