Capitolo settimo
I'm walking
uphill both ways, it hurts
I bury my heart here in this dirt
I hope it's a seed, I hope it works
I need to grow, here I could be
Closer to light, closer to me
I don't have to do this perfectly, yeah
Rain, it pours,
rain, it pours
It's pouring on me
The rain, it falls, rain, it falls
Sowing the seeds of love and hope, love and hope
We don't have to stay, stuck in the way
Have I the
courage of change?
Have I the courage of change?
Have I the courage of change today? (Oh)
(“Courage” – Pink)
Giovanni non sapeva
cosa aspettarsi una volta giunto a palazzo Albizzi ma Rinaldo, tutto sommato,
non appariva arrabbiato come avrebbe potuto essere, vista la colossale figura di merda fatta alla Signoria. No,
sembrava piuttosto… era difficile dirlo… forse deluso da Giovanni.
“Io non ci posso credere” gli disse infatti,
non appena furono soli nella sua stanza. “Ti rendi conto di come mi hai
umiliato davanti a tutti i membri della Signoria?”
“Me ne rendo conto sì, l’ho fatto apposta”
replicò il ragazzino. “Ve lo meritavate per come mi avete mortificato e poi
dovevo pur controbattere le vostre ridicole accuse ai danni di Messer Cosimo.”
Rinaldo rimaneva sempre destabilizzato di
fronte a tanta ammirevole sfacciataggine!
“Non erano affatto ridicole, è tutto vero.
Cosimo è colpevole e dovrà essere giudicato e condannato” insisté, e
probabilmente almeno lui ci credeva sul serio!
“Voi per primo sapete che non è così” fece
notare Giovanni, “ed è proprio per questo che ho voluto dimostrare ai membri
della Signoria quanto le stesse accuse che voi muovete a Messer Cosimo possano
valere anche per voi, in mancanza di prove. Io non penso di voi le cose che ho
detto, ma così tutti hanno capito quanto sia facile colpire qualcuno con accuse
prive di fondamento.”
“Ah, mi fa piacere sentire che almeno non lo
pensi davvero” fece Albizzi, sconcertato.
“No, non lo penso, ma almeno io lo ammetto.
Voi, invece, sapete benissimo che Messer Cosimo è innocente e volete lo stesso
condannarlo, come fecero tanti anni fa con i miei antenati!” lo accusò il
ragazzo.
“Cosimo non è affatto innocente, tutt’altro”
ribatté Albizzi, che ora cominciava chiaramente a perdere buona parte del suo
dignitoso aplomb. “E’ un sovvertitore
delle tradizioni, un immorale, un uomo che pensa solo al denaro e che vuole
distruggere i nobili per far governare mercanti e contadini!”
“Santa pazienza, ma voi vi ascoltate mai
quando parlate, Messer Albizzi? Queste sono assurdità! Comunque possa pensarla
Messer Cosimo, le famiglie nobili non perderanno mai il loro potere e
prestigio” disse Giovanni, molto più pratico e meno idealista. “E voi volete
far esiliare o, peggio, uccidere un uomo per simili sciocchezze?”
Era troppo difficile continuare a fare la
commedia davanti a quel ragazzo che si dimostrava tanto logico e pragmatico. Rinaldo
Albizzi comprese che, almeno con lui, doveva essere sincero fino in fondo. E, a
dirla tutta, la verità gli bruciava dentro così tanto e da così tanto tempo che
non poteva più celarla.
“Voglio che Cosimo soffra come ho sofferto
io!” esclamò, afferrando Giovanni per le spalle. “Voglio vedere la sua famiglia
rovinata e umiliata così come lui ha fatto con la mia. E’ questo che volevi
sentirmi dire? Eppure proprio tu dovresti capirmi meglio di tanti altri!”
Giovanni vide il dolore ancora vivo e presente
negli occhi di Albizzi, sentì l’accento disperato nella sua voce… e per la
prima volta si sentì toccare fino in fondo al cuore.
Quell’uomo soffriva davvero tanto, da venti
anni non trovava pace, e ogni sua malvagità, alla fine, derivava da questo,
comprese le stronzate che spesso faceva, tipo quella di cercare di far
distruggere la cupola… insomma, si capiva che non ci stava tutto con la testa,
ma adesso il giovane Uberti sembrava comprendere veramente e in modo totale
quanto tutta quella rabbia e quella lacerazione interna lo avessero
condizionato. Annuì, provando un’improvvisa quanto violenta empatia nei
confronti di Rinaldo, tale da esserne quasi travolto.
“Avete ragione su questo, Messer Albizzi, io
posso capirvi” ammise, in tono comprensivo. “Sono venuto a Firenze proprio per
avere giustizia per la mia famiglia, perché chi l’ha osteggiata e gettata nel
fango faccia ammenda e riabiliti il nome degli Uberti. Ma quello che cercate
voi non è più giustizia, è diventata vendetta.”
“Giustizia, dici?” obiettò Albizzi con
veemenza. “E’ stato forse giusto quello che i Medici hanno fatto alla mia
famiglia? E’ stato giusto denunciare mio padre per i suoi debiti e fargli
perdere il posto nella Signoria?”
“No, non è stato giusto” replicò Giovanni, “non
è stato giusto per niente, ma non lo sarebbe nemmeno far pagare un uomo
innocente per le colpe di suo padre.”
“Perché, tu non lo faresti, se potessi?”
insisté l’uomo, che per qualche sua misteriosa ragione aveva proprio bisogno di
sentirsi dar ragione da quel ragazzino strafottente… “Non vorresti punire le
famiglie che hanno distrutto la tua?”
Giovanni si rabbuiò, quello era sempre un
tasto dolente per lui.
“Certo che lo vorrei…” ammise. “Vorrei che i
colpevoli marcissero in prigione fino alla fine dei loro giorni. Ma il fatto è
che sono già morti da anni, Messer Albizzi, da molti anni, e non avrebbe senso
per me colpire i loro discendenti adesso. Non mi farebbe sentire meglio e non
mi darebbe pace. Voi credete veramente che vi sentirete appagato se riusciste a
far condannare Messer Cosimo?”
Un lampo saettò negli occhi di Albizzi.
“Certo che sì. Senza di lui la sua famiglia
si dissolverà e le cose, finalmente, cambieranno per noi nobili” dichiarò. “E
tu dovresti pensarla allo stesso modo, come discendente di una nobile casata.
Anzi, dovresti appoggiarmi!”
“Non è questo il modo di aiutarvi veramente,
lo volete capire o no? Io vi capisco, ma sempre più spesso mi chiedo… ecco, mi
chiedo…”
Giovanni sapeva che non avrebbe dovuto dire sempre tutto quello che gli passava per
la testa, ma in genere non riusciva a trattenersi e non lo fece nemmeno quella
volta.
“Mi chiedo quanto abbia sofferto quel ragazzo
aperto e scanzonato di vent’anni fa per diventare una persona fredda e senza
scrupoli” mormorò, con lo sguardo perso nel vuoto. “Fino a che punto sia stato
spezzato dentro…”
Per un lunghissimo istante ci fu un silenzio
assoluto e quasi spaventoso.
Giovanni era consapevole di aver detto
qualcosa di immenso, qualcosa che andava oltre la sua solita impudenza e che
era, a tutti gli effetti, il punto focale della questione.
Rinaldo pensava invece che nessuno mai, in
quegli ultimi vent’anni, aveva compreso così bene il suo dramma interiore,
nessuno mai aveva cercato di condividerlo.
Quel ragazzino era davvero particolare e lui
lo voleva assolutamente dalla sua parte, ad appoggiarlo e sostenerlo. Doveva
essere suo e non legarsi a quegli
usurai dei Medici (tanto per cambiare…)!
Lo prese tra le braccia e lo baciò con foga, per poi
distendersi con lui nel letto continuando a baciarlo e accarezzarlo, sempre più
profondamente, sfiorando quel corpo giovane e delicato, consapevole che non
doveva esagerare, che il ragazzo non doveva spaventarsi; lo prese con infinita
pazienza e premura, attento a non fargli male, fino a giungere con lui ad una
totale fusione di amore e dolcezza. Lì non c’era niente che non andasse, tutto
sembrava possibile, anche ritrovare la pace senza bisogno di condannare Cosimo…
ma era troppo presto, tutto andava troppo veloce e Rinaldo, in realtà, non era
ancora pronto a trovare il coraggio di cambiare.
Giovanni
se ne sarebbe accorto fin troppo presto…
La
mattina successiva Cosimo de’ Medici era chiamato a testimoniare in propria
difesa davanti a tutta la Signoria. L’uomo, però, era stato drogato con del
vino avvelenato dal suo carceriere (ovviamente pagato proprio da Albizzi:
perché, avevate dei dubbi in proposito?) e non poté difendersi, balbettò
qualche parola sconnessa e poi cadde a terra e dovette essere soccorso.
Piero,
che era presente all’assemblea della Signoria con Marco Bello e Giovanni, pur
con molta titubanza e timidezza si offrì di testimoniare in favore del padre:
lui aveva trovato le prove che dimostravano che i Medici non praticavano
affatto l’usura, ma anzi facevano spesso donazioni generose a conventi e
monasteri. Nonostante l’evidente disagio, le parole di Piero furono chiare e
probabilmente sarebbero riuscite pure a convincere qualcuno, se non ci si fosse
messo il solito Albizzi a contestare ogni affermazione del ragazzo, allo scopo
non solo di invalidare la sua testimonianza ma anche di metterlo in ridicolo,
da vero bastardo dentro.
“Messeri,
non vorrete veramente credere alle sciocchezze di questo ragazzino? E’ chiaro
che sta solo cercando di ingannarci, come fanno sempre i Medici” intervenne,
con un sorrisetto maligno. “Ne abbiamo abbastanza dei trucchi e dei sotterfugi
di questa famiglia di imbroglioni e dobbiamo condannare Cosimo una volta per
tutte!”
Nella
Signoria c’era indecisione: in realtà Piero era stato piuttosto convincente e
anche alcuni nobili parevano pronti a cambiare idea… ma l’intervento sprezzante
di Albizzi lo riportò in vantaggio.
Fu
allora che Giovanni si arrabbiò veramente e, con grande soddisfazione del
Gonfaloniere Guadagni che si divertiva sempre quando lo vedeva, fece la sua mossa geniale!
“Proprio
voi accusate i Medici di ingannare e ostentare trucchi, Messer Albizzi?”
esclamò il ragazzo, facendosi avanti. Dentro di sé si sentiva ribollire di
rabbia e non sapeva se fosse più per come Albizzi aveva appena mortificato
Piero… o per come aveva ingannato lui. La sera prima era sembrato un’altra
persona, pareva cercare conforto e comprensione da lui e adesso tornava a
essere il tronfio arrogante di sempre. Sì, forse era questo che irritava di più
Giovanni… “Messeri, nessuno si è chiesto perché mai Messer Cosimo si senta così
male? Pensate forse che abbia preso un’infreddatura? Guardatelo bene… soltanto
a me sembra drogato?”
Un
mormorio di stupore attraversò la Signoria e più di uno dei presenti dovette
ammettere che, in effetti, il ragazzo non aveva tutti i torti: Cosimo de’
Medici presentava sintomi alquanto strani che non potevano essere ricondotti ai
disagi e al gelo della cella.
“Forse
siete stato voi a farlo drogare, Messer Albizzi, per impedirgli di testimoniare
in sua difesa? O magari volevate avvelenarlo,
così vi toglievate il pensiero e al diavolo il voto della Signoria?” riprese
Giovanni, ma questa volta la sua accusa fu fin troppo infamante.
Rinaldo
Albizzi si scagliò su di lui e lo colpì con uno schiaffo che lo sbatté a terra,
bello disteso sopra il giglio, simbolo di Firenze, che ornava il pavimento del
Palazzo dei Priori.
“Ora
stai veramente esagerando, ragazzino insolente. Come ti permetti di insultare
in questo modo un membro della Signoria? Le tue accuse sono oltraggiose e
dovrei farti arrestare su due piedi!” ruggì. “Ti stai prendendo fin troppa
libertà confidando sull’appoggio dei Medici e sulla pazienza del Gonfaloniere,
ma adesso basta, non tollererò altre ingiurie da parte tua. Sei solo un
ragazzino che crede di essere chissà chi perché discende da una casata
decaduta!”
Ecco.
Forse Giovanni era andato troppo oltre con le sue accuse, ma ora Rinaldo aveva passato
il segno offendendo il nome degli Uberti.
Il
ragazzo si rialzò in piedi lentamente, tenendosi la mano sulla guancia colpita
e sfregando il labbro inferiore ferito e insanguinato. Quando parlò di nuovo ad
Albizzi, la sua voce sembrava venire da un’altra dimensione e anche il
nobiluomo fu colpito dall’odio che lesse nei suoi occhi.
Forse,
in quel momento, anche lui si rese conto di aver appena fatto una grandissima
stronzata…
“Magari
la mia casata sarà caduta in disgrazia, ma ricordate bene le mie parole: voi
stesso sarete la rovina della vostra. Tra qualche anno, nessuno ricorderà
nemmeno più che sia esistita una famiglia che si chiamava Albizzi, e sarà un bene per tutti, visto che razza di essere
spregevole siete voi!” sibilò.
“Messer
Uberti, se continuerete su questi toni sarò costretto a farvi arrestare” disse
il Gonfaloniere, non con fare minaccioso, però, piuttosto come un padre che
rimprovera il figlio scapestrato. In fondo a lui quel ragazzino piaceva e, al
contrario, non aveva grande simpatia per Rinaldo Albizzi che pretendeva di
spadroneggiare su tutto e tutti come se fosse stato lui il Gonfaloniere.
“Non
preoccupatevi, Messer Gonfaloniere, non intendo proseguire” rispose Giovanni. “Non
ho altro da dire a Messer Albizzi, né ora né mai più.”
Girò
sui tacchi e uscì di scena con un’aria da principino offeso che avrebbe fatto
ridere, non fosse stato per la drammaticità della situazione.
“Dunque…
si dia inizio alla votazione per decidere il destino di Cosimo de’ Medici”
annunciò allora il Gonfaloniere, che doveva riprendere in mano la situazione.
Ma
Albizzi non era d’accordo. Dopo tutto quello che era successo, c’era il rischio
che la votazione andasse a favore di Cosimo e lui non poteva permetterlo.
“Non
possiamo farli votare ora” disse al figlio, come se fosse la parola d’ordine. E
probabilmente lo era, perché Ormanno scattò e colpì con un pugno uno dei
presenti, che poco prima era sembrato favorevole alla testimonianza di Piero…
si scatenò una rissa generale, un po’ come succede nel Parlamento italiano
oggigiorno, tanto per capirsi, e il Gonfaloniere non poté fare altro che
aggiornare la seduta.
Insomma,
pareva proprio che Rinaldo Albizzi volesse prendere la Signoria per sfinimento: non li avrebbe fatti votare
finché non avessero votato come voleva
lui.
Aveva
un suo personalissimo concetto di democrazia,
a quanto pareva!
Fine capitolo
settimo