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Autore: yonoi    08/07/2019    10 recensioni
In un tempo remoto, quando gli uomini credevano che il sole andasse a trascorrere la notte sul fondo del mare e la presenza di Dio si rivelasse nei colori e nelle forme del mondo, quando gli ambulanti giravano per le piazze vendendo amuleti e altri oggetti di meraviglia, allora ci fu un sogno: unire i due grandi Imperi che si affacciavano sulle sponde del Mediterraneo. Gli storici tramandano che le nozze tra Zoe Porfirogenita, principessa bizantina, e Ottone III di Sassonia, che all'epoca reggeva il Sacro Romano Impero, non furono mai celebrate a causa della prematura morte del giovane imperatore. In questa storia, invece, l’Oriente e l’Occidente si uniscono a formare un unico grande regno; un regno in cui viaggiano reliquie e ciarlatani, una principessa imperiale con il suo seguito, due monaci con un libro, briganti più o meno famosi e soprattutto tre uomini con un carro e il ciuco del titolo.
Questa storia partecipa al contest "Senza Tempo II indetto da Mystery Koopa sul Forum di EFP
Genere: Avventura, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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Capitolo secondo: Dove si apprendono delle cattive notizie e qualcuno finisce spennato come un pollastro
 

 

“A volte è difficile fare la scelta giusta,
perché o sei roso dai morsi della coscienza
o da quelli della fame”
(Totò)
 
 

Eremo della Madonna delle Carceri, bacino fluviale dell’Adige a sud dei Colli Euganei
 

Mentre il corpo di mio padre veniva lavato con vino speziato per cavare gli umori fetidi delle febbri, quindi condotto in processione a Sant’Apollinare, per riposare in somno pacis accanto alle ossa del santo, io avevo ormai lasciato i territori della Nuova Pentapoli. Il mio corteo sostava nei pressi di un romitorio che galleggiava letteralmente sulla palude, in una pianura di nebbia detta, con grande appropriatezza, delle Carceri. In quella piana delimitata all’orizzonte da colli lattiginosi, contro cui il vento rimasto dall’inverno scalciava nel tentativo di trovare una via d’uscita, un gruppo di agostiniani era riuscito a mettere radici e due capanne, con l’intento di trasformare quel luogo in un monastero.
Dagli acquitrini coperti da una patina verdastra, a tratti emergevano le loro sagome bigie, intente a levare argini e a condurre carriole di ghiaia, che qua e là cedevano e toccava fermarsi per disincagliarle dal fango. Il tintinnio degli scalpellini, proveniente da una cava nel ventre delle colline, era interrotto dai richiami di grossi uccelli rauchi, in volo dai canneti.
La desolazione che ovunque ci circondava mi suggeriva l’idea di un’immensa lontananza.
Giungemmo infine a uno spiazzo dove sorgeva l’unico edificio in pietra, le mura di una cappella dedicata alla Vergine con al posto del tetto un frammento di cielo.
Là ci raggiunse il priore per offrirci il benvenuto, acqua per i cavalli e una tavolata di frutta secca. Raffiche basse preannunciavano un temporale e scuotevano i rami di un alberello contorto, che malgrado le zolle fradice e l’aria greve fioriva in una nube di petali rosa.  
Sempre là, poco dopo, fummo raggiunti da un messo inviato da Ravenna. L’avevo già intravisto durante l’ultimo tratto, spiando dalle cortine che relegavano il mio carro in una penombra perenne. All’orizzonte, la forma indistinta di un cavaliere spariva nella caligine, di seguito riaffiorava e ci veniva incontro al galoppo. “Sarà la retroguardia,” aveva detto Berta, che badava a tenersi sul naso un sacchetto di sostanze aromatiche, perché temeva gli umori e le febbri delle paludi.
“Oppure sarà il diavolo,” osservò un’altra dama, stringendo anche lei un involto sul lungo naso a becco e sobbalzando all’udire l’eco di un tuono. “Lo senti, piccola augusta? È il diavolo che porta a spasso sua moglie.”
Quegli intrugli di mirra, canfora e altri estratti avevano saturato, nel giro di breve, la poca aria che ristagnava nel carro. A quel punto cacciai la testa fuori dalle cortine per tirare un respiro e rivolgermi a Rustico, che sobbalzava in sella sulle creste di fango.
“Qualcuno ci sta seguendo,” dissi. Anche il pretoriano teneva un fazzoletto intriso di spezie sul volto, il mantello tirato fin sopra alle orecchie e gli occhi a fessura, per ridurre al minimo i contatti con i miasmi. A vederlo così, pareva che dormisse.
“Svegliati un po’, soldato!” lo ripresi, facendolo sobbalzare. “Vai piuttosto a vedere chi è che ci vien dietro.”
Chi era lo sconosciuto, lo imparai ben presto.
“Porto notizie dal Palazzo dell’Esarcato,” disse quando arrivò, scortato da Rustico e ancor prima di scendere da cavallo. “Le febbri hanno prevalso sulla salute dell’Imperator.” Il messo cavò fuori un dispaccio e lo porse a Cassiano, che aveva assunto la mia tutela per il tempo del viaggio. Riconobbi il sigillo della basilissa Zoe, insieme a un altro a me totalmente sconosciuto. Nel silenzio che era caduto d’un tratto, cercai di decifrare il senso di quella lettera osservando la faccia assorta di Cassiano, il cui cipiglio andava peggiorando mano a mano che scorreva le righe. Il messaggero attendeva paziente e sull’attenti, impegnando le ultime riserve di energia per rimanere dritto dopo aver cavalcato a spron battuto per giorni. Accanto a lui, Rustico era assorto a guardarsi le pezze dei piedi.
Il peggior presentimento trovò spazio dentro di me, così recuperai un filo di voce e domandai:
“Mio padre è peggiorato? Ha avuto un altro attacco?”
“Da tempo l’Imperator aveva espresso il desiderio che il suo cuore riposasse accanto a sua figlia,” rispose il messaggero, porgendomi un astuccio che mi spinse a riparare tra le ampie vesti di Berta. “Lo porterai con te in terra di Ungheria.”
“Voglio tornare a Ravenna,” protestai. Fu tutto ciò che riuscii a pensare in quel momento, mentre avevo l’impressione di affondare nell’acqua marcia della palude.
“È volontà della basilissa che il sogno dell’Impero riunificato continui,” intervenne Cassiano. “Puoi scegliere se fare ritorno a Ravenna ed essere adottata dal prefetto Cipriano, che tua madre ha prescelto perché regni al suo fianco.” Notai chiaramente sul volto del mio tutore un moto di insofferenza. “Oppure, puoi decidere di dar seguito alle ultime volontà dell’Imperator e proseguire il tuo viaggio.”
Quel viaggio, in realtà, non era stato mio fin dall’inizio: lo diventò in quel momento, malgrado la confusione, la tristezza, lo smarrimento. Gran parte del discorso di Cassiano mi rimaneva oscuro: Cipriano di Armenia lo conoscevo solo di nome, nulla sapevo di lui se non che era il comandante delle guardie di mio padre. Non ero ancora donna al tempo della partenza e, se la memoria non mi inganna, non lo ero neppure allora. Eppure quella sera, mentre il cielo si rompeva percorso dai lampi e cominciavano a cadere le prime gocce, uscii definitivamente dall’infanzia.
Ordinai di riprendere il cammino nella notte. Su mia richiesta, le dame insieme a Berta presero posto in un altro convoglio. Coi sacchetti di essenze sempre attaccati al naso, da cui sfuggiva un mormorio ancora più acre, le vidi salire su uno dei carri di vettovaglie e stiparsi tra i sacchi di carne sotto sale, i barattoli di conserve e le scorte per i cavalli.  
Il tramonto era un filo di brace sull’orizzonte, la pioggia una cortina che velava un paesaggio collinare e monotono. Dal mio carro solitario udivo le voci di Rustico e di quelli della scorta, di tanto in tanto costretti a fermarsi per cavar fuori dalla melma una ruota.
Quello era il momento destinato ai pensieri, eppure non riuscivo a metterne insieme neanche uno. Guardai i mucchi di oggetti ammassati un po’ ovunque, cassepanche di abiti da cui proveniva un leggero aroma di basilico, suppellettili avvolte in drappi di tessuto, cofanetti intarsiati per i gioielli e il trucco. Qualche grano d’incenso ormai ridotto in cenere diffondeva un’intensa fragranza alla rosa.
Avvertivo in me il bisogno di fare delle domande, ma passando in rassegna i volti del mio seguito, mi resi conto che nessuno sarebbe stato in grado di rispondermi in modo convincente.
“Fatti animo, piccola augusta,” avrebbe detto Berta, senza sapere che pesci pigliare.
“La volontà di Dio segue vie incomprensibili,” avrebbe sentenziato Cassiano, senza spiegare niente.  
D’un tratto mi ricordai di un involto tra i tanti, un panno di broccato tenuto insieme da cordicelle dorate. Doveva pur essere da qualche parte, in fondo si trattava del dono più importante da offrire a Stefano il Pio, in segno di alleanza: frugai tra le masserizie e presto lo ritrovai.
Si trattava della reliquia che i sedicenti pellegrini dei luoghi santi avevano recato in omaggio alla basilissa, in un tempo che ormai pareva lontanissimo. I particolari di quel giorno erano ancora vivi dinanzi a me: la luce del mezzogiorno sul selciato della corte, gli amuleti di pietre e i curnicielli rossi, gli occhi di Liutprando che seguivano la scena, l’arrivo di Cassiano e io che conducevo l’intera compagnia al quartiere delle donne, sperando di movimentare la giornata.
I tre compari del ciuco non erano nient’altro che poveracci che tiravano a campare sulla borsa dei grulli, ma dinanzi alla basilissa avevano esibito qualcosa di realmente straordinario: al centro di quel broccato che a svolgerlo occupava un intero tavolo e ancora ne avanzava, tanto che Sandrone e Pisquano, quello dei curnicielli, avevano dovuto reggerlo perché non toccasse terra, era cucito un pezzo di lino fine, che recava un’impronta appena distinguibile. La basilissa Zoe, tra le file di perle che le scendevano sulle spalle, Cassiano e don Giustino, il pretino che a stento arrivava al bordo del tavolo, io stessa insieme a Berta, Rustico e le donne del gineceo ci chinammo a guardare. Nel chiarore che giungeva dalle finestre aperte, l’immagine si perdeva in una serie di macchie, dalla consistenza simile a bave di seta.
Soltanto quando il capo degli ambulanti ordinò la chiusura delle porte e dei tendaggi, nella penombra apparve l’immagine di un volto dalle palpebre chiuse, che esprimeva una composta serenità. Persino io, che avevo sempre considerato Dio alla maniera degli antichi filosofi – una sorta di grande macchina in movimento, del tutto estranea alle vicende degli uomini – rimasi affascinata.
Alle mie spalle Rustico si grattava la testa, le dame si segnavano come fossero in chiesa, Giustino si sporgeva e a momenti stramazzava sul tavolo. Cassiano era impassibile, mentre la basilissa aggrottava lo sguardo. Una preziosità del genere in mano a tre straccioni e un asino: la faccenda appariva quanto meno sospetta.  
“Non toccarlo, reverendissimo,” avvertì il capo degli ambulanti, un certo Michelaccio, rivolto a Giustino che già allungava le dita. “Il tessuto è antichissimo e potrebbe addirittura disfarsi in polvere, qualora venga toccato da mano profana.”
Il prete Giustino, che era come Tommaso e per credere doveva toccare con mano, si sentì punto sul vivo: “Io sono un sacerdote, e sono molto più degno di voialtri lestofanti…”
“Noi maneggiamo solo i bordi del broccato,” tagliò corto Michelaccio, che di colpo aveva acquistato autorità e ci teneva a tenersela stretta. “Questa immagine non è stata creata da mano d’uomo. Non è stata dipinta e non è neppure un ricamo.”
“A Costantinopoli è venerato il sacro volto di Edessa,” lo interruppe la basilissa. “Questo da dove proviene? Ammetterete che è strano che un oggetto del genere si trovi nelle mani di un gruppo di ambulanti.”
“Può essere farina del sacco del diavolo,” interloquì Giustino, risentito. “Si sa che il demonio ama trarre in inganno presentandosi con l’aspetto degli angeli, o addirittura di Cristo in persona.” Cassiano si limitò ad annuire, Michelaccio dal canto suo non si scompose:
“Come ho già detto prima, noi siamo pellegrini provenienti dai luoghi santi. Al prezzo, ci tengo a dirlo, di tutti i nostri averi e tenendo per noi solo il carro e il somaro, abbiamo acquistato questa preziosa reliquia da un gruppo di cavalieri di Compostella, che a loro volta l’hanno sottratta agli infedeli e ne hanno confermato l’origine incontrovertibile.”
“Incontrovertibile?” osservò Cassiano, sornione.
“Hai per caso dei documenti che attestino quello che vai dicendo?” rincarò Giustino, pugnace.
“Naturalmente, padre santo.” Michelaccio frugò in un borsello sudicio che gli cascava, più che pendere, dal fianco. Ne estrasse una pergamena e la consegnò al prelato. “Qui sono narrati i numerosi miracoli compiuti dal sacro volto di Compostella. Proprio davanti alla basilica di san Giacomo incontrammo quei cavalieri, che dissero di averla trovata sulla tomba del santissimo apostolo.”
“Ma non hai appena detto che i cavalieri l’avevano sottratta agli infedeli?”
Mentre la discussione andava per le lunghe, io ebbi tutto l’agio di osservare l’immagine e non riuscii a sottrarmi alla sua suggestione. Pareva un re dormiente, con l’unica differenza che i volti dei mausolei si limitavano a giacere nelle loro pose geometriche, mentre in questo caso si aveva l’impressione di essere scrutati fin nelle viscere da quegli occhi chiusi.
Quello sguardo che incombeva, pur provenendo dal ripiano di un tavolo, non ispirava timore ma una profonda quiete. Durante le sue infinite omelie, Cassiano ci aveva posto davanti agli occhi le sue visioni degli inferi, dove i denti stridevano e ancor più scricchiolavano gli strumenti per le torture. L’inferno doveva essere un luogo di rumore, di chiasso – è proprio il caso di dirlo – indiavolato. D’un tratto capii perché, del paradiso, il nostro predicatore non parlava quasi mai: non c’era niente da dire perché la dimora di Dio era solo silenzio, un silenzio che era equilibrio e armonia. Immaginavo i cori degli angeli assorti a contemplare una luce senza inizio né fine, che prosciugava l’anima da qualsiasi domanda. Là le molte questioni che agitano la mente e la vita degli uomini si dileguavano come ombre, al cospetto di un Volto che se non era proprio quello di Compostella, certo doveva somigliargli parecchio.
In quella sera di pioggia che tamburellava sulle telerie del mio carro, svolsi il rivestimento senza toccare il prezioso lino all’interno, come avevo visto fare da Michelaccio. Qualcosa mi diceva che in quei lineamenti impressi a bave sottili erano contenute le risposte a tutte le mie domande. Aggiunsi olio alla piccola lucerna che dondolava appesa a una cordicella, spargendo strane ombre piuttosto che far luce, e mi disposi a riflettere.
Negli ultimi giorni prima della mia partenza, mio padre aveva subito un nuovo attacco di febbri e quella santa reliquia gli era stata posta sul petto, per riordinare i suoi umori secondo quanto narrava il racconto dei miracoli. Tuttavia, l’espediente che aveva tratto in salvo un contadino colpito da un fulmine, sette donne in procinto di morire di parto e almeno due bambini ripescati dal fiume col ventre gonfio d’acqua, non aveva funzionato con l’Imperator. Non potevo fare a meno di domandarmi perché. Soprattutto, mi chiedevo dove fosse mio padre in quel momento. Si trovava all’inferno descritto da Cassiano o aveva raggiunto la pace? Era morto prima del tempo, e quindi la sua anima avrebbe continuato a vagare sulla terra fino al giorno del giudizio di Dio? Così si credeva dalle mie parti a quel tempo. Mentre mi dibattevo in questi interrogativi, il carro ebbe un sobbalzo e si arrestò di colpo. Udii un trambusto provenire dall’esterno, vidi ombre addensarsi attorno ai tendaggi. Un baluginio di torce illuminò il passaggio di quello che pareva un gruppo di armati, a piedi o a cavallo, che caricava a testa bassa. Per il terrore che mi colse in quel momento, quelle forme spettrali mi parvero gigantesche. In mezzo al clamore ch’era sorto d’un tratto, riconobbi la voce di Rustico che chiamava i rinforzi, le grida delle donne in qualche punto remoto, ordini che volavano da un capo all’altro del convoglio, un fragore di armi. Altre grida in una lingua che io non conoscevo, dagli accenti selvaggi.
Feci appena in tempo a recuperai la reliquia e riparai sul fondo, dietro a un mucchio di cassepanche impilate. Stavo considerando l’idea di rifugiarmi dentro a una di queste, quando dalle cortine fece capolino un tizio massiccio, barbuto e soprattutto armato fino ai denti. Per un attimo restai immobile a fissarlo, stringendo ancora il broccato che recava il Volto santo. La cordicella di seta che reggeva la lucerna fu tagliata di netto da un colpo d’ascia, la luce s’infranse in schegge e improvviso calò il buio.
 
******
 

Fosso Ghiaia e Borgo Faina, nel contado di Ravenna

 
“San Crispino, san Giustino, fammi vincere il quattrino…” ritto in piedi sul carro, brandendo una manciata di curnicielli con voce stentorea, Pisquano aveva appena terminato la prima strofa. Stava prendendo fiato per attaccare la seconda, santa Eufemia e santa Assunta, nel borsello il mio soldino, il cornetto al santino, quando un messo imperiale, scortato da un gruppo di soldati e da un paio di ceffi del signore locale, discese da cavallo sul piazzale del borgo. Vennero esposte le insegne: l’aquila bicipite dell’Imperator, la croce simbolo della basilissa dei Romei, nonché un panno dai colori sgargianti che esibiva al centro un pinolo e rappresentava Tinozzo di Fosso Ghiaia, padrone del feudo.
Il pinolo era moneta di scambio da quelle parti: raccolto nelle ricche pinete del litorale, aveva riempito a manciate la scarsella di Michelaccio in un giorno particolarmente propizio per gli affari. Ai tre compari era bastato far capolino accanto al pozzo nell’ora in cui le donne andavano ad attingere l’acqua, chiedere un secchio per far bere Liutprando e spalancare il sacco. I monili di pietra dura e i curnicielli rossi avevano fatto il resto, almeno finché il messo e il suo seguito non erano sopraggiunti a interrompere il mercato. Mentre Pisquano era sul punto di riprendere la filastrocca che avrebbe dotato i curnicielli della massima potenza nei tre campi consueti – gioco, denaro e amore – il messo aprì un dispaccio e cominciò a proclamare, col tono monocorde di chi aveva girato parecchi villaggi a partire dall’alba:
“Nel nome di Cipriano Imperator e dell’augusta Zoe, il signore di Fosso dà ordine e dispone che un maschio per famiglia si presenti all’accampamento di Classe nel tempo di giorni trenta da oggi. Qualora non sia in grado di provvedere alle proprie armi, per mancanza di mezzi o per mestiere, si presenti all’arruolamento in qualità di artigiano, addetto alle salmerie e alle varie necessità, oppure versi sette libbre di legna, di avena, di fieno o di grano. No, il pinolo non è contemplato dall’editto,” aggiunse, rispondendo a una domanda ch’era appena un brusio nel gruppo delle donne.
Sandrone, Michelaccio e Pisquano, indaffarati a raccogliere le merci, si scambiarono un’occhiata:
“Comincia un’altra guerra?” sussurrò Sandrone, che anche se poteva contarsi le ossa addosso era pur sempre alto e piantato come un pioppo. A volergli prendere le misure, il fisico e l’età per andare in battaglia li possedeva tutti.
“Ma l’Imperator non era Ottone, quello della reliquia?” aggiunse Pisquano, grattandosi la testa. “Sta’ a vedere che quel lenzuolo gli ha portato disgrazia. Dovevamo vendergli o’ curniciello, anche se forse avremmo incassato di meno. Quei due sacchi di denari ci hanno fatto ben comodo”
“Chiudete il becco, imbecilli,” li riprese Michelaccio. “Questo non ci riguarda. Mica siamo al servizio del signore di Fosso. Noi siamo pellegrini in giro per il mondo. E adesso poche chiacchiere e badate a fare fagotto.”
Gli stessi interrogativi assillavano lo sparuto capannello che s’era radunato attorno al messo: erano per lo più donne con grappoli di bambini attaccati alle gonne, anziani col bastone, un paio di ragazzotti con gli occhi sgranati come lepri prese in trappola. Uno di questi si fece portavoce di tutti:
“Ma la guerra dov’è?”
“Lontano.” Il messaggero indicò l’orizzonte con la mano. “Nella terra di Al Andalus, dove vivono i mori.” La gente, che aveva seguito il gesto alzando il naso oltre i tetti, verso la macchia che incominciava appena fuori dal villaggio, impallidì di colpo. Come se l’avversario, temibile e leggendario, fosse nascosto là, dietro al primo cespuglio.
“Ma i mori tagliano le orecchie alla gente,” osò dire qualcuno, con un filo di voce. 
“Tagliano anche il naso,” rincarò un altro. “E le mani e le teste, poi le appendono ai muri delle loro città, perché le vedano tutti.”
“Mancano di rispetto alle donne,” aggiunse una comare, con gli occhi dilatati da chissà quali visioni. “Le prendono come schiave e le aggrediscono in dieci, in cinquanta per volta.”
“Non ci saranno donne nella nostra spedizione,” tagliò corto il messo imperiale. “I regni cristiani dell’Hispania chiedono aiuto all’Impero. L’Imperator vi rammenta che un tempo quei territori erano provincia romana.”
I villici continuavano a fissarlo sbalorditi. Hispania e Al Andalus erano nomi vuoti, che nessuno di loro avrebbe mai saputo collocare sulla faccia del mondo. I mori, invece, li conoscevano bene. Per sentito dire, ovviamente, ma con una tale dovizia di particolari da suscitare il terrore solamente a parlarne. 
“Hai detto sette libbre di avena o di grano?” domandò il ragazzo di prima, già intento a fare i calcoli di quanto c’era nel granaio di suo padre.
“Dio vi chiama in battaglia,” alzò la voce il messo. “Il santo padre Silvestro garantisce per voi l’acquisto dell’indulgenza, con il perdono di tutti i peccati commessi dal giorno del battesimo. Avrete la gloria in terra e, se morirete nell’impresa, quella del regno dei cieli.”
“Bella soddisfazione,” ringhiò Michelaccio, che si trovava a una distanza sufficiente per poter commentare col beneficio dell’impunità. Sandrone, invece, ascoltava con gli occhi che brillavano, rapito dagli stendardi che garrivano al vento e dallo splendore di armature immaginarie. “Forse potrei diventare cavaliere,” mormorò, trasognato.
“Sicuro,” rispose Michelaccio. “È la sorte dei pezzenti, diventare cavalieri. Va’ piuttosto a recuperare Liutprando. Qui si chiude bottega, ma il sole è ancora alto e possiamo raggiungere Borgo Faina prima che arrivino questi a guastarci la piazza.”
Nuovamente in cammino, i tre ripresero a discutere della reliquia.
“Ma tu lo sapevi, che abbiamo un nuovo Imperator?” incominciò Pisquano.
“L’altro è morto di febbri,” rispose asciutto Michelaccio.
“Sicché il volto di Compostella non è servito a niente.”
“E tu che ne sai?”
“Mentre eravamo ancora a Ravenna, la reliquia è stata posta sul corpo del sovrano durante uno dei suoi soliti attacchi,” spiegò Pisquano con le guance più rubizze del solito, segno evidente di una fifa galoppante. “L’ha tenuta sul ventre per tre giorni e tre notti. Dopo, si era ripreso. O almeno, così ha raccontato una mia compaesana che serve al Palazzo. Sono riuscito a venderle ben dodici curnicielli, uno per ogni membro della famiglia.”
“Le febbri consumano le fibre del corpo a una a una. Anche se c’è chi dice che l’Imperator sia stato avvelenato.”
“Purché non diano la colpa a noi,” s’intromise Sandrone, che invece per la fifa era bianco come uno straccio.
“Su questo, puoi stare tranquillo,” garantì Michelaccio. “Se fosse così, già ci avrebbero preso e tagliato le mani, le orecchie e forse anche qualcos’altro. Queste cose le fanno anche i cristiani.”
Seguì un lungo intervallo di silenzio, mentre Liutprando si faceva strada nel bosco e non si udiva altro che il fruscio dei cespugli e dei rami più bassi, che restavano presi nelle telerie del carro. Di tanto in tanto, il mormorio di un torrente su un letto di pietre chiare, la fuga di un animale selvatico in qualche anfratto e il richiamo del cuculo. Il mezzogiorno filtrava in brevi fasci di luce.
 “Certo che abbiamo rischiato grosso al Palazzo, raccontando quella fola di Compostella,” riprese a dire Pisquano, che non si sentiva per nulla tranquillo e non sapeva perché. 
“I ricchi sono come i villani dei borghi. Sono superstiziosi. Non lo sanno neppure loro, dov’è Compostella,” dichiarò Michelaccio, frugando dentro al carro e cavando due pani e una manciata di pinoli.
“Io dico che è non bene rubare ai morti, porta scalogna.”
“Ancora con questa storia?” masticò Michelaccio, insieme a un boccone di pane. “Mangia e cuciti il becco. Da queste parti, anche i pini hanno le orecchie.”
In realtà, pure lui si sentiva inquieto. Era chiaro che loro non c’entravano nulla con la morte dell’Imperator. Anche le reliquie hanno i loro limiti: diversamente, nel mondo non ci sarebbero più la scrofola e la peste, nessuna donna morirebbe durante il parto e per sconfiggere i mori sarebbe sufficiente sventolare un lenzuolo, invece di andarsene in giro per i villaggi a raccattare un esercito.
Piuttosto, guai se si fosse saputo che la reliquia non veniva da Compostella ma era stata trovata, per fortuna o per caso, sul luogo di un agguato. Durante una delle loro peregrinazioni ai confini della Pentapoli, si erano imbattuti in quel che rimaneva di una compagnia assalita, molto probabilmente, dalla banda di Battibecco, che imperversava da quelle parti ed era persino più temuta dei mori. Gli aggrediti dovevano essere gente ricca, dal momento che quelli di Battibecco, dopo averli affettati che neanche con un filone di pane si poteva far meglio, li avevano spogliati persino degli abiti. Qua e là erano sparse le tracce della devastazione, c’erano bauli rovistati e buttati in aria.
“Frughiamo un po’ e vediamo se c’è qualcosa da portar via.” Il senso pratico di Michelaccio aveva avuto la meglio sullo sbigottimento generale. Anche quella volta Pisquano, che temeva i defunti molto più dei briganti, aveva obiettato: “Non si prende la roba ai morti, dalle mie parti dicono che porta disgrazia. Magari i loro spiriti sono ancora qui in giro e vorranno vendicarsi.”
“Mica li abbiamo ammazzati noi,” osservò Michelaccio, addentando un formaggio trovato in mezzo all’erba. “E poi, non le ascolti le prediche? Essere superstiziosi è da ignoranti.”
“Sarà. Ma non esserlo porta male.”
“Andiamo, mica è rubare,” intervenne Sandrone, intento a rovistare tra i corpi e gli oggetti sparsi con il fiuto di un cane da caccia. “Noi ci limitiamo a prendere in prestito per il giorno del giudizio. In ogni caso, tutto ciò che troviamo a loro non serve più.”
“Certo che hanno fatto un bel repulisti,” disse ancora Pisquano, che non si risolveva a toccare i cadaveri e si guardava intorno, probabilmente in cerca di qualche anima errante. “Hanno portato via tutte le armi.”
“Bel branco di fessi. Il ferro mica si mangia.” Michelaccio addentò un altro pezzo di formaggio, con evidente soddisfazione.
“Però serve a fare la pelle ai disgraziati che passano per di qua.”
“Appunto. Vediamo di sbrigarci.” Michelaccio assestò una manata sulla coppa a Sandrone: “Molla quelle scartoffie. Se ti piace poltrire sui libri, dovevi farti monaco.”
Sandrone era l’unico dei tre che sapesse leggere. Cresciuto in un villaggio vicino a Pomposa, era l’ultimo di sette fratelli entrati nell’abbazia, in fila uno dopo l’altro. I suoi avevano fatto appena in tempo a insegnargli le sillabe prima che certe frequentazioni a zonzo per le locande gli facessero incontrare Michelaccio da Rimini e Pisquano di Napoli, che lo spogliarono al gioco suscitandogli in cambio la sete di avventure. Si diede così a far vita da girovago insieme a loro, ma l’amore per le parole gli era rimasto addosso. Quando ne aveva il tempo e l’occasione, Sandrone ne approfittava per esercitarsi con l’alfabeto. In quel preciso istante, prima che lo cogliesse lo scappellotto del compare, era intento a scorrere col dito un manoscritto ridotto nello stesso stato pietoso dei corpi sparsi attorno. Strappato in più punti, recava notizie su quel viaggio finito in malora: “Qui dice che gli uccisi venivano da Roma, a portare un dono e un messaggio addirittura all’Imperator.
“Per quello che ne so, a Roma l’Imperator è benvenuto come un cane in chiesa,” osservò Michelaccio, che le cose le sapeva anche se, da autentico pellegrino, fingeva di snobbare i fatti del mondo.
“Infatti qui gli domandano la grazia di non mettere più piede in città. In cambio, gli offrono una reliquia portentosa.
“Sarà il solito pezzo del legno della Croce. Chi è arrivato prima di noi, se lo sarà preso per farci un falò.”
“E se invece fosse questo?” Tra le scartoffie sparpagliate sull’erba da chi, evidentemente, non vi aveva trovato nulla di interessante, Sandrone pescò un rotolo di broccato finissimo, avvolto in una guaina di semplice pergamena. Una volta spiegato nel mezzo della radura, il rotolo rivelò il proprio contenuto.
“È un fazzoletto sporco,” fece appena in tempo a dire Pisquano. In quel momento, una nube che andava per i fatti suoi verso il mare si fermò sopra al bosco, immergendolo in un’oscurità quasi totale. Durò solo un istante, ma fu sufficiente perché il volto del Dormiente si mostrasse in tutta la sua serena compostezza. “È un ritratto del Cristo,” osservò Sandrone, stupito. “Chissà quali tinte hanno usato per dipingerlo. Si vede solo al buio.”
“A Costantinopoli esiste un Volto simile, impresso sulla tela ma senza che sia stato dipinto da nessuno. Almeno così si dice,” ragionò Michelaccio.
“Ma allora è un miracolo!” Pisquano lo annunciò con un tale entusiasmo da scordarsi di colpo delle anime trapassate, che secondo lui svolazzavano sul luogo del delitto come rapaci in tondo.
“È un miracolo, certo, per chi ci crede,” ghignò Michelaccio. “Per noi, invece, è un affare. Si parte per Ravenna, miei prodi, e otterremo due piccioni con una fava: l’Imperator avrà il suo dono e i devoti pellegrini otterranno un’equa ricompensa. Se aggiungi che le anime di questi disgraziati saranno ben felici che qualcuno porti a termine il loro servizio, ecco che i piccioni in questione diventano tre. Caricate dunque la fava sul nostro carretto,” aggiunse, solenne, “e filiamocela alla svelta. Non sia mai che a Battibecco salti in mente di aver scordato qualcosa e si prenda il disturbo di correre qua a riprenderselo.”
Così quella reliquia, detta di Compostella quando in realtà proveniva dai nemici giurati dell’Imperator, dopo aver portato pochissima fortuna ai nobili romani, portò uguale disgrazia a Ottone di Sassonia e una discreta iella anche ai tre del ciuco.
Mentre difatti entravano a Borgo Faina, furono intercettati da un altro contingente dei messi di Cipriano. Le insegne raffiguranti l’aquila bicipite, la croce dei Romei e il pinolo di Tinozzo si strinsero attorno a loro senza lasciare scampo.
Dopo aver dato lettura del solito dispaccio, il banditore di turno ritenne dar seguito a una postilla quanto mai decisiva: “Essendo decretato in tutto il territorio della Pentapoli il divieto assoluto di esercitare il mestiere di ciarlatani, venditori di amuleti, cornetti e altri oggetti di superstizione, si dispone che tutti coloro che verranno sorpresi a esercitare simili mestieri, capziosi, ingannevoli e fondati su credenze pagane, saranno reclutati per il bene delle loro anime nel costituendo esercito a difesa della cristianità.”
“Cosa vuol dire capziosi?” osò chiedere Pisquano, mentre un paio di armigeri, spalleggiati dai ceffi di Tinozzo di Fosso Ghiaia, circondavano il carro e cominciavano a frugarlo.  
“Significa che c’hanno fregato, imbecille,” mormorò Michelaccio, a denti stretti.
Liutprando, solitamente silenzioso e pacifico come si addice a un asino in devoto pellegrinaggio, cacciò un raglio talmente vigoroso e drammatico da far sobbalzare tutta la piazza: trasalirono tutti, dal banditore all’ultimo villano del paese, proprio come se i mori fossero usciti in quel momento dai vicoli e stessero calando a spada tratta sul villaggio. Non ci fu verso di calmare il somarello, che tremava dai garretti alla punta delle orecchie.
A quel tempo si credeva che le bestie possedessero il dono della veggenza, sicché quelli di Borgo Faina considerarono il raglio alla stregua di una premonizione: attorno ai focolai nelle sere d’inverno, si tramandò per generazioni il racconto della visione di Liutprando, con tale profusione di dettagli paurosi da non dormirci la notte. Come se la gente avesse visto coi propri occhi il campo di battaglia, chiaro tondo e spaventoso e con grande spargimento di orecchie e nasi mozzi.   
I fatti successivi diedero piena ragione a Liutprando, perché dei venti uomini reclutati a Borgo Faina ne tornò solo uno, talmente malconcio e ridotto alla follia che morì di lì a pochi giorni.  

 
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Abbazia di Nonantola, alcune settimane prima

 
In nomine Domini incipit Evangelii secundum Matthaeum. Il volume si apriva su una visione dei nove cori angelici, contrassegnati da diversi colori secondo i loro attributi: l’oro e il rosso rubino per il fuoco dei Serafini, il blu oltremare dei Troni che reggono in eterno il seggio dell’Altissimo. Poi, mano a mano che la luce divina scendeva, avvicinandosi alla materia, il bianco delle Dominazioni che regolano gli astri, il verde dei Principati che proteggono i regni terreni e l’azzurro degli angeli, che hanno cura degli uomini. Noi li avevamo rappresentati nell’atto di salire e discendere da una scala che arrivava fino alle nubi.
Perdendomi nella contemplazione di quella visione, pensai che in tutto l’Imperium non poteva esserci un evangelario più bello, in grado di raffigurare il regno dei Cieli proprio così com’era.
In tanti avevano contribuito alla realizzazione di quell’opera. Sulla pergamena sgrassata dal lunellum di Odilone e levigata dalla pomice, io stesso avevo tracciato le righe col punteruolo e con il filo a piombo. Di seguito era intervenuto Michele da Subiaco, che aveva riempito i folia con la sua calligrafia fine, lasciando appositi spazi per le figure.
Infine, insieme a Teodoro avevamo trascorso giorni interi a tracciare i bozzetti, dorare e poi dipingere le singole immagini. Mano a mano che il lavoro procedeva, Teodoro mi metteva a parte dei segreti di quell’arte paziente: imparai così che il tempo umido e la rugiada del mattino, che tormentavano le ossa dei confratelli più anziani, erano considerati eventi assai favorevoli per l’opera di doratura, perché permettevano alla base collosa di rimanere umida.
Diversamente, occorreva alitare a pieni polmoni sulla pagina per mantenere molle l’intonaco, che era costituito da una parte di gesso, una di piombo bianco e una di argilla mischiata a chiara d’uovo. Per questo mi toccava recarmi assai spesso in cucina, a separare le chiare dai tuorli. Già che ero lì ne approfittavo per sgraffignare qualche fetta di pane e pasticcio, possibilmente senza farmi sorprendere da Berto, il cuciniere. Tornavo da Teodoro sotto agli sguardi di riprovazione degli altri copisti, perché la Regola vieta di banchettare nello scriptorium.
Teodoro mostrava di gradire moltissimo quei momenti di pausa e in breve imparai a frugare con accortezza nelle madie, alla ricerca dei suoi bocconi preferiti. A colpi di pasticcio e focacce di uva passa, conquistai la fiducia del mio nuovo maestro: “Ottimo lavoro,” annuiva Teodoro a bocca piena, e io mi crogiolavo pur non sapendo se si riferiva al modo in cui stendevo l’intonaco oppure allo spuntino che gli avevo procurato.
 Di Teodoro si diceva che gli unici sentimenti ch’era in grado di provare riguardassero le pergamene, i colori e le penne. Oltre all’amor di Dio, naturalmente. Eppure, superate le prime burrasche e pur se continuava a rivolgersi a me con l’appellativo di idiotes, Teodoro si fece carico dei miei progressi con una perseveranza molto simile all’affetto.
Spesso, dopo compieta, ci fermavamo a lungo nello scriptorium, per continuare il lavoro col permesso dell’abate. Nello scriptorium si gelava già in pieno giorno, figurarsi di notte. Ma tale era in me il desiderio di apprendere che io tutto quel freddo non lo sentivo nemmeno. E devo dire che le immagine più ardite le realizzammo proprio in quelle ore notturne, appollaiati sugli sgabelli e coi mantelli levati fino alle orecchie. Dalle finestre entravano le voci della campagna, il fruscio delle volpi attorno ai pollai e i richiami del gufo.
 Quando ritornò il tempo dei voli delle rondini e i ciliegi del chiostro si coprirono di fiori, deponemmo i pennelli e Martino da Ravenna, maestro rilegatore, assemblò i folia e confezionò il volume. Fu allora che appresi che la delegazione incaricata di consegnare l’evangeliario all’augusta Teofano, di passaggio a Pomposa col suo corteo nuziale, era composta da due emissari soltanto: Teodoro e il sottoscritto. Di fatto eravamo in tre, perché a trasportare il dono e le provviste, nonché incaricata di farci far bella figura di fronte all’augusta era la mula Rosvita, la più graziosa dell’abbazia. Ci mettemmo dunque in cammino lungo le antiche strade che da Nonantola conducevano verso il mare.
 Nella contea di Ferrara trovammo le vie occupate dall’esercito che Bonifacio di Canossa, signore del luogo, stava allestendo per recarsi in Hispania a combattere contro i mori. Era un continuo traffico di armati, salmerie e altre truppe che giungevano dalla Pentapoli, di divieti di transito e intere aree occupate per acquartierare i coscritti, le bestie e le macchine. Per non accumulare ritardi decidemmo di seguire i sentieri meno battuti. E questo fu un errore, perché finimmo per perderci.
Dopo un lungo vagare attraverso borgate spopolate e boscaglie, apprendemmo da pellegrini di passaggio, tre uomini insieme a un asino, che il corteo dell’augusta aveva già lasciato da tempo quelle terre e non si era neppure fermato a Pomposa. Scoraggiati, ci interrogammo sul da farsi.
“La cosa più sensata è tornare a Nonantola e riferire all’abate,” disse Teodoro, mentre Rosvita approfittava della sosta per stringere amicizia col ciuco, che portava il nome altisonante di Liutprando.
“E se questi tre mentono?” insinuai all’orecchio del mio maestro. Quei viandanti mi parevano troppo male in arnese per essere dei romei, oltre al fatto che non recavano alcun contrassegno: non avevano il bordone né la conchiglia di Compostella, né il distintivo con le chiavi di san Pietro né la croce di Terrasanta.
Parevano piuttosto quel genere di ciarlatani che s’incontra nelle piazze, imbonitori di lozioni miracolose e altri trucchi di cui è bene diffidare, anche qualora non ne sia dimostrata l’origine diabolica. Gente di quella risma s’era veduta spesso anche alle Case Rotte. Una volta Secondo, uno dei miei fratelli, aveva scambiato un intero sacco di farro con uno di quegli intrugli per conquistare le donne. Non aveva rimediato in realtà nessuna femmina, bensì una buona dose di legnate da nostro padre.
Ritenni così opportuno che l’allievo, una volta tanto, consigliasse il maestro: “Non fidarti, magister. Questa è gente che imbroglia persino quando non ha da ricavarci niente. Andiamo fino a Pomposa, e là apprenderemo notizie sicure.”
In realtà, nel mio dire c’entrava anche l’orgoglio. Se ripensavo a tutto l’impegno che avevamo profuso per realizzare l’evangeliario, ero più che disposto a inseguire Teofano in capo al mondo. Sapevo che l’augusta, pur essendo poco più che fanciulla, era assai istruita e certamente avrebbe apprezzato quel dono. Forse avrebbe insistito perché l’accompagnassimo in terra di Ungheria, dove avremmo potuto realizzare per lei altri capolavori. Saremmo diventati miniatori di fama, e ammetto che quell’idea mi attirava ben più della prospettiva di tornare tra le zolle di Nonantola.
Teodoro, invece, era semplicemente sfinito dal lungo cammino. Fu così che tra i miei sogni di grandezza e la stanchezza accumulata dal mio magister, il diavolo ebbe l’agio di metterci la coda.
“Sapete dirci, buoni uomini, qual è il monastero o la pieve più vicina, in modo che possiamo trascorrervi la notte?” domandò Teodoro ai pellegrini.
“Da queste parti non ci sono conventi,” rispose il più massiccio, probabilmente il capo. “C’è però la Torre del Becco, a pochi passi da qui. Vicino c’è un mulino. Può essere un riparo accettabile per una notte.”
“L’abate si è raccomandato che cercassimo asilo solo entro i sacri recinti,” rammentai io che per intuito, più che per il rispetto che dovevo all’abate, subodoravo l’inganno. “Ci sarà pure una parrocchia nei dintorni, che si possa raggiungere di buon passo.”
 “Avanti sempre dritto arriverete a Borgo Faina. Però vi toccherà viaggiare col buio e non ve lo consiglio. Questi boschi sono infestati dalla banda del Paganello, noi stessi l’altra notte siamo scampati per un pelo a un agguato. Per fortuna Liutprando ha udito dei rumori e si è messo a ragliare, altrimenti ci avrebbero tagliato la gola nel sonno.”
Rabbrividii e a quel punto guardai il mio maestro. “Ci penseremo su,” disse secco Teodoro. Probabilmente, gli si leggeva in faccia che quella notte avremmo sostato alla Torre del Becco. Fatto sta che di lì a poche ore successe il fattaccio.
Innanzitutto la Torre era un rudere in mezzo alla campagna. Un luogo più isolato non si sarebbe potuto trovare. Il mulino che sorgeva nei pressi era anch’esso abbandonato, anzi per dirla tutta era poco più che un muro. Della ruota restava soltanto una carcassa ricoperta di edera. Il canale che un tempo scorreva da quelle parti era completamente prosciugato. Quel che ne restava era una pozza putrida, sopra a cui galleggiavano ninfee bianche e rosa.
Quelli ci hanno ingannato,” dissi, guardandomi attorno. “Qui è anche peggio del bosco. Se verranno i briganti a tagliarci la gola, non ci sentirà nessuno per mille miglia.”
“Andiamo, chi vorrà derubare due monaci?” si spazientì Teodoro. “E poi è troppo tardi per andarcene altrove.”
Non che non mi fidassi del buonsenso del mio magister, ma quella notte ritenni più opportuno vegliare o almeno ci provai. Nugoli di zanzare salivano dal fossato, probabilmente per aiutarmi nel mio ufficio di sentinella a suon di schiaffoni in fronte e sanguinose grattate sulle caviglie. Anche Rosvita vorticava la coda, per scrollarsi di dosso quel tormento continuo. Teodoro era crollato nell’erba alta e russava come se si trovasse nella reggia di Costantinopoli. Non era abituato a viaggiare, era di complessione delicata e più che la paura dei briganti di Paganello aveva prevalso in lui il richiamo di Morfeo.
La luna era tramontata da poco quando anch’io cominciai ad avvertire la spossatezza. Nel dormiveglia, feci appena in tempo a notare uno strano movimento accanto alla mula. Quando mi resi conto che non stavo sognando era già troppo tardi: mi levai di scatto e cominciai l’inseguimento, ma gli sconosciuti visitatori – mi pareva di averne intravisto più d’uno – s’erano già dileguati nel buio pesto. Avanzai alla cieca in mezzo alla campagna, dove ogni fruscio pareva un rumore di passi. Un’intera corale di ranocchi segnalava la presenza di canali o di fossi, ben disposti ad accogliermi nel caso decidessi di farci un salto. A stento riuscii a orientarmi per ritornare indietro.
“Svegliati, magister!” Senza troppi riguardi, appioppai uno spintone al mio confratello, accesi l’ultimo mozzicone di candela e cominciai a frugare nei bagagli. Non mi ci volle molto a compiere l’inventario, perché già immaginavo quello che avrei trovato, o meglio ciò che mancava: insieme a un paniere colmo di fichi secchi e a una focaccia al formaggio, era scomparso anche l’evangeliario.
“Ci hanno derubati!” gridai, mentre Teodoro riemergeva dal sonno e apriva prima un occhio, poi di seguito tutti e due. Ci guardammo in faccia quel tanto che ci consentì il moccolo e fu meglio così, perché ci sentivamo tutti e due così idiotoi che era davvero meglio stenderci sopra un velo.
Dai fossi, pareva che persino le ranocchie ridessero.
 

 
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