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Autore: bUdson281    26/07/2019    3 recensioni
Fino ad oggi ho pensato che la colpa fosse di quel tossico incapace di mio padre e che non avrei dovuto parlargli di "LeiLà".
Non è per rispetto della privacy che evito di pronunciare nella mente il suo vero nome, ma perché, per me e per tutti quelli che l'hanno conosciuta, resterà sempre "Leilà". La chiamavamo così in quanto, per noi quattordicenni della palazzina C del comprensorio "L. R. ", quella ragazza era soltanto "Lei".
Nessun'altra era come "Lei", non poteva esistere nell'universo un'altra ragazza capace di insidiare la sua meravigliosa unicità. Di giorno occupava le nostre fantasticherie romantiche e di notte era la protagonista dei nostri turbamenti (data l'età, anche di pomeriggio) ... All'anagrafe sono conosciuto come Marco B., ma il mio vero nome è "Acido". Proprio così! Qui non sono i genitori a scegliere il nome del figlio; al massimo buttano lì un suggerimento sul suo destino scartabellando tra santi e personaggi storici. E di certo non saranno oscuri burocrati a confermare quel destino.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Alcune precisazioni sono d'obbligo: 1) non mi sono ispirato a fatti realmente accaduti, ma ho cercato di giocare con il genere noir metropolitano ispirandomi a fumetti o film di genere e non alla realtà; 2) i nomi di battesimo sono stati affibbiati  ... a "occhio" (nel senso che, quando ho avuto la necessità di dare un nome ai personaggi, l'ho fatto usando il primo nome sentito o letto); 3) le iniziali puntate dei cognomi sono state scelte ... alla cieca (ho puntato un dito sull'alfabeto con una mano sugli occhi); 4) i personaggi, pertanto, come le loro vicende e relazioni, sono di pura invenzione.
Per il resto mi auguro che l'esperimento sia riuscito. Buona lettura!


<< Dovrei alzarmi. Sì, dovrei proprio farlo! >>
Mi aggrappo alla parete del muretto che delimita un lato della piccola scalinata che conduce al portone del palazzo. E' una delle tante che tappezzano l'isolato formando un motivo che mi ha sempre ricordato la tastiera di una pianola, con l'unica differenza che il nero non si staglia tra i tasti bianchi. Il nero è il marciapiede su cui sono poco dignitosamente seduto con le gambe stese e i piedi alle dieci e dieci; i gradini, invece, vengono puliti regolarmente, segno che gli amministratori del super condominio sono più efficienti della nettezza urbana.
A dire il vero non ho mai capito tutto questo accanimento contro quel finto marmo che dà, quasi per virtù della sua stessa natura, sul marrone terreo a qualunque ora del giorno e della notte, anche perché i palazzi nel complesso fanno veramente cacare. Le rampe da otto o dieci scalini forse dovevano servire a darli una tono un po' più chic, più alto borghese, neanche li avessero pensati per la famiglia "Robinson".
Ma qui non siamo a Manhattan. Basta guardare oltre quei gradini, osservare le facciate grigio-topo malamente sbozzate e gli infissi in legno dei portoni ormai marciti per capire che, a voler essere buoni, ci troviamo nella zona povera di Philadelphia. Solo che da noi non esce Rocky Balboa alle cinque del mattino per percorrere solitario la strada che lo conduce al riscatto.
Qui la parola "riscatto" è scivolata via dal vocabolario, almeno nella sua accezione positiva. Perché, se parliamo di richiesta, dazione o ricezione di somme di denaro o altra utilità in cambio della restituzione di cose o persone, beh allora no: il vocabolo, da quel punto di vista, è vivo e vegeto.
<< Cazzo, non riesco ad alzarmi. Mi si sono addormentate le gambe >>.
"Ci riproverò tra poco", penso accendendo una sigaretta stropicciata come il pacchetto "morbido" da cui l'ho estratta, neanche me l'avesse offerta l'amico di Lupin, quello bravo a sparare.
 
<< Prendi "le morbide", fa più 'tenebroso' >> mi disse quel mio ami..., no quella persona che conosco di vista e di cui non ho mai registrato il nome. Non richiesto, aveva temporaneamente riallacciato i legami con l'ambiente circostante, distogliendo il suo sguardo dallo schermo della pocker-machine per piantarlo su di me, mentre le dita contorte della mano premevano a tempo i pulsanti come se avessero memorizzato il ritmo. Ero entrato in quella tabaccheria per via della proprietaria, trentenne con capelli lunghi d'un biondo multicromatico, un viso tondo e volgarmente truccato ma alta quanto bastava perché sopra il bancone facessero capolino le sue splendide e possenti tette.
Quella volta mi sorrise un po' imbarazzata come per dirmi "lo lasci perdere!". Lasciarlo perdere? Quell'inutile fallito mi aveva offerto un pretesto per accorciare le distanze. Decisi, pertanto, di stare al gioco: << Vada per il 'tenebroso' >> dissi indicando "le morbide" dietro i suoi capelli, ma concentrato su di lei mentre la bocca si apriva in un calibrato sorriso di rimando, composto e distaccato.
Ci divertimmo per circa un mese, poi il marito tornò alla carica per riconquistarla ... appena in tempo, perché mi ero già stancato.
 
<< Che schifo! >> butto via mezza sigaretta insieme alla saliva a forza di rumorosi e dolorosi colpi di tosse. Mi è sembrato di aspirare una barra di metallo arrugginito. << Meno male che non sono tornate di moda quelle senza filtro! >>
Del resto, non siamo in un film degli anni Trenta, anche se l'illuminazione scadente e la foschia che sta calando lentamente tra i palazzi come gas nervino nelle trincee mi fa immaginare di sentire la voce di Ingrid Bergman che sussurra mielosa "suonala ancora, Sam!".
<< Vaffanculo Jack, finiscila! >> la voce di un uomo proviene dal palazzo di fronte e, per fortuna delle mie orecchie, ha interrotto un assolo di bongo. Ma come si fa a non saper suonare neanche quel patetico strumento? Vuol dire che sei proprio negato.
Per un attimo ho pensato che ad incazzarsi fosse stato il Cristo dipinto sulla facciata della chiesa sconsacrata che si trova proprio affianco alla casa di Jack. Ne è rimasta soltanto la testa, mentre il resto del corpo, che prima copriva l'intera parete, è crollato con i pezzi del muro o è finito nelle case di qualche devota famiglia a presidio del focolare domestico contro spiriti maligni, attacchi di sfiga e topi d'appartamento.
<< E' inutile che guardi così! >> sbotto verso quella faccia contrita che nel resto del mondo dovrebbe significare "soffro con voi" o un più pretenzioso "soffro per voi", ma << qui caro mio, non siamo nel resto del mondo. Quella faccia da cane bastonato è vista come segno di debolezza. Devi mostrarti più duro o ti ruberanno anche gli occhi! Lo sanno anche i bambini delle elementari che qui, con quella faccia, ti tolgono pranzo e soldi >>.
 
Alcuni anni fa un sedicente prete riaprì le porte cigolanti di accesso all'unica navata, promettendo che avrebbe riportato la chiesa agli antichi splendori e rischiarato << con la Luce della Fede e della Parola la grigia esistenza dei senzadio del circondario >>.
Fece un gran casino, ed in effetti riuscì a svegliare dal torpore la brava gente del posto che, numero appuntato sul petto, partecipò alla gara di solidarietà indetta anche per ridipingere il corpo vilipeso del Cristo. Persino i mafiosi locali scucirono, munifici, la grana perché ... non si sa mai cosa accadrà dopo.
Peccato che la diocesi non ne fosse al corrente, né conoscesse quel nuovo pastore per il gregge. Per farla breve, raggiunta una cifra adeguata, il finto prete se la svignò fottendosi i soldi. Niente di strano, qui in parecchi c'hanno provato.
Lo ritrovarono qualche settimana dopo che galleggiava a pancia in giù sulle acque melmose in prossimità dello sbocco di un canale di scolo dei reflui urbani.
La "Città" sa come espellere gli scarti. In quel caso l'aveva fatto servendosi dei capoccia locali che non potevano tollerare un simile affronto, oltre alla delusione per l'inutile "sforzo" di comprarsi una backdoor per entrare in paradiso.
A noi anonimi comuni mortali (meglio, a loro, perché io non avevo sganciato un soldo) rimase il sapore amaro della vergogna. Pensavamo di essere abbastanza svegli da riuscire a sentire la puzza di fregatura lontano un miglio. E invece ...
L'ho provata anch'io una volta questa fastidiosa sensazione, frequentavo l'ultimo anno di Ragioneria quando mi rubarono lo zaino. Mi ero distratto solo qualche minuto per fare "carte" con una ragazza della classe accanto.
Quando tornai a casa e raccontai tutto a mia madre, esclamò sorpresa: << Come hanno fatto a fregare lo zaino a un figlio di zoccola come te? E io che pregavo perché non fossi tu a derubare i tuoi compagni >>.
Di bello mia madre aveva la capacità di sdrammatizzare tutto. Se fosse stata ancora viva, avrebbe estratto dal cilindro qualche battuta divertente e, chissà, forse il finto prete sarebbe stato addirittura risparmiato. La "Città" ogni tanto sapeva sorprenderci con la sua incoerenza al limite del surreale, ma almeno ha sempre avuto il senso dell'umorismo.
 
Già, la "Città" ... Non è una vera città, ma un quartiere di una grande metropoli. Siamo noi, i suoi abitanti, che lo chiamiamo così. La città, quella vera, è il nostro "fuori Città"; anzi è il nostro "là fuori" e non importa se il "là fuori" comprende l'intero pianeta, perché solo la "Città" per noi è il vero mondo. Almeno lo è sempre stato per me ... fino ad oggi!
Qui c'è tutto, ci sono due cinema (uno per le famiglie e uno per i porno ormai abbandonato perché internet, apparentemente, ti costa meno), c'è un centro di primo soccorso, una guardia medica, c'è la fermata del bus, ci sono prati malmessi e discariche per far giocare i bambini, c'è anche il mare cui si accede da un paio di chilometri di spiagge gestite abusivamente dai boss della zona. Lo specchio d'acqua non è balneabile, ma finora nessuno è morto di colera o per altre infezioni. Ci sono parecchie scuole, anche istituti per l'istruzione secondaria superiore, come quello che frequentavo io. E poi ci sono i bar e ... nient'altro. Le discoteche non esistono, ma in compenso ci sono case abbandonate in cui si possono organizzare delle feste estemporanee (sempre a pagamento s'intende). Non devi neanche fare attenzione ai sigilli, tanto nessuno è mai tornato per rimetterli a posto.
 
Quand'ero piccolo pensavo di essere stato punito. << Chissà cosa avrò fatto di male nella vita precedente per rinascere qui?! >>  mi domandavo ogni tanto angosciato. La "Città" mi sembrava così piccola, così alla periferia del mondo, degradata, sconosciuta, un posto dove si è condannati a vivere anonimi e a morire dimenticati ... da tutti. 
Col tempo, però, la prospettiva è lentamente cambiata. Più crescevo, più conoscevo (seppure indirettamente) il mondo di "là fuori", e più la mia anima si espandeva ricoprendo gli anfratti postmoderni delle "vele" popolari, penetrando nelle case degli operai costruite a cavallo del Ventennio e lungo reticolo delle strade principali, perfetta copia in scala ridotta delle vie newyorkesi così come apparivano, attraverso i cinegiornali dell'epoca, ai primi del Novecento.
Alla fine sono diventato tutt'uno con questo posto e non ho più sentito il bisogno di andarmene. Per quanto mi riguardava questo quartiere era il perfetto specchio del mio microcosmo e la "Città"  stessa era a sua volta un piccolo riflesso del resto del mondo. Perché cercare altrove?
 
<< Ti si è formata la crosta >> mi disse, citando "Il Gattopardo", Samantha, la ragazza che frequentavo quando avevo ancora vent'anni. Di un paio d'anni più grande di me si stava laureando in Lettere e Filosofia, mentre io ero ancora impantanato nel precariato dell'eterno apprendistato di tutti i giovani nella mia condizione: praticamente un garzone di bottega sfruttato e mal pagato (se pagato), che doveva ringraziare il suo "donatore" di lavoro perché gli permetteva di imparare un mestiere che da lì a cinque o sei anni sarebbe diventato obsoleto e dequalificato. Al diavolo, la natura si evolve in modo più accettabile anche se ugualmente irrazionale.
Samantha era dolce ma forte. Sospetto che ci abbia provato davvero a far funzionare le cose tra noi e che usasse tutta la sua prontezza di spirito per seguire la propria strada e non lasciare indietro me, con cui condivideva la passione per la lettura. Quanti week end abbiamo passato a divorare insieme e a commentare libri prima e dopo l'amore.
Data l'età sarebbe stato lecito aspettarsi che mi annoiassi; invece, adoravo passare il tempo con lei, un tempo sacro in cui il sesso del corpo e della mente ci teneva uniti, senza che fosse possibile cogliere la differenza tra uno stato e l'altro di quella continua esperienza di unione.
Scelse proprio Tomasi di Lampedusa per spiegarmi perché mi stava lasciando: non ero più in grado di abbandonare il mio ecosistema, mi ero perfettamente adattato ad esso. Avrei voluto dirle che per lei era facile scegliere, ché era una creatura di "là fuori", non era stata marchiata dal sigillo maledetto che lega quelli come me a questo terribile e accogliente ventre materno, che fagocita i suoi figli. Non potevo, perché ormai mi era chiaro che eravamo alieni l'uno per l'altra e non potevo permettere che il suo amore per me si trasformasse in una squallida prigione di auto-castrante devozione. Gli uccelli sono fatti per volare, io era una creatura della terra.
 
Le mie relazioni, come il mio lavoro, i miei affari, la mia vita insomma, sono sempre stati così: nascevano con lo spettro della fine riflesso negli occhi. In realtà, è sempre così per tutti; non c'è nulla di strano o di spiacevole in questo, poiché tutto ciò che inizia è destinato a finire o a trasformarsi in qualcos'altro (a seconda della prospettiva). Questo lo capisci presto, prima o poi lo accetti, e decidi che forse è più conveniente godersi il viaggio senza menarsela troppo.
O almeno così dovrebbe essere, perché io, per esempio, l'ho capito tardi.
Il problema, chiaramente, è sempre stato in me, perché per me l'inizio di qualcosa era sempre e solo la premonizione della sua fine; ergo, non mi godevo mai interamente il viaggio. Cercavo, anzi, di vivere ogni esperienza con distacco in modo da non soffrire troppo quando alla fine mi sarei ritrovato sicuramente con un pugno di sabbia tra le mani. Fino ad oggi ho pensato che la colpa fosse di quel tossico incapace di mio padre e che non avrei dovuto parlargli di "LeiLà".
 
Non è per rispetto della privacy che evito di pronunciare nella mente il suo vero nome, ma perché, per me e per tutti quelli che l'hanno conosciuta, resterà sempre "LeiLà".

La chiamavamo così in quanto, per noi quattordicenni della palazzina C del comprensorio "L. R. ", quella ragazza era soltanto "Lei".
Nessun'altra era come "Lei", non poteva esistere nell'universo un'altra ragazza capace di insidiare la sua meravigliosa unicità. Di giorno occupava le nostre fantasticherie romantiche e di notte era la protagonista dei nostri turbamenti (data l'età, anche di pomeriggio).
Alta e dalla figura esile, camminava leggera e delicata come se non possedesse peso; era bella, di una bellezza acerba che, però, prometteva di maturare in conformità alle nostre aspettative. Ci sembrava sofisticata con quel suo ritegno educato, i libri di scuola appoggiati al petto e protetti dalle sue braccia sottili.
Più di mia madre, furono i suoi modi casti e delicati a costruire nella mente l'immagine della donna che avrei voluto avere accanto. Il fatto che portasse ancora quelle trecce lunghe di un corvino scintillante, vestigia della vezzosità di chi non ha abbandonato del tutto l'infanzia, la rendeva ancora più affascinante, perché "Lei" non aveva bisogno di mostrarsi più grande per piacere ... a "Lei" non interessava piacere.
Così come la sua unicità non aveva bisogno di stupide convenzioni, come le generalità anagrafiche, per accecarci con il suo splendore, anche la sua casa non aveva bisogno del nome di qualche benemerito, santo o eroe, né di un numero arabo o romano per essere identificata. Perché "Lei" abitava "Là"!
Proprio come quella fanciulla, graziosa e speciale, il palazzo in cui viveva era unico nel suo genere, ma, a differenza del nostro oggetto del desiderio, la sua singolarità era dovuta ad una sfortunata serie di circostanze. Alto otto piani, costruito intorno alla metà degli anni Novanta doveva essere il primo di un complesso residenziale molto vasto che, una volta completato, avrebbe ridisegnato la toponomastica del luogo. Il progetto prevedeva una ventina di immobili, almeno tre ampi spazi dedicati al verde e un campo da calcio.
Quando terminarono di costruire il primo stabile le autorità organizzarono una sobria cerimonia pubblica a cui partecipò addirittura il vice presidente della commissione edilizia del Consiglio Comunale.
La famiglia di "LeiLà" fu una delle prime ad occupare quegli appartamenti di nuova concezione, funzionali e grigi all'interno il giusto per compensare l'estrosità arlecchinesca dell'esterno con il suo mix improbabile di colori, che però dava l'impressione di una boccata d'aria, se paragonato al giallo urina delle ormai prossime centenarie case a quattro piani che sorgevano a pochi metri di distanza.
Quel palazzo sgargiante rimase un unicum nella storia della "Città", un po' come una specie di piccola Torre Eiffel. I lavori, infatti, vennero interrotti all'improvviso per ... "mancanza di fondi" come fu sussurrato dopo alcune settimane. Il consiglio di amministrazione della cooperativa, come il finto prete qualche anno più tardi, era fuggito con l'intero contenuto della cassaforte - si disse- in qualche Paese dove non c'era estradizione.
A differenza del finto prete, però, nessuno di quegli avidi bastardi ha avuto quel che meritava poiché furono così avveduti da volatilizzarsi rapidamente insieme ai soldi della brava gente, onesti lavoratori che avevano investito i risparmi di una vita per entrare in una casa che non sarebbe mai stata realizzata. La "Giustizia" fu subito interessata, ma non è mai  riuscita ad approdare sulle spiagge dove ancora adesso, secondo i rumori della strada, quei ladri con la cravatta prendono il sole.
 
<< Non farti venire strane idee. LeiLà è mia >> mi disse un giorno il mio amico Bonzo dopo che, alla vista di quella meravigliosa ragazza che tornava a casa stringendo i libri di scuola, il mio cuore si impossessò della lingua facendole esclamare ad alta voce: << LeiLà, sei stupenda! >>
Lo chiamavamo Bonzo non perché fosse una persona quieta (anzi) e neanche per riferirci a qualche sua simpatia per le religioni orientali, visto che la sua tensione spirituale non andava oltre il cortile della parrocchia dove giocavamo a calcetto e organizzavamo tornei di lotta libera e pugilato fatti in casa. Lo chiamavamo così, perché, poverino, non gli crescevano i capelli e adorava indossare della pacchiane camicie color arancione.
<< Sai Bonzo, credo che da ora in poi io e te avremo dei problemi, perché la voglio io >> replicai sillabando lentamente la parola "problemi" affinché capisse che non avrei ceduto senza combattere. Ma non avremmo mai combattuto per lei; ci saremmo colorati come pavoni, avremmo gonfiato il collo come rospi in amore per cantarle le nostre serenate, ma combattere sarebbe stato inutile. Non puoi sperare di raggiungere il cuore di una dea eliminando fisicamente i tuoi avversari, puoi solo sognare che, graziosamente, un giorno si degni di sceglierti.
 
Che volete, ero poco più che un bambino!
 
Qualche volta, però, succede che i sogni si avverino.

Ero ad un veglione organizzato dalla parrocchia locale o dalla scuola (non mi ricordo) per festeggiare il martedì grasso; ci andai con gli inseparabili amici della palazzina, tutti rigorosamente "in borghese" per rivendicare la nostra condizione di adulti che non hanno né tempo né voglia (né soldi) per mascherarsi. Fu "LeiLà" a prendere l'iniziativa; indossava una lunga tunica di seta bianca fermata in vita da una corda nera che assomigliava ad un cilicio e aveva acconciato le trecce in modo da formare due cerchi.
Chiaramente aveva frainteso, pensava che il suo soprannome fosse "Leila" come la principessa di Guerre Stellari e si era agghindata in quel modo per assomigliare al personaggio. Lo capii quando mi invitò a ballare un lento dicendomi con voce melodiosa e dizione inappuntabile: << nobile Ian Solo, vuoi ballare con la tua principessa? >>
Ovviamente, non le svelai la verità sul suo nome, era un dettaglio insignificante, perché quella dea aveva scelto me come sacerdote per iniziarmi ai suoi graziosi e soprannaturali misteri nel cuore del tempio. La baciai quasi con riverenza, preoccupandomi di contenere lo slancio per paura di mandare i denti a schiantarsi contro i suoi. Ricambiò con virginale delicatezza, gli occhi le brillavano e le guance rilucevano di un rosso sgargiante e le labbra umide faticavano a ricomporsi come il suo respiro.
 
E' ancora adesso un file in memoria che riapro volentieri, soprattutto perché ora ne ho compreso l'esatto valore. Quel bacio è stato davvero il momento più bello della ma vita.
E, proprio a causa di quanto accaduto dopo, sento ancora il bisogno di alzare mura di granito a difesa di quel sogno incarnato, perché tutti abbiamo bisogno di ritagliarci un'oasi di favola nel deserto della vita ...almeno fino a quando dalla sabbia sgorga l'acqua; altrimenti è meglio muoversi.
 
<< Sei un figlio di puttana fortunato, Acido! >> mi disse Bonzo col viso imbronciato e gli occhi pronti a menare lacrime mentre mi assestava fraterne pacche sulla spalla per dimostrare che riconosceva la mia vittoria.
 
All'anagrafe sono conosciuto come Marco B., ma il mio vero nome è "Acido". Proprio così! Qui non sono i genitori a scegliere il nome del figlio; al massimo buttano lì un suggerimento sul suo destino scartabellando tra santi e personaggi storici. E di certo non saranno oscuri burocrati a confermare quel destino.
Le generalità servono per le relazioni con quelli di "là fuori", gli stranieri, gli alieni, ma il tuo vero nome lo sceglie la tribù. Se nasci da queste parti difficilmente sei soggetto alle leggi della magia familiare, del karma degli antenati; sei soggetto invece ad un'altra forma di magia. L'imposizione del nome è l'atto conclusivo di un rito di passaggio al termine del quale vieni accettato come membro del gruppo e legato ad esso per tutta la vita ... se ti pare.
E la tribù è legata indissolubilmente alla "Città", che ne garantisce la protezione, la prosperità e ne raccoglie l'anima. Non ci sono persone addette a questo compito, parte tutto dal basso. Man mano che cresci, ti relazioni, conosci e ti fai conoscere, tutti sono in grado di scorgere i segni che possono condurre alla scoperta della tua vera essenza e della direzione che prenderà la tua vita: una particolarità fisica, un modo di comportarti, una preferenza.
Non so se il mio "nome" abbia influenzato il mio modo di vivere o semplicemente l'abbia svelato sin dal principio, ma è un fatto che corrodo tutto ciò che vivo.
Non mi lamento anche perché, considerato che ad un mio amico dopo una doccia post allenamento è toccato in sorte "Uccellino" (naturalmente è una traduzione), devo ammettere che a me è andata proprio di culo.
 
Mi hanno chiamato "Acido" perché mio padre, Giovanni B., era uno spacciatore.  Ufficialmente un disoccupato cronico, faceva schifo come padre, come cittadino e anche come delinquente perché aveva la brutta abitudine di "testare" la merce che offriva. Poco prima che nascessi fu pestato a sangue dai suoi fornitori per via di certi conti che non tornavano tra le "bolle d'accompagnamento" della cocaina che doveva smerciare e le somme che riversava nelle casse della società. Lo risparmiarono perché se la cavava bene con i ragazzi; perciò decisero di mandarlo a vendere pasticche ai dandies della movida notturna e ai molti spostati occasionali. Il fatto che provasse anche quella "roba" evidentemente non influiva troppo sull'utilità della sua prestazione.
Mia madre, Francesca F., invece era una donna d'altri tempi, dai saldi principi e innamorata dell'idea stessa della famiglia. Purtroppo per lei, quando conobbe mio padre, Cupido doveva essere in vena di scherzi feroci. La sua ingenuità e l'incapacità di mio padre di concepire l'uso del preservativo propiziarono la mia nascita. Così, per amor mio e di famiglia, quella donna gentile tollerò per anni l'inutilità del compagno e lavorò fino allo sfinimento per garantirmi cibo, vestiti, istruzione e un tetto. Di più non poteva.
Perché non lo hanno ammazzato quella volta?
 
Avevo sempre cercato di evitarlo per timore che la sua natura da perdente assoluto potesse infettarmi come un virus mortale; ma la sera del bacio a casa c'era solo lui ed io ero così felice che per un attimo la sua stessa esistenza mi sembrò quasi accettabile. Perciò, mi confidai con quell'ominide, gli parlai della gioia che mi possedeva, della sensazione di incrollabile fiducia nel futuro che mi faceva ruggire nell'animo come un leone pronto a rivendicare la corona di re della foresta.
Lui sorrideva con gli occhi ancora persi, ma intendeva le mie parole; era in fase di rientro da uno dei suoi viaggi nel paese di "Fungolandia". In quei momenti elargiva perle di assurda saggezza suggerite probabilmente da qualche gnomo o elfo che solo lui riusciva a percepire.
<< Figlio mio >> esordì al termine del racconto con un sorriso amaro che lì per lì scambiai per un rigurgito di "botta", << non capita a tutti di vivere questa gioia. Perciò ti dico che sei stato fortunato. Quando stai così bene vuol dire che hai raggiunto il massimo nella tua vita. Peccato >> continuò espandendo quella punta di amarezza fino a trasformarla in una maschera di dolore  << che tu l'abbia raggiunto così presto, perché l'universo vuole che agli uomini capiti una sola volta questa fortuna. Dopo, è tutto declino fino alla morte >>.
Mi sono sempre detto che in fondo erano le parole senza senso di un drogato di merda, una scimmia il cui massimo nella vita l'aveva raggiunto imparando ad allacciarsi le scarpe e che era sempre troppo fatto per apprezzare la fortuna di aver incontrato una donna meravigliosa come colei che mi ha generato.
Lo pensai anche quella sera mentre chiudevo la porta della mia camera da letto dopo averlo mandato a fanculo. Eppure sentivo che era riuscito a iniettarmi il suo veleno e che da allora le tossine, lentamente, in modo strisciante ma sistematico avrebbero distrutto pezzo per pezzo le cellule della mia anima.
 
Le cose semplicemente accadono. E' un messaggio troppo duro perché possa essere tollerato; per questo cerchiamo di individuare nella casualità degli eventi una legge che ci faccia almeno credere che esista una ragione, perché, se una legge naturale esiste e regola ogni cosa, allora, ... forse ... potremmo entrarne in possesso, conoscere il meccanismo dei processi universali e imparare le formule magiche necessarie per governare il caos del mondo e assurgere così al rango di piccolo dio della nostra sfera, l'unica parte di mondo che ci interessa.
Lo abbiamo sempre fatto, solo che non possiamo scomodare  termini come magia empatica o superstizione ... quella è roba da primitivi. Noi moderni, che usiamo macchine e telefonini mentre ancora sopportiamo la sindrome della "coda fantasma" per comunicare sottomissione, aggressività o dominio; noi abbiamo bisogno di termini più "civili". Quindi, scomodiamo la "sincronicità", "l'ironia degli dei", "il piano segreto del Creatore" o  anche "il Karma", interessante parto di una cultura aliena rivisitato come boiata mistica perché "Dei delitti e delle pene" è troppo terreno.
 
Io semplicemente dissi "che sfiga!"; ma il mio cuore tramutò, invece, in certezza il timore di essere stato avvelenato dalle parole di mio padre, quando "LeiLà" con le lacrime agli occhi mi comunicò che sarebbe partita presto per andare a vivere "là fuori". Non erano passate neanche due settimane da quel bacio; anzi il mercoledì di quaresima, solo il giorno dopo, al padre, funzionario delle Ferrovie, venne comunicata la promozione con contestuale ordine di trasferimento.
<< Tutto finisce! >> pronunciai a bassa voce il giorno della sua partenza, ricambiando con un improponibile sorriso e un rapido cenno della mano il timido saluto che mi lanciò di nascosto da dietro i vetri del portello posteriore della macchina.
Non l'ho più vista, non l'ho mai più cercata.
 
Il pieno riempie il vuoto e, se non lo trova, lo crea.
 
Così i terreni spianati per i quali era stata concessa l'autorizzazione a costruire furono ben presto "occupati" da grandi villette ad un piano, spuntate un po' alla rinfusa; erano recintate da mura in cemento a loro volta sormontate da cocci di vetro o, per i "proprietari" di maggior caratura, da filo spinato.
Per la mia generazione quel capriccio "borghese", che aveva attaccato le più blasonate famiglie di spacciatori ed estorsori della "Città", fu una fregatura, perché nel giro di un paio d'anni perdemmo un posto dove imboscarci con la tipa di turno, giocare e fumare, soprattutto la notte, una canna in santa pace. Era una pacchia quel luogo, dovevi solo fare attenzione a non pungerti con le siringhe lasciate dal branco degli eroinomani con cui dividevamo il territorio.
Per me non fu, comunque, una grande perdita: non amavo il gioco di squadra, avevo il terrore di quegli immobili scorpioni da ospedale, le ragazze me le portavo a casa visto che mia madre lavorava soprattutto di sera e mio padre ... pure.
Quanto al fumo, avevo preso una posizione: non avrei mai toccato uno spinello.
La mia scelta non era dettata da ragioni di carattere morale, aveva radici più profonde, più globali, più coerenti con la mia età. Stavo attraversando in pieno quella fase dell'adolescenza che porta inevitabilmente ogni figlio ad opporsi all'ordine costituito, a ribellarsi contro la figura paterna in tutte le sue declinazioni. Solo che il mio padre biologico era un coglione e in giro il modello del Padre era incarnato dai feudatari locali che imponevano, sia pur con parsimonia, la legge del più forte.  Giocoforza, il mio istinto rivoluzionario mi portò per un breve periodo a sognare che un giorno sarei diventato un poliziotto.
Era facile sognare, anche perché in giro non se ne vedevano molti e quelli che incrociavo non erano certo degli esempi che un ragazzo volesse imitare. Raramente uscivano dalla loro volante, di mattina effettuavano giri di perlustrazione e controllo solo per le vie principali, quelle più tranquille. Di notte, costretti a spingersi anche in mezzo alle viuzze e allo sterrato della "periferia" di questa periferia, sfrecciavano a tutto gas non appena le condizioni dell'asfalto lo permettevano.  Non gliene ho mai fatto una colpa, anche perché, sicuramente pagati di merda, viaggiavano su macchine dell'anteguerra, segno che a nessuno "là fuori" importasse poi molto di quello che ci accadeva.
Inoltre, quegli agenti sapevano bene, come noi, che altre leggi governavano questo luogo; non altre persone, perché anche i ras locali erano costretti a seguire il corso della natura e a bruciare le tappe della loro rapida parabola di nascita, vita e morte.
 
Fino a poco tempo fa da noi funzionava tutto ... a suo modo. L'ecosistema della "Città" provvedeva in conformità con decenni di evoluzione e di adattamenti.
Un esempio può essere quello del "Santo".
Conosco il suo nome ufficiale anche se adesso ce l'ho proprio sulla punta delle lingua e non ne vuole sapere di saltar fuori.

Lo chiamavano il "Santo" perché era stato condannato solo per alcuni episodi di percosse e lesioni, ed era per giunta roba vecchia. Mai una rapina, uno scippo, mai un'indagine per associazione a delinquere, non era neanche un consumatore abituale di stupefacenti. Insomma era una persona tranquilla che viveva del ricavato della sua attività di piccolo salumiere della zona.
Fu accoltellato una mattina per strada, mentre inseguiva una coppia di sbandati che lo aveva appena rapinato.
Quando arrivai sul posto era morto da pochi minuti e il suo corpo riverso sul marciapiede aveva ancora i vestiti addosso. Man mano che le persone mi passavano accanto, occultando per pochi istanti il cadavere alla mia vista, perdeva sempre qualche "pezzo". Per farla breve, all'arrivo della polizia, al povero "Santo" erano rimaste solo le mutande sporche e una canottiera bianca; anche il locale era stato ripulito, silenziosamente e con ordine ... tutto  alla luce del giorno.
Come accade in natura, gli spazzini avevano provveduto a spolpare la carcassa di modo che niente andasse buttato. Il fatto che la carcassa fosse di un uomo e che i pesci-spazzino fossero uomini a loro volta, non toglie nulla all'assoluta spontaneità ed efficienza con cui tutto ciò che doveva essere fatto era stato effettivamente fatto. Le spoglie mortali del "Santo" e tutti i beni da lui posseduti tornarono, dispersi, nel loro habitat originario.
 
La nostra coscienza è solo un punto di contrazione!
 
I due rapinatori furono rinvenuti morti tre giorni dopo all'interno di un capannone abbandonato da anni; a quanto pare morirono di overdose. Nessuno si appellò alla giustizia divina, né alla giustizia dei malavitosi locali perché alla prima, in fondo, nessuno di noi credeva davvero; quanto alla seconda, beh, si trattava di semplice ragionamento: per quale motivo avrebbero dovuto vendicare la morte di una persona che conoscevano solo di vista e che non faceva affari con loro?
Invece, si diffuse sottotraccia l'idea che fosse stata la "Città" a dare a quegli idioti la giusta punizione, obbedendo ad una sorta di politica del bilanciamento.
 
Hai bisogno di un potere superiore, soprattutto, quando non credi possa esisterne uno!
Sì, la "Città" trovava sempre un equilibrio che garantisse comunque la sua perpetuazione per via di sempre di nuovi adattamenti. Il numero delle sue creature e i regolati rapporti con l'esterno contrastavano l'entropia consentendoci di restare al passo con i tempi, ma secondo una velocità di cambiamento lenta quanto bastava per facilitare i processi metabolici di digestione del "nuovo".
 
Da un po' di tempo, però, questo equilibrato movimento ha subito uno choc: una specie infestante, contro la quale non avevamo anticorpi da opporre, si è intrufolata nella nostra oasi di cemento strappando a forza la sicurezza e il conforto che ci davano il sapere sempre come comportarsi e cosa aspettarsi.
Si tratta di un virus che colpisce i più giovani e distrugge le parti del cervello che presiedono ai processi fondamentali per un'ordinata vita comunitaria, come la capacità di provare empatia e il principio di immedesimazione. E' arrivato da "là fuori" probabilmente trasportato dal vento dei nuovi media ed ha attecchito con inquietante facilità.
La notte di ogni vigilia delle feste comandate, in gruppi di tre, questi pisciasotto con il moccio al naso se ne vanno in giro ad accoltellare le persone, scegliendole a caso. Il primo provvede a compiere l'atto, il secondo guida la macchina, se maggiorenne (ma anche no), o la moto per facilitare la fuga, il terzo filma col telefonino perché, solo se il gesto è debitamente postato, viene riconosciuto il punteggio e aggiornata la classifica.
Il successo di questo macabro gioco è stato così rapido che orde di ragazzetti senza senno sono riuscite addirittura a spaventare i boss del luogo, anche loro incapaci di comprendere un fenomeno che, distruggendo ogni regola sociale e ogni forma di fiducia nell'ordine delle cose, li ha trasformati in potenziali "vittime occasionali".
A quanto pare neppure "là fuori" hanno capito come risolverlo.
 
Va detto che noi ci abbiamo provato, la "Città" ci ha provato, stanando e appendendo ai lampioni, a mo' di monito per tutti, quelli che non erano riusciti a fuggire in tempo. Ma non è servito perché i linciaggi estemporanei hanno solo reso più eccitante il brivido di un raid che, altrimenti, avrebbe perso presto il suo fascino.
Il virus, al primo contrattacco di antibiotici, è mutato.
 
Le persone, qui, si stanno abituando a rispettare un tacito ordine di coprifuoco; io no. Non per rivendicare la mia libertà o dimostrare il mio coraggio, ma perché queste vie sporche, questi cassonetti stracolmi riconoscibili semplicemente dalla puzza, questi palazzi squallidi e malamente illuminati sono la mia casa. E io non ho mai avuto paura di girare per casa da solo; io so riconoscere, o almeno così credevo fino a questa sera, i segnali.
Il mio istinto è addestrato ad avvertire il pericolo anche solo attraverso la percezione della contrazione involontaria di un muscolo o del flebile suono di un fischio di avvertimento.
Ho sottovalutato il problema ... Capita! Mi sono anche dimenticato che oggi è la vigilia "dei morti". A mia discolpa posso solo addurre che ... ero distratto da altro.
 
Ho lasciato la macchina parcheggiata "là fuori" perché avevo voglia di camminare dopo il discorsetto che mi aveva fatto Giovanna.
 
Giovanna Z. è una famosa psicoterapeuta, ultima discendente di una famiglia che, a quanto ho capito, maneggia con i cervelli delle persone da prima che Freud pubblicasse "L'Interpretazione dei sogni". Non è il mio analista, ci davamo "conforto" a vicenda ed evidentemente, me la sono sempre cavata bene perché, in cambio, ho sempre ricevuto al posto delle coccole qualche suggerimento (non richiesto) gratis.
Vive da sola in un attico che riposa su uno dei grattacieli che deturpano lo skyline della metropoli a cui la "Città" appartiene, è ricca, ben introdotta e perennemente annoiata.
La nostra relazione durava già da un po' con reciproca seppur parziale soddisfazione. Pensavo di esserle doppiamente utile, prima di tutto perché poteva sfoggiarmi durante le feste di gala o i convegni organizzati dai membri della sua tribù come una tigre ammaestrata, munita di guinzaglio abbastanza lungo da impressionare gli spettatori e abbastanza corto da non spaventarli. Mi ha sempre detto che la mia animalità, il mio essere originario della "Città" trasudava dagli occhi, dal viso, dall'atteggiamento, che era percepibile solo a livello inconscio ma, proprio per questo, aveva un sicuro impatto sugli altri. Per quanto mi riguarda, ho sempre pensato che fossero solo un mucchio di stronzate.
La verità è che mi ero convinto di essere per lei (e non solo per lei) un uomo cresciuto in periferia, emerso dalla melma del disagio sociale e familiare, ma dotato di qualità che mi rendevano apprezzabile per i palati più raffinati, perché come animale di borgata possedevo l'innegabile abilità di saper parlare correttamente la "lingua dei bianchi" e comprenderne usi e costumi.
Il secondo vantaggio lo gustava sotto le lenzuola o sul divano. Donna presuntuosa dal carattere volitivo e prepotente, scioglieva il guinzaglio e mi liberava dalla museruola, mentre in posa da sottomessa mi chiedeva di scatenare l'essere primordiale che albergava in me. Come ho detto, pensavo che fosse semplicemente annoiata e che la sua ombra rivendicasse un po' di libertà dalla dottoressa educata e di successo, mai fuori posto, che impersonava lontano dall'intimità.
Avrei dovuto sentirmi offeso, mandarla al diavolo dopo i primi due o tre incontri, ma il sesso con lei era piacevole e anche lei era piacevole. Giovanna, nel tentativo di gratificare la sua, dava sfogo alla mia ombra fatta di rabbia e disperazione. Ci fu chiaro sin dalla prima notte passata insieme ma abbiamo sempre preferito tenerci nascosta l'oltraggiosa verità, sotterrandola sotto metri di silenzi e gemiti affinché non rovinasse il gioco ...
 
Non questa sera, però.
Deve essere stato a causa dei miei pensieri. Non so perché ma avevo ricordato l'eccitazione dei sensi del tatto e del gusto che mi provocarono le labbra di "LeiLà" e pregato perché potessero accarezzarmi di nuovo.
 
Passo lentamente due dita sulla bocca cercando di rivivere quel bellissimo momento, l'apice della mia vita, prima di vedere il volto della principessa dissolversi per far posto a quello di Giovanna, prima di sentire il sapore delle sue labbra, prima di ricordarmi che le mie dita sono sporche e puzzano di sangue e brandelli di tabacco annerito.  
"Peccato", penso, "non potrò più rivederla! Gliel'avevo promesso. E ora che figura ci faccio?"
Sento ancora le sue parole, quelle del mio violento risveglio ... che non avrà futuro.
 
<< Non riuscirai mai a darci una possibilità, vero? >> mi ha sussurrato neanche due ore fa accarezzandomi dolcemente la guancia con occhi languidi e un sorriso materno.
L'avevo baciata forse con eccessivo trasporto, perché non riuscivo ad incasellare la sua reazione nel mosaico che mi ero costruito di lei. Solo stasera mi sono chiesto per la prima volta se fosse innamorata di me? Stupida << lo sai che distruggo tutto! >>
<< Sì, è vero >> ha risposto. << Distruggi tutto così puoi incolpare tuo padre e la maledizione che ti ha scagliato. Ma non è stata colpa tua ... perché tutto finisce. Se non ci fosse la morte non ci sarebbe la vita; se non ci fosse il dolore non esisterebbe la gioia; e la sconfitta esiste proprio perché esiste la vittoria. Perché ti rifiuti di vivere? Tanto la vita andrà avanti comunque. Prova almeno a gustare sia il bello che il brutto >>.
<< Perché io sono un precario della vita ... nella "Città" lo siamo tutti >> finalmente potevo spiegare a qualcuno la mia teoria sulla natura dell'universo. << Posso solo sopravvivere perché così mi hanno insegnato. A differenza di me, tu puoi fare carriera perché la tua vita è a tempo indeterminato. E puoi farlo perché non hai mai dovuto imparare a sopravvivere >>.
<< Ma fuggire dal dolore non è sopravvivere! >> ha provato ad obiettare.
<< E' esattamente il contrario: fuggire dal dolore, è come fuggire dal pericolo >> Come faceva a non capire? << Ti permette di arraffare quello che puoi senza correre il rischio di essere sbranato. E' un ottimo stratagemma per sopravvivere, anche se è pessimo per vivere. Siamo creature diverse, Giovanna. In questo, e solo in questo, c'è veramente l'animale che porti a spasso >>.
<< Tu non sei il mio animale! >> scoppiando in lacrime. << Lo pensi solo tu! E se ti dà fastidio non andremo più a quei noiosi ricevimenti. Volevo solo che vedessi >>.
<< Cosa? >>
<< Che cambiano solo le forme, ma la sostanza è la stessa. La tua "Città" non ha niente di speciale, è come il resto del mondo. Ci siamo adattati, ma non ci piace, perché io e te amiamo vivere. Per questo abbiamo paura, siamo entrambi due ... animali a rischio di estinzione >>.
<< E quindi dottoressa, come pensa di risolvere il problema? >>
<< Andiamocene! ... Insieme! >> ha implorato saltandomi addosso e stringendo e graffiando la pelle che era riuscita ad afferrare.
<< Per andare dove? >> inopportunamente tentato di abbandonarmi al suo conforto, ho posto una domanda che avevo sempre considerato senza risposta.
<< Non importa purché sia il più lontano possibile, il più lontano dai nostri mondi! >>
<< Ma hai appena detto che il mondo è tutto uguale >> ho cercato amaramente di replicare, convinto di aver trovato la falla nel suo ragionamento
<< Sì, ma quello che conta è evadere dalle nostre gabbie e stare insieme anche su un altro pianeta, anche qui ... se vuoi >>.
A quelle parole ho sentito sciogliersi qualcosa dentro di me ed affiorare un pensiero invitante e gustoso, come una macedonia di frutta: forse non se ne sarebbe andata come "Leilà" perché nessuno poteva obbligarla a farlo, né avrebbe abbandonato la sfida di portarmi via solo perché la crosta si era formata.
<< Fino a quando non ti stancherai di me ... allora ... >> le ho detto sforzandomi di scendere dalla vetta di consapevolezza che avevo sfiorato.
 
Non è l'atterraggio che mi spaventa, ma la caduta!
 
Era davvero deliziosa mentre si mordeva il labbro e agitava le iridi alle ricerca di una risposta, forse di un appiglio. << E' più probabile che sia tu a stancarti di me.  Ma non importa perché saremo almeno riusciti a fare un po' di strada insieme e, se la fortuna è dalla nostra, forse arriveremo abbastanza lontano da non poter più tornare indietro >>.
<< Che vantaggio avremmo? >>
<< Saremo costretti a lasciare che la vita ci scorra dentro e attraverso e, finalmente, potremo vivere >>.
<< Perché non lo hai fatto prima? >>
<< Non avevo ancora incontrato nessuno come me che mi facesse compagnia. E lo sai che odio viaggiare da sola. Allora  ...? >> titubante ha lisciato i miei capelli con le sue dita affusolate.
<< ... Allora, devo andare! >> confuso, per non dire spaventato, da quella donna che di colpo mi era diventata estranea, le ho gettato contro tutta la mia paura allontanandola con decisione. Credevo di averla inquadrata e invece ...
<< Vuoi lasciarmi? >> martoriandosi le mani strette all'altezza della pancia per controllare la pressione.
<< No! >> ho risposto d'istinto. In realtà, volevo dirle: "sì, voglio lasciarti!"; ma qualcosa, forse il retrogusto di quell'idea nuova mi ha implorato di prendere tempo. << Vorrei rifletterci un po' da solo. Mi hai fatto pensare che ... ora vado >>.
<< Tu ... >> ha lanciato solo quella sillaba, come un amo da pesca, in direzione della mia schiena in prossimità della soglia.
<< Ti prometto >> mi sono voltato affinché potesse trovare nei miei occhi conferma della sincerità della parole << che tornerò. Devo solo pensarci ... Non sono abituato ad avere una speranza >>.
 
Stavo proprio pensando alla parola "speranza" quando, a piedi, ho varcato il confine invisibile che separa la "Città" dal "là fuori"; la ripetevo a bassa voce cercando di comprendere che suono avesse. Non mi è mai piaciuta la speranza perché evira gli uomini; è il rifugio di chi non può o non sa o non vuole fare più niente; è una dichiarazione di resa che ti spinge a confidare nell'aiuto di qualcuno o qualcosa. Ma solo nelle fiabe arriva il cavaliere senza macchia a salvarti, solo a teatro ho visto scendere dall'alto il "deus ex machina" per sbrogliare le matasse in cui si era incastrato l'autore. Nella realtà nessuno viene a salvarti, a meno che non abbia motivi, competenze e occasioni. Tanto vale confidare nella sorte.
Però Giovanna mi aveva proposto un'altra chiave di lettura della mia vita. Forse avrei fatto meglio ad esprimermi diversamente: non speranza ma coraggio.
Io non sono abituato ad avere il coraggio ... di rischiare la sorte. Ce l'avevo a quell'età quando tutto mi sembrava possibile, anche far ruotare il mondo con un dito.
Non l'ho perso quando quello strafatto mi ha confidato la sua ignobile visione, ma quando l'ho baciata perché in quel momento con la mia gioia è nata la mia paura di soffrire.
"L'hai persa, cazzo, e allora?! Acido, quand'è che farai pulizia, quando caccerai il fantasma ... di LeiLà?", mi stavo dicendo attraversando la via dei palazzi di fronte ai resti della chiesa. "E' rimasta dentro di noi, è cresciuta come una pianta maligna perché non l'hai voluta capire".
Non ho mai saputo accettare che "LeiLà" e le sue labbra fossero uno tra i tanti frutti dolci e succosi che la vita riserva e che i frutti spariscono proprio quando li mangi. Non è stato mio padre ad avvelenarmi, sono stato io; per questo la mia principessa mi ha perseguitato.
 
Bella storia comprenderlo solo ora! E' una questione di punti di vista: meglio tardi che mai o troppo tardi?
Sta di fatto che la prima e unica volta in cui ho concesso alla vita di attraversarmi davvero, ho spento i miei sensi animali e non mi sono accorto del predatore che mi aveva puntato. Se non mi fossi distratto avrei sicuramente notato l'anomalia: i due sbarbatelli nella macchina che risaliva lentamente la strada nella mia direzione, il rumore del motore in affanno perché inchiodato in prima, il telefonino del moccioso seduto sul lato passeggeri appoggiato allo specchietto retrovisore. Ma soprattutto, avrei visto il ragazzo che camminava in parallelo al veicolo con le cuffie nelle orecchie e il cavallo dei pantaloni all'altezza delle caviglie.
Quando ci siamo scontrati il mio cervello ha partorito l'immagine di una lama rovente che taglia un panetto di burro.
<< Tre! >> ha gridato quel mozzicone di uomo mostrando al ragazzo col telefonino il coltello, prima di fiondarsi nell'auto e fuggire.
Ero il terzo della serata che il gruppetto aveva "beccato".
 
Morire per un motivo così stupido non ha senso ... fosse stato almeno più abile a quest'ora non ingannerei l'attesa della fine con inutili ricordi, riverso come un materasso rotto sul marciapiede sporco davanti alla faccia del Cristo e vicino ai sacchi neri dell'umido.
"Che cazzo" penso, "credevo che a un figlio di zoccola come me non potesse capitare! ... Ma quanto ci metto!?"
Rovisto un'altra volta nelle tasche della giacca per recuperare una "morbida" sperando che non faccia schifo come l'altra; non pensavo di avere le tasche così piene. C'è anche un cellulare.
<< Che stupido! >> mi dico strozzando una risata per non acuire il dolore. << Potevo chiedere aiuto. Lo diceva sempre mia madre che sono distratto >>.
Non sento più i piedi, le gambe e il bacino. "Quando arriverà al cuore sarà finita!" penso ricordandomi della morte di Socrate. "Devo dire una preghiera".
Sì, ma a chi? Io credo solo all'indifferente efficienza della "Città", l'unica prova che ho realmente sperimentato riguardo all'esistenza di un potere superiore.
Forse devo concentrarmi su quello che chiedo, sul messaggio e non sul destinatario ... Ok, proviamo!
"Allora, mi rivolgo a te" guardando il viso (c'è solo quello) del Redentore, "che a quanto dicono, vivi nell'alto dei cieli ... e per par condicio a te" puntando gli occhi sul marciapiede "che pare governi sottoterra. Io non so se esistete davvero o se siete il parto dei nostri bisogni. Personalmente, preferisco la seconda. Ma se così non fosse, ascoltatemi! Non mi preoccupa l'idea di essere seviziato per l'eternità là sotto, né mi annoia più di tanto il pensiero di attraversare gli eoni cantando salmi. Quello che mi disturba è ... che in entrambi i casi ci sarei io. Io sono solo un accidente, una fortuita combinazione di elementi e di esperienze. Se restassi "Acido" per l'eternità conoscerei solo il rimpianto di non aver fatto in tempo, di non essere rimasto con lei, di non averle detto che valeva la pena rischiare. E di rimpianti ne ho già troppi. Perciò lasciate perdere la mia anima, non contendetevela! Lasciate piuttosto che mi disperda nel mio ambiente, che diventi tutt'uno con questo piccolo universo conosciuto, che proprio all'ultimo perda, con tutto il resto, anche la coscienza di me! Lasciate che diventi la "Città" come sta per accadere al mio corpo che presto offrirà il suo nutrimento ai pesci -spazzino! Lasciate che di "Acido" resti solo il trafiletto sulle pagine del necrologio ... Spero solo che il redattore non sbagli il nome come è successo al "Santo".
<< E' vero >> sospiro divertito. << Si chiamava Fioravante M. ... e gli hanno stroppiato il nome in "Fiordaliso" >>.

 
 
 
 
  
  
   
 
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