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Autore: Miss Rossange Stucky    23/07/2019    4 recensioni
La storia parte dalla fine di Endgame, con una scena "post credits" un po' particolare. Ma se di addio doveva trattarsi allora che fosse un vero addio...o un arrivederci?
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Steve Rogers
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Ecco il secondo capitolo (coraggio: ne è rimasto solo uno!)
Grazie a tutti coloro che hanno letto il primo, se quello vi è piaciuto spero questo non vi deluda.
Buona lettura.
 

Voleva andarsene lontano, il più lontano possibile. Voleva un posto dove nessuno potesse riconoscerlo, un posto in cui la sensazione di estraneità fosse normale, giustificata. Aveva scartato un cospicuo numero di destinazioni, prima di decidere quale fosse la migliore. La maggior parte le aveva eliminate dalla lista perché gli ricordavano troppo Steve.
 

Mentre ancora rifletteva su quale scegliere si rese conto che, a parte le sale di tortura dell’HYDRA, non c’era un luogo che non gli ricordasse Steve. Non sapeva se essere arrabbiato con lui o con se stesso, poi si disse che anche questi non erano altro che i suoi soliti labirinti mentali, in cui si perdeva, lasciandosi accecare dalla rabbia, come una belva braccata.
 

La sua era una fuga a tutti gli effetti, ma non doveva necessariamente comportarsi come un ricercato, dato che in realtà nessuno lo stava cercando.
 

Tentò quindi di rilassarsi e cambiare ottica, rassegnandosi all’idea che il pensiero di Steve e i ricordi che appartenevano a loro due lo avrebbero seguito ovunque.
 
Così, dopo sei mesi passati a girare il mondo per trovare la “tana” perfetta, si ritrovò a Brooklyn in un appartamento in affitto al quinto piano, l’ultimo, di un edificio a mattoni rossi a Prospect Heights. Un posto che non avrebbe mai pensato di scegliere, così “normale” e vicino alla sua vecchia casa, ma che perlomeno gli assicurava una vista spettacolare su Brooklyn e Manhattan.
 

L’appartamento era piccolo e abbastanza spoglio, ma lui non aveva bisogno di granché.
 

Gli serviva un posto in cui vivere, non una casa. Quella l’aveva persa quando aveva perso Steven, in quei dannati cinque secondi che avevano salvato l’universo…e distrutto la sua vita.
 

Non aveva nulla da fare quindi, per evitare di passare tutto il giorno a pensare, inasprendo un dolore mai attenuatosi, e a coltivare una sterile rabbia verso il mondo, la vita e se stesso, usciva all’alba, girava per la città senza meta, per poi tornare all’appartamento solo quando il sole stava ormai per tramontare. Spesso dimenticava di mangiare, ma il suo frigo era pieno di birre.
 

La sera crollava sul letto, a volte con gli stessi vestiti del giorno prima. La testa vuota e allo stesso tempo affollata di pensieri, sprofondava in un sonno fatto di frequenti risvegli, quasi sempre causati da orribili sogni. Quando si alzava, si spogliava, si infilava nella doccia e restava per un tempo infinito sotto il getto tiepido dell’acqua, sperando, inutilmente, che il flusso incessante cancellasse le tracce della nottata e il ricordo degli incubi.
 

Non ci mise molto a riabituarsi a stare da solo, dopotutto aveva i suoi vantaggi, ed era qualcosa che conosceva bene…la solitudine è tutto ciò che ho – si ripeteva – essere solo mi protegge.
 
Sapeva di mentire a se stesso, sapeva che sono gli amici che ti proteggono, ma lui non aveva amici, ne aveva avuto uno solo e lo aveva perso per sempre. Doveva accettare la realtà dei fatti.
 

Le cose stanno così – si disse stendendosi sul letto alla fine dell’ennesima giornata vuota, lanciando lontano la bottiglia vuota, stringendo tra le mani la sua testa vuota e cercò di convincersi a dormire, pur sapendo cosa comportasse.
 

Aveva chiuso gli occhi da poco e stava abbandonandosi ad un combattuto stato di dormiveglia, quando sentì un rumore che il suo cervello registrò immediatamente come un segnale di pericolo.
 

Durante tutta la permanenza a Bucarest, rintanato nel suo rifugio, sentir bussare alla porta era la cosa che più lo allarmava…gli ci volle qualche secondo per realizzare che non era più in quella situazione, che si trovava a Brooklyn e che se qualcuno bussava alla sua porta non avrebbe dovuto per forza trattarsi di una minaccia.
 

Neppure essendo, come in quel momento, quasi mezzanotte.
 

Andò alla porta, guardò dallo spioncino ma non vide nessuno e la sensazione di pericolo si riaffacciò alla sua mente, inviandogli un brivido freddo lungo la schiena. Non era paura. Era il riflesso condizionato del fuggitivo, era il Soldato d’Inverno che reclamava la sua parte.
 

Per non perdere il controllo decise che qualcuno gli aveva fatto uno stupido scherzo, magari un inquilino ubriaco. Si era accorto che non era l’unico in quel palazzo, in quel quartiere, a cercare sollievo nell’alcool al male di vivere.
 
Stava per tornare in camera quando uno ‘swish’ sul pavimento lo spinse a voltarsi e ad abbassare lo sguardo: da sotto la porta sporgeva l’angolo di una busta da lettere.
 

Si abbassò ad osservarla con circospezione, sembrava innocua. La prese, la girò tra le mani e sentì il respiro bloccarsi: sul lato del destinatario c’era scritto ‘Jerk’.
 

Emise un grido soffocato, quasi un lamento, e lasciò cadere la busta a terra. Si passò le mani tra i capelli, cercando di ritrovare la calma e di rallentare i battiti del suo cuore. Chiuse gli occhi per un attimo, poi raccolse di nuovo la busta.
 

‘Jerk’. Quella parola, quella calligrafia…non c’era verso di sbagliarsi: il mittente era Steve. Era contro ogni logica, ma non poteva essere diversamente.
 
Tornò in camera, sentendo la busta bruciargli tra le mani. Si sedette sul letto, accese la lampada del comodino, posò la busta accanto a sé e rimase a fissarla come se si aspettasse qualcosa da lei, come se potesse svelare da sola il proprio contenuto.
 

Quando finalmente si decise ad estrarre il foglio piegato in due che il misterioso involucro custodiva, lo spiegò e lesse avidamente, quasi febbricitante, ogni parola, senza tuttavia riuscire a capirne il significato, come se fosse scritto in una lingua aliena.
 

La sua mente si rifiutava di accettare ciò che la lettera gli stava rivelando.
 

Steve aveva scritto per lui quel lungo messaggio, ma le parole che dovevano servire a spiegare, a chiarire, riuscivano solo a confonderlo di più. Le uniche cose che trovava comprensibili erano le istruzioni su cosa avrebbe dovuto fare il giorno dopo. Direttive, quasi ordini, ma espressi con toni di supplica. Ordini del suo capitano…suppliche del suo Steve.
 

La rilesse più e più volte, cercando di sgombrare la mente per potersi concentrare e, senza accorgersene, si addormentò, con quel foglio ancora stretto tra le mani.
 

Per la prima volta dopo tanto tempo quella notte non ebbe i soliti incubi e poté riposare, anche se fu un sonno popolato da sogni surreali in cui rincorreva ombre.
   
 
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