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Autore: Kore Flavia    30/07/2019    0 recensioni
Gabriele ha un potere speciale ed è quello di vivere attraverso gli altri. Ciò che vedono gli altri lo vede anche lui e ciò che risentono gli altri lo risente anche lui. Conosce la vita di un mucchio di gente, quindi, ma ciò non viene senza sacrificare qualcosa e nel caso di Gabriele a fare da agnello sacrificale è la sua di vita. A 35 anni Gabriele si ritrova però privato di questa capacità ed è perciò costretto a vivere nel proprio corpo. Giostrarsi in un’esistenza completamente vuotata di rapporti e senza risultati degni di nota non è però così semplice. Tra suo fratello che lo odia, sua madre che lo vede come un fallimento personale, Anna che vive a centinaia di chilometri di distanza e Giulia che non l’ha mai veramente provato a capire, sua nipote Francesca è l’unica a stargli accanto.
In questo clima Gabriele si racconta e attraverso sé stesso rivela le difficoltà che le relazioni presentano e la paura onnipresente della solitudine e della propria incomunicabilità. Il tutto senza mai smettere di provare a costruirsi in quanto persona e a ritrovare quel rapporto all’altro che fino ad allora aveva rifiutato.
Genere: Angst, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Secondo ricordo
 

 



 
Il secondo ricordo fu la pancia gonfia di mia madre. Sembrava avesse ingoiato un mappamondo, così, intero e senza masticare, benché ad ogni pasto mi ricordasse di farlo sempre. “Non ingoiare, mastica prima!” e lei, beffardamente, non l’aveva fatto. Quest’ironia mi risvegliò di punto in bianco e tutto quello che i miei occhi videro furono quel ventre enorme e una cucina spoglia.
Vittoria era divenuta per me, in brevissimo tempo, la cosa più preziosa, persino più preziosa del prato verde. Mi innamorai al solo pensiero di saperla a fianco a me a giocare, ad imparare, a fare tutto ciò che una bambina normale farebbe. Una bambina che speravo uscisse diversa da me, che si risparmiasse il mio essere me. Se fosse uscita normale sarebbe stato un bene per tutti, per lei, per i genitori che avrebbero potuto sostituire i loro crucci con gioie e per me, che avrei potuto amare il suo sorriso normale e, che ne so, lasciarmi infettare dalla sua normalità.
"Mamma, fra quanto nasce?"
"Tra un po', tesoro."
"Un po' tanto?
"Un po', ora però stai buono."
Questa sua affermazione finale mi sorprendeva ogni volta che tiravo fuori il discorso. Perché mi diceva di tacere, di starmene buono se era tutto ciò che avevo fatto per anni? Se era proprio di quello che si lamentava con mio padre?
"Gabriele è troppo calmo."
"Ma no, è solo timido."
"Non ci parla mai, se non per chiedere da mangiare o cose così!"
"È quello che di solito chiedono i bambini."
"No, Enzo a quest'età chiedeva giocattoli, ti ricordi quell'incubo della Pong-coso? Gabriele non vuole nulla che non sia strettamente necessario per la sopravvivenza."
"Chissà, forse è contro il consumismo." Scherzava mio padre, il quale non aveva mai dato troppo peso alle mie stranezze. Era sempre con una battuta di questo livello che la discussione s'interrompeva. Quindi Silvia si spostava in salone a guardare la televisione e rammendare i pantaloni squarciati di Giulia, che non stava mai ferma. O a lavorare sul travestimento da "un enormissimo drago" per Anna. O, ancora, a discutere con Enzo sull'ordine "discutibile", per lei, della sua parte di stanza e accettabilissimo -perché non dici anche a Gabriele di mettere in ordine? -, per lui.
Giuseppe, invece, andava a fumarsi una sigaretta sul minuscolo balcone, che affacciava sull'enorme terrazza della signora Carla, la quale si mostrava tutte le sere a quell'ora con un bicchiere di birra in una mano e una smorfia di disgusto sul volto vecchio. Mio padre era un uomo gioviale e buono e tentava di intraprendere sporadiche chiacchiere con l'anziana donna, ma quella sembrava non dargli ascolto, tanto era concentrata sul proprio riflesso nel vetro. Giuseppe si stizziva e dopo un quarto d'ora di mal riposta pazienza, se ne tornava in casa ad aiutare la moglie tra bambini e cucina.
Nessuno di loro sapeva che la povera Carla era semplicemente dura d'orecchie. Tante erano state le otiti di cui aveva sofferto nel corso degli anni, da rimanerne menomata. "Il timpano era stato perforato", le aveva detto il medico anni orsono, e il tutto era iniziato con un interminabile fischio. Ora i suoni che arrivavano al suo vecchio cervello erano attutiti, come se tra l’esterno e l’interno fosse presente un grande batuffolo di panno, come ne aveva per lungo tempo usati lei per curare i mal d’orecchio.
La sua, che da lontano ricordava una smorfia di disgusto, era in realtà la disperazione del non capire. Provava a leggere il labiale di quell'uomo dai tratti gentili e la povera donna falliva, tanto erano distanti le labbra da leggere. Supplicava con lo sguardo di ripetere, ripetere di nuovo, e ancora e ancora, di ripetere fino a che non fosse riuscita a capire. A cogliere quelle solite quattro parole che in pochi le rivolgevano.
Solo che mio padre non era un uomo paziente, voleva sempre fare qualcosa, smanioso di fare e di dare non sopportava che ci fosse gente che si trascinava dietro di lui. Tranne me, il mio strascicare non l’aveva mai indispettito, ero ai suoi occhi un bambino pacifico, un bambino che, a differenza degli altri, non dava problemi. Lui mi amava e ancora oggi penso sia stato uno dei pochi a farlo. Era un bell’uomo mio padre: longilineo e dalle mani grandi e capaci, era un uomo che ispirava fiducia e simpatia. Non sorprendeva che mia madre potesse essersene innamorata. Lei, che invece aveva sempre uno sguardo contrito sul volto stanco e che vi passava una mano tanto spesso quante erano le volte in cui respirava.
Enzo, invece, mi odiava. E i nostri due anni di differenza non aiutavano. Aveva per me una tale invidia da trovare sempre un buon motivo per mettermi in cattiva luce davanti ai miei genitori, come davanti ai suoi amici. Desiderava il mio rapporto con papà, sapendo che io ero quello per cui mio padre provava più simpatia.
Quando gli amichetti di Enzo venivano a trovarci a casa nostra non perdevano tempo e subito cominciavano a insultarmi tra le stanze, tra i muri, tra i mobili. Lì dove sapevano avrei potuto sentirli, ma io non li udivo, io ero uno di loro. Io ero quello più cattivo e quello dagli insulti più pesanti. Ero perciò tra loro. Ero io a insultare quell’insulsa creatura che era il mio involucro.
“Tuo fratello è proprio un rincoglionito.”
“Un troglodita.”
“Un handicappato.”
“Non parla neanche, quell’idiota.”
“Secondo me neanche ci capisce. È troppo ritardato.”
“Non fa mai niente e non ha amici. Chissà se muore.”
“E’ un coglione.”
Avevano dieci anni, io ne avevo otto. Erano nell’età in cui le parolacce si incominciano a dire per sentirsi grandi, ma ancora con una certa timidezza si fanno librare nell’aria. E le orecchie non ancora completamente abituate vengono offese e divertite da questi suoni duri. A me non piacevano, le trovavo sgradevoli e non provavo quel gusto immenso nel rigirarmele tra lingua e denti e tra palato e gola.
Loro invece sì e più passava il tempo e più il loro repertorio si ampliava, si ingigantiva e trasudava odio.
Mio fratello non disse mai loro di smetterla se non una volta: la volta in cui alcuni di loro, per pura cattiveria e persuasi dall’odio che mio fratello riversava su di me, decisero di alzare le mani. A quel punto Enzo si intromise, in parte per pena nei miei confronti, in parte per timore di nostra madre. Silvia, che era una donna tanto affaticata della vita, ma tanto innamorata dei propri figli, gli avrebbe restituito tutte le botte date a me.
Avrebbe ululato che “Sei il fratello maggiore, hai il dovere di proteggere Gabriele.” Enzo non era d’accordo, lo sapevo io come lo sapeva mia madre. Secondo Enzo io non ero neanche suo fratello e non aveva tutti i torti. Io sarei cresciuto diventando sempre più tozzo, mentre lui avrebbe preso i tratti leggeri di nostro padre. Una condanna che lui avrebbe dovuto affrontare ogni volta che si fosse visto allo specchio: colui che tanto aveva odiato nostro padre ne sarebbe divenuto il ritratto. Avrebbe quindi preso anche lui a passarsi la mano sul volto ogniqualvolta si fosse guardato in uno specchio, in parte per imitare nostra madre e in parte per nascondersi da sé stesso.
Ad ogni modo, lui aveva da sempre brillato come una stella mentre io ero lo sfondo nero del cielo. Come potevano essere fratelli un tale miracolo e una tale maledizione? Giulia, Anna e Enzo, invece, sì che erano fratelli. L’uno più intelligente dell’altro, l’uno più meritevole dell’altro, l’uno meglio dell’altro. Probabilmente tutti e tre i miei fratelli pensavano fossi stato adottato, eppure avevano ben visto la pancia di mia madre ingrossarsi gravida. L’avevano vista come io stavo osservando Vittoria crescere nell’involucro di pelle.
La speranza che non fossi un figlio guasto, ma solo un povero randagio raccattato per pietà era la storia che raccontavano a molti, Anna e Enzo. Giulia no, lei provava per me un affetto penoso. Avevamo cinque anni di differenza che però non sembravano pesarle come accadeva ad Enzo. Pensai che, forse, più la differenza tra le età era dilatata più il rancore sembrava svanire. Capitava che dicesse di no alle proprie amiche per rimanere appresso al mio stato “meccanico”. Tutti avevano pensato che fosse la figlia con maggiore senso materno, la figlia che di figli ne avrebbe avuti tanti e avrebbe reso presto nonni i genitori. Fu tanta la sorpresa generale nel vederla innamorarsi di un’altra donna e nell’ammettere che “di figli non ne voglio, non ne ho mai voluti”.
Fu ancora maggiore la sorpresa nello scoprire che fu Enzo il primo a fare figli e che li fece prestissimo: come una rivendicazione personale. Voleva essere un buon padre e dimostrare al mondo -e a noi e alla mamma- che laddove nostro padre aveva fallito lui invece era riuscito.
Giulia, però, con me si comportava come una madre. Riversava su di me l’affetto che mia mamma immancabilmente scordava di darmi. Io questo affetto, però, non lo sentivo. Ero io a darlo, ero anche l’amore che mia sorella provava per me. Avevo vissuto insulti e tenerezza, entrambi riversati con la stessa intensità, entrambi da parte dei miei fratelli e mia.
“Gabriele, ti andrebbe un gelato?”
“Non ho fame.”
“Devo scendere a fare la spesa per la mamma, mi accompagni?”
“Va bene.”
“Al supermercato vuoi qualcosa in particolare? Posso convincere mamma a comprarlo.”
“No, grazie.”
Spronava in ogni modo il mio interesse nelle cose e falliva sempre. Non era colpa mia come non era colpa sua, era colpa di quell’involucro che a me stava stretto. A distanza di tempo mi rendo conto che quell’involucro non era mai stato vuoto, ma era riempito di tutte le fantasie che riversavo al tempo nel mondo esterno.
Ma ora no, ora che Vittoria sembrava arrivare io avevo deciso che non avrei smesso di vivere. Sarei rimasto in vita per lei, per proteggerla dalle cattiverie di Enzo e dalle moine di Giulia e dall’indifferenza sprezzante di Anna. Vittoria neanche era il suo nome, a dire il vero. È un nome che le diedi io al tempo e con cui continuo ad identificare quella bambina tanto bella nella mia mente. Chissà che dopo non l’avrebbero chiamata Sara o Eleonora o, che so io, Girolama, ma per me lei era Vittoria. Vittoria e basta, Vittoria perché sarebbe uscita trionfante dalla lotta contro la vita. Perché lei sì, lei ce l’avrebbe fatta a fare tutto ciò che io non ero riuscito a fare, che non avevo voluto fare. Vittoria sarebbe stata la mia opera d’arte, la mia unica e perfetta opera. Il mio obiettivo era lei e in quel periodo divenne il mio motivo di vita.
Gli insulti incominciarono a tangermi, tante volte in quei mesi corsi tra le braccia di mia sorella, senza piangere. Non scoprii il sapore delle lacrime che da adulto.
“Perché mi trattano così?”
“Perché sono invidiosi.”
“Di cosa?”
“Del tuo essere speciale. La gente normale ha paura di questo.”
“Sono cattivo?”
“No, sei troppo buono, semmai.”
Ma io lo sapevo di essere cattivo. Così come sapevo che lo erano i pavoni bianchi, che invece riuscivano ad ingannare mezzo mondo con quello stupido pretesto della loro presunta diversità.
Rideva, sorrideva, mi accarezzava i capelli con dolcezza. Avevo nove anni quando mia sorella doveva nascere e Giulia ne aveva quattordici eppure ne dimostrava mille di più. Sembrava conoscere più di tutti noi, aver visto più di tutti noi. Persino più di Anna che la superava di quattro anni e che allora ne aveva diciotto. Anna non era ancora la maestra che è ora, era scostante e altezzosa e sembrava vivere in un mondo parallelo al nostro. Al mio in particolare. Non so come sia cambiata -anche se tutt’ora mi piace credere fermamente che sia stato merito di Vittoria-, cosa abbia fatto scattare quella parte di sé che nessuno conosceva, ma giusto dopo la maturità incominciò a studiare con l’obiettivo ultimo di poter insegnare.
Insegnare.
Lei che aveva sempre grugnito davanti a un bambino piangente e che ora ne rimane intenerita. Anna disinnescò la bomba che aveva dentro e si riempì di fiori e quasi a rispecchiare questo suo cambiamento interiore incominciò a indossare vestiti dai motivi floreali e ad acconciarsi i capelli con l’uso di cerchietti dai colori sgargianti. Incominciò a lisciarsi i capelli poco prima che Giulia prendesse ad arricciarseli.
Sono tante le sorprese che ci riserva il mondo, lo imparai in quegli anni.
Imparai anche che le sorprese non sempre erano felici, anzi, spesso la gente ne rimaneva spaesata. Non erano sempre torte di compleanno o regali o baci sulle labbra tanto a lungo desiderati. Erano spesso licenziamenti, bocciature, crisi e morte.
“Anna parla tu con Enzo, che io ho da fare.” Le chiedeva la madre, passandosi una mano sul volto struccato. Stava correndo da una parte all’altra per raccattare tutto ciò che era rimasto in giro. Avevamo una cena quella sera e lei svelta, svelta, si era ridotta all’ultimo anche quel giorno e tra me, Enzo arrabbiato e Anna incaponita non sapeva più come fare. Solo Giulia sembrava interessarsi al suo nervosismo e cercava d’aiutarla tra panni e pulizie.
“Devo studiare, perché non lo fa Giulia?”
“Giulia mi sta aiutando, ti prego, ci metti due secondi.”
“Che palle.” Si alzava barcollando ubriaca dal malcontento e, come un fantasma, raggiungeva le spalle di mio fratello. Lo fissava come a volerlo fare esplodere, ma come un contraccolpo era lei a scoppiare: rimaneva pur sempre una bomba ad orologeria. Quando esplodeva ad Anna si rizzavano tutti i capelli in testa e gli occhi si riempivano di fumo. Lui, di spalle e urlante al telefono con un suo qualche amico, non l’aveva sentita arrivare.
“Enzo, stai zitto una buona volta e smettila di fare il bambino piccolo.” Poi aggiungeva, con la precisione di un’assassina. “Persino Gabriele è più maturo di te.”
Non lo credeva davvero, nessuno avrebbe creduto a quelle parole: “Gabriele è più maturo di te”. Erano un’assurdità bella e buona, ma capace di scatenare una reazione repentina in mio fratello. Neanche lui ci credeva, a dire il vero, probabilmente se cedeva a quelle parole era solo per paura che, un giorno, potessero avverarsi. Ora che vivevo anche io, ora che urlavo, ero divenuto una minaccia per lui. A quelle parole, allora, lui si alzava, mollava il suo malcontento nel fondo del cassetto della scrivania e correva ad aiutare la madre con apprensione mai vista. Le sopracciglia di Enzo in quelle occasioni inghiottivano gli occhi neri e rimanevano così per tutta la serata. Fino a che Silvia non andava ad abbracciarlo e a baciargli la fronte. Era Enzo allora a passarle la mano sul viso stanco in una carezza.
“Mamma, ci penso io a pulire il bagno.”
“Mamma lascia piegare a me i panni.”
“Siediti, mamma, qua ci pensiamo io e Giulia.”
Ed era lui che correva su e giù, allora, tra panni e pulizie. Più di Giulia, più di sua madre, spesso arrivava persino a confinarle in una stanza purché gli lasciassero tutto il lavoro da fare. A me nessuno chiedeva aiuto, forse temevano che potessi tornare nel mio stato d’indifferenza se avessi esagerato nel consumo di energie. Solo qualche volta capitava che mio padre mi chiamasse in cucina per aiutarlo tra i fornelli.
“Mi sbucceresti questa mela? Fai attenzione, eh!”
“Va bene.” Rispondevo diligente ad ogni sua richiesta. Ero felice di poter imparare a sbucciare una mela, avrei potuto poi insegnarlo a Vittoria.
Quando capitava che Giuseppe mi chiedesse aiuto mia madre subito appariva dietro la porta, attenta e grigia.
“Sicuro di farcela, amore?” Chiedeva il più calma possibile, stringendosi il ponte nasale.
“Sì sì, così poi la faccio a Vittoria.”
“Vittoria?”
“Mia sorella.”
Allora mia madre se ne andava bianca in volto, dolorante e smunta. Non ne sapevo il motivo e neanche lo intuivo, ma non mi vergognavo, né mi preoccupavo di questa mia ignoranza. Se l’avessi saputo, però, forse avrei sofferto di meno in seguito. Nel frattempo, però, ero molto impegnato a imparare a sbucciare la frutta.
Fu sempre in questo periodo che Giulia disse di essersi innamorata.
“Mi sono innamorata di una persona.”
Disse con una naturalezza devastante durante una cena in cui tutti erano a casa, persino Anna che spesso era fuori tra serate varie.
“Ah, sì? E chi è?” Domandava il padre infilandosi un boccone tra le labbra tirate.
“Si chiama Elena.”
Io non battei ciglio e mio padre sembrò turbato quanto me, ma fummo i soli con una reazione di questo genere. Forse mio padre ebbe questa risposta perché rassicurato dal fatto che non si sarebbe mai sentito in dovere di mettersi -lui, che padre lo era diventato per amore di Silvia e che mai aveva preso quel ruolo sul serio- alla prova con un ragazzo, o forse semplicemente era troppo preso dalla carne che si scioglieva tra i denti. Era un uomo che lasciava vivere, senza mai realmente sporgersi con sguardo critico sulle vite degli altri. Al contrario di nostra madre e, a seguirne l’esempio, nostro fratello:
“Elena? Ma è un nome da femmina!” Borbottò disgustato Enzo. Me l’aspettavo da parte sua una cosa del genere. Lo guardai male, Giulia era la sola che mi avesse mai protetto là dentro, assieme a mio padre quando era a casa, e non amavo l’idea che soffrisse. Spalancai la bocca offeso dalle parole di mio fratello e rammaricato dallo sguardo di mia sorella.
“Sì, è un nome da femmina.” Asserì con tranquillità lei, sorridendomi timidamente quasi a chiedermi “a te sta bene, vero? Siamo entrambi speciali, in fin dei conti”, ma lei non era speciale: lei era semplicemente innamorata. A dire il vero forse neanche io ero così speciale. Ero solo perso.
Enzo tirò fuori la lingua e fece un verso nauseato, lo fissai fino a quando non si ricompose sotto i rimproveri di una madre atterrita. La donna si passò una mano sul volto e cercò di sorridere.
“…Almeno è simpatica? Sei sicura che ti piaccia in quel senso e non solo come amica?” Mia madre, però, non era del tutto convinta e Anna nemmeno, pensai, lo si vedeva dallo sguardo di fuoco con cui scandagliava tutti noi. Era pronta ad esplodere.
“È simpatica e sì, è in quel senso.”
“Amore, lo sai che sono piuttosto aperta, ma ecco, non avrei mai pensato. Non te, almeno. Che poi ora come farai con i figli? E con il matrimonio? Sei proprio sicura di esserti… innamorata? Alla tua età è normale essere confusi, sai.” Gesticolò imbarazzata e colpevole Silvia. Era vero, però, quello che stava dicendo. Nostra madre non aveva mai dimostrato una mente chiusa davanti a situazioni e discussioni di questo genere ed era anche vero che, nella nostra ignoranza, non avremmo mai immaginato una tale piega degli eventi. Probabilmente nostra madre avrebbe accettato maggiormente una tale uscita da parte di Anna. Avrebbe portato le mani sul volto, avrebbe scrollato le spalle, ma alla fine avrebbe detto “ok, da te me lo aspettavo”.
“Lo so, ma’, va bene e te l’ho detto: sono sicura.”
“Io… non so che dire, amore, davvero.”
Enzo esclamò: “Che schifo, innamorata di una femmina, bleah.”
A mio fratello arrivò il primo schiaffo in quella famiglia. Fu Anna a darlo, esclamando:
“Enzo, piantala.” Anna era esplosa, ma coinvolgendo nella propria detonazione qualcuno di diverso da ciò che avevo immaginato.
“Anna! Non si alzano le mani.” La rimproverò flebilmente il padre. L’uomo aveva finito di inghiottire la carne che aveva nel piatto e non aveva più alcuna distrazione che potesse giustificare la sua inadempienza in quanto padre. La giovane maturanda balzò in piedi e, tra gli sguardi sbalorditi di tutti, si girò a fissare prima Giulia e poi Enzo.
“Vi pare normale quello che dice vostro figlio?” Lo disse indicandolo, accusatoria.
Nessuno rispose e mio fratello si mise a piangere.
“Voi due”, indicò mia madre ed Enzo con l’indice destro, “state facendo un bordello per nulla.” Poi si voltò verso mio padre “E tu non dici nulla? Non lo vedi come ci sta rimanendo Etta –l’aveva chiamata così da che aveva memoria-? E non la difendi neanche, incredibile! Rimproveri me, invece: sei assurdo.” Lanciò le braccia in aria con nervosismo. Tutti tacemmo imbarazzati dalle sue accuse, io anche, che non ero stato interpellato, abbassai lo sguardo sul piatto.
Emise un ruggito spazientito e si chiuse in camera sua, come se quella offesa fosse stata lei. E forse lo era davvero offesa, offesa dalla nostra idiozia davanti alla povera Giulia. Quella sera rivalutai Anna e ne abbi un enorme stima. Giulia si alzò perplessa per seguire la sorella, scusandosi mille volte per “essermi alzata prima della fine della cena”.
Pensai che quelle scuse fossero un modo per esprimere il proprio dispiacere nell’essere semplicemente lei e, nel suo esserlo, procurarci tanti problemi. Problemi che non sarebbero dovuti esistere, ma che c’erano e che la nostra famiglia faticò a risolvere.
“Nana si è arrabbiata.” Constatai io nel silenzio. Nessuno rispose.
Giulia incominciò ad arricciarsi i capelli. Le parole che quel giorno mia sorella rilasciò nell’aria come fossero colombe le portarono la libertà. Una libertà che si teneva stretta ai riccioli fatti con la piastra della sorella maggiore.
Nel passare dei giorni Giulia riprese ad essere quella di prima, ma divenne quasi morbosamente attaccata a me e ad Anna. Come se noi due fossimo i suoi scudi contro quel mondo cattivo. Io ed Anna, nell’attesa di Vittoria, ci avvicinammo. Talvolta mi accostavo alla sua scrivania mentre studiava e le chiedevo: “Ripeti?” e allora lei mi passava il libro su cui stava studiando e si metteva a ripetere ciò che aveva appreso.
Io in quel momento stavo imparando anche per Vittoria ed ero affascinato dalle mille cose che si studiavano al liceo. Mi sembrava anche di capirle, come se le avessi già studiate e pensavo d’averlo fatto, vivendo la vita degli altri.
“Con il termine ermetismo si intende non una vera e propria corrente letteraria del Novecento, ma un atteggiamento assunto da un gruppo di poeti…”
Potevamo continuare così per ore, finché Anna non aveva finito di ripetere tutte le lezioni dell’indomani e anche più, quando avevamo il tempo.
Enzo, invece, rimase tagliato fuori. Scoprii di essere capace di istaurare rapporti migliori di quelli di mio fratello, che di anni per esercitarsi ne aveva avuti tanti più di me. Questa mia capacità, però, andò a perdersi con il tempo. Già a sedici anni non riuscivo a legarmi a nessuno, ma è a ventisette anni che notai quanto legarmi a qualcuno fosse difficile per incapacità o per svogliatezza. Il problema fu, inesorabile, che non ripresi a vivere in tempo. Troppo tardi, arrivai sempre troppo tardi. Intorno a me tutti avevano rapporti, figli, amori, lavoro, avevano raggiunto i loro obiettivi o avevano deciso che “no, questi obiettivi no, non fanno per me”. Io, invece, cresciuto a malapena mi persi nella vaghezza della mia esistenza. Fortunatamente, però, a trentacinque anni scoprii anche che avere -e cercarle- delle persone accanto aiuta.
Ad ogni modo, in quelle settimane di attesa concitata conobbi le mie due sorelle meglio di quanto avessi mai fatto vivendo le loro vite. Imparai ad apprezzare la voce un po’ troppo grave di Anna, che diveniva ancora più grave mentre ripeteva o parlava di ciò che amava o mentre, più semplicemente, discuteva. Lo sguardo nero che si posava ovunque, rapido e inesorabile, quelle labbra sempre sottili a causa della gravità con cui viveva la vita divennero la mia guida. Solenne e lenta, ecco cos’era mia sorella maggiore. Fu quasi sbalorditivo il suo cambiamento: oggi Anna dispensa sorrisi ingentiliti e la sofferenza sembra aver lavato via il nero dal suo sguardo maestoso.
Ora quegli occhi sono grigi, talvolta anche tristi, ma bellissimi. I capelli rosa sono tornati ad essere biondi: di quel biondiccio che solo lei sa indossare con tanta leggiadria e superbia.
Era meravigliosa e lo è ancora, anche con il dolore a penzolare giù dalle labbra, pronto a sfuggire in un momento di debolezza. Una sofferenza che le è rimasta aggrappata anche alle ciglia, ma che sta piano piano perdendo la presa. Il tutto anche grazie a Michael e a Londra.
Se non avessi incontrato Alice avrei detto che il mio vero amore erano state le mie tre sorelle, anche Vittoria. Soprattutto Vittoria. Lei che avrebbe avuto due occhietti neri come petrolio e furbi e svegli come quelli di una volpe, lei che avrebbe avuto gambette rapide e secche, l’aspetto leggermente malaticcio e la pelle pallida. Sì, sarebbe stata estremamente pallida, sarebbe stata presa in giro per questo: per il suo essere fragilissima e pallida, così simile ad un fantasma, ma con una forza che nessuno avrebbe mai potuto raggiungere. E sarebbe stata forte grazie a me, al suo fratellone.
Giulia, invece, era tutto il contrario della sorella. Aveva uno sguardo gioviale da sempre, aperta, pronta e con le labbra carnose sempre piegate in un sorriso. Solo poche volte la vidi forzarlo, vidi gli angoli tremolarle per la fatica a tenerli sempre così. Sorrideva per sé stessa e per gli altri.
Giulia era l’unica ad avere gli occhi chiari. Occhi che sembravano attendersi grandi cose dal mondo, che speravano e sospiravano innamorati ogni due per tre. Giulia si innamorava, è questo il mio principale ricordo di lei. È così che la descriverei: innamorata. Innamorata di cosa, poi, non sembrava neanche interessarla: semplicemente lo era e la cosa la rendeva felice. La colmava di gioia la sola idea di potersi dedicare completamente a qualcuno o a qualcosa. Ironicamente, però, come ripeté mille volte, di figli non ne volle mai. Il suo vero amore era la vita, aveva una fiducia sconfinata in essa e in tutto ciò che poteva portare di buono. Sembrava non poter concepire negatività o morte, ma forse era solo quello che voleva mostrare agli altri e forse, e io credevo fosse così, era proprio a queste due cose che pensava maggiormente. Pensava spesso di voler sfiorare la morte e guardarla da vicino. Dirle “ehi, ti ho visto ieri e penso di essermi innamorata di te, ma non può funzionare, sai, sono ancora troppo legata alla vita per concedermi a te”. Erano pensieri da squilibrati concepiti da una ragazzina perfettamente normale agli occhi di tutti. Erano i miei di pensieri.
“Ehi, Gabriele, dove hai nascosto le mie scarpette?”
“Non le ho toccate.”
“Oh, eccole! Che sbadata:”
Capitava spesso che si distraesse pensando a certe cose e perdesse coscienza del luogo in cui si trovava, poi la tensione accumulata si disperdeva in una risata imbarazzata e un “Oh, ecco! Che sbadata!” e una debole schiaffata sulla fronte. Era divertente osservarla correre per casa e vederla, puntualmente, dimenticarsi cosa volesse fare in quella stanza. Anche quando andava in bagno era facile che si scordasse dei propri bisogni impellenti e ne uscisse con un nulla di fatto. Poi tornava quando al bagno ci era entrato qualcun altro e pigolava infastidita.
“Ecco, lo sapevo, lo sapevo che dovevo farci qualcosa!”
E poi la fatidica domanda: “Mannaggia, ne hai per molto, Enzo?”
“Devo fare la cacca.”
“Cavoli.”
A quell’età non coglievo il gusto agrodolce di quelle scenette, ero troppo stupido e immaturo per farlo. Ridevo.
Passando da lì era inevitabile che scoppiassi a ridere davanti alla faccia concentrata di mia sorella. Poi sbuffavo e correvo via, fuggendo dalla mia stessa risata e dai rimproveri di Anna. Anna lo sapeva, Anna sapeva tutto in quella casa, anche questo era inevitabile. Questo perché Anna aveva un carattere indagatorio e sentiva la necessità di sapere tutto su di noi per sentirsi partecipe delle nostre vite. Questa era una caratteristica che si portò dietro anche durante la sua età adulta.
Anna mi sgridava: “Gabriele smettila di ridere.”
“Ma è divertente!” Mi lagnavo sogghignando all’ennesimo sbuffo disperato di Giulia.
Fu in quelle settimane che scoprii l’allegria nella sofferenza altrui. Quel perverso piacere che attraversa chiunque almeno una volta nella vita, quei denti che si scoprono senza imbarazzo davanti al malessere altrui. Si mostrano nudi e banchi. Pronti a mordere l’aria in una risata sprezzante. Era la risata di Enzo e divenne anche la mia.
L’uomo è cattivo, gode delle pene altrui e se ne compiace come se tali avvenimenti non potessero tangerlo. Poi, però, eccolo, toccato anche lui dalla sofferenza, infettato dai pianti notturni e dalle grida nei cuscini.
A tre anni imparai la luce e i colori della natura e a otto conobbi la mia famiglia. A sedici anni, poi, scoprii i lividi, ma non è questo il momento di parlarne. Non è ora, no, ora è di Vittoria che si dovrebbe parlare.
Vittoria che, chissà, avrebbe addolcito persino Enzo e le sue spalle larghe tanto simili a quelle che mio padre aveva da bambino. Fu un periodo felice tutto sommato, felicissimo anche. E se qualcuno soffriva se lo teneva per sé, senza disturbare gli altri, senza sbuffi.
Giulia soffriva per tutto l’amore donato e mai ricambiato, Anna soffriva per lo studio che era sempre troppo, Enzo anche a causa mia, ma soprattutto a causa propria, mio padre arrancava tra la famiglia e il lavoro e mia madre a causa della gravidanza. Anna lo sapeva e forse anche Giulia l’aveva intuito. Io e Enzo ne eravamo ignari o forse ci proteggevamo all’idea o forse, semplicemente, non pensavamo che la vita potesse riservare brutte sorprese. Peccato che ne riservi, per tutti e per tutto, in ogni momento come in nessuno. Nessuno disse nulla, troppo spaventati, forse, o troppo speranzosi.
Vittoria non nacque. La vita sembrò rifiutarla ancora prima di darle la possibilità anche solo di provare a viverla.
Non ne uscì trionfante, non ne uscì affatto, infatti. Una crudeltà indicibile da parte della tanto amata vita. Vittoria o Sara o Eleonora o Girolama si limitò ad uscire morta. Ricoperta dal sangue di mia madre, coperta da un tessuto bianco che ne celava le fattezze, il pallidume e le gambette secche. Gli occhietti neri non si aprirono, non si posarono neanche un solo attimo sul mondo.
Vittoria non divenne lo splendido pavone che avevo immaginato. Non ebbe le piume dai mille colori e lo sguardo intelligente, non le fu concesso neanche di essere bianca come me. Mamma non volle seppellirla e preferì cremarla. Un modo, forse, di bruciare così anche il dolore ed asciugare le lacrime.
Io decisi di tornare a vivere le vite degli altri, vedendo il mio obbiettivo disperdersi nell’aria come la mia coscienza. Mia madre pianse molto, mio padre l’accarezzò lungamente. Anna decise la propria università e forse fu per questo che la scelse, per Vittoria. Giulia si innamorò mille volte, forse per lottare contro il dolore del lutto, forse per dimenticarlo proprio. Passò da una ragazza all’altra con indifferenza, provò anche a stare con un ragazzo, ma si annoiò ancora prima di quanto avrebbe fatto con una ragazza. Persino Enzo rimase colpito dall’avvenimento: smise di trattarmi male, quasi timoroso che anche a me la vita potesse rifiutare, come aveva fatto con Vittoria, e incominciò a parlarmi civilmente, seppur sempre con un certo distacco. Io che avevo smesso nuovamente di vivere. E tra i pianti disperati, tra l’amorevole atteggiamento di mio padre, tra l’affetto nei confronti dei bambini, tra gli innamoramenti e tra il trattamento distaccato di Enzo c’ero sempre io. Pensavo di esserci anche io.
Il nostro quotidiano si dipinse di colori freddi e parole gelide. Parole gettate con rabbia da Silvia contro nostro padre:
 “Esci.”
“Silvia, non ragioni.”
“Vai via, via da questa casa. Prendi le tue cose.”
Litigarono per le più piccole faccende. Un euro di troppo che era servito a comprare un dolcetto a Enzo, uno sguardo verso quelle due donne sedute e impegnate in un chiacchiericcio fitto fitto. Una parola di troppo, un gesto, un voto, tutto divenne fonte di litigi. Anna fuggì presto, entrata all’università si trovò dei lavoretti e andò a stare da un’amica. Persino lei era impaurita dall’aria che si respirava in quella casa, quel gas che dava alla testa, ammattiva, faceva urlare improperi e piangere e ridere istericamente. Un giorno, quando io avevo trentacinque anni e lei tanti di più, ammise: “Avrei voluto aver la forza di rimanere, ma mi sentivo soffocare. Avevo bisogno di andarmene.” Le avevo risposto che nessuno le rimproverava nulla e che aveva fatto bene a partire.
Giuseppe, dunque, guardava l’amata esasperato ed esclamava:
“Amore, ragiona, non è successo nulla di grave.”
“Come nulla di grave? Cosa diavolo vai dicendo?!”
“Silvia, Enzo ha solo scordato le chiavi a casa, succede.”
“No, non deve succedere. Rischiava di non trovare nessuno e che faceva? Rimaneva chiuso fuori?” Silvia si passava allora una mano sul volto, stufa di tutto.
“Ma tu lavori da casa, ragiona.”
“Non dirmi di ragionare e prendi le tue cose.”
Poi la rottura di mio padre:
“E che? Ti sei ammattita? Ripijate che qui non si può andar avanti così.”
“Io?” rideva istericamente lasciandosi andare sul divano e spingendosi il palmo delle mani contro la fronte. Sperando così di non pensare più, forse. Continuava, allora, in un soffio: “Stanotte vai a dormire dal tuo collega o dalla tua troietta.”
Mia madre lo sapeva, mio padre anche e io con loro che lui non aveva nessuna “troietta”. Era l’unico rimasto saldo e pronto a crollare anche lui con noi. Era il muro portante e devo ammettere che in quel periodo si comportò egregiamente. Lo fece per Silvia più che per noi, ma il motivo non era importante. Per Enzo sì, ma non per me.
“Va bene, vado.” Si rassegnava, allora.
Raccattava un paio di cose: una mutanda, una maglietta, spazzolino da denti e dentifricio e anche una lametta, le chiavi e un paio di sigarette. Aveva cominciato a fumare sempre di più da quando Vittoria non c’era più. Ora inspirava nicotina come fosse ossigeno o come fosse il profumo che Silvia si metteva dalla prima volta che si erano visti.
Poi usciva, si sedeva davanti alla porta dell’appartamento con le sue quattro cose in mano e aspettava. Paziente si guardava attorno, salutava cordiale il vicino, il quale era solito dire in una risata pesante:
“Ancora fuori, a’ Giuse’!”
“E daje, te va ‘na sigaretta?”
“E certo, come no.”
E si sedevano vicini, lui e il dirimpettaio Matteo, a fumare, aspettando. Matteo era quindi solito chiedere, la sigaretta tra le labbra e le grosse braccia pelose poggiate sulle ginocchia:
“Ma c’hai mai pensato ad andartene davvero?”
“Quelli poi le muoiono” rideva amaro.
“Eh, ma Silvia? Ancora tanto male sta?”
“Avvoja, ce vorrebbe uno specialista.”
“E perché non lo chiamate?”
“Quella si fa ammazzare prima d’andarce.” Aspirava la nicotina a pieni polmoni, dunque, e la teneva al loro interno fino a che non gli mancava il respiro. Solo allora la rigettava fuori in un colpo di tosse. Era il suo modo di liberarsi dall’amarezza.
“Ah-ah.”
Dopo dieci minuti e le solite battute ripetute Matteo entrava in casa pronto a vedersela con il figlio che non aveva ancora trovato lavoro.
E poi eccolo, i rumori della tv mischiati al pianto, il silenzio dei figli intimoriti chiusi nelle proprie camere che chissà, forse piangevano anche loro. E allora mio padre rientrava mimando il fiatone di chi ha corso chilometri e che ha bisogno di stravaccarsi da qualche parte. E con lui entrava il buio dalle finestre.
Con il respiro pesante si andava a sedere vicino alla moglie, la stringeva con delicatezza ed esordiva:
“Ho dimenticato i sordi, che mi fai dormire qui stanotte?” E ridacchiava ad una battuta del comico in tv, distratto, in un altro mondo. Disperato e forte si mostrava tranquillo e sbadato. Penso che, se avessi voluto vivere come si deve, avrei preso esempio da lui, da Giuseppe Ognissanti un lavoratore che dava anima e corpo per garantire all’amata lo stile di vita promessogli.
Mia madre si limitava ad accoccolarsi contro di lui e borbottare “Non faceva ridere.”
Allora Giuseppe le passava una mano sulla guancia e le sorrideva piano:
“No, hai ragione.”
Il teatrino si ripeteva spessissimo e terminava sempre allo stesso modo. La pace era accolta dall’oscurità che si distendeva sulla città appagata e stanca della lunga giornata.
Si amavano, nessuno l’avrebbe messo in discussione. Era l’amore di mio padre a spingerlo a rientrare sempre, era l’amore di mia madre e farla piangere ed era anche quello stesso amore a separarli e riunirli ogni giorno.

 
Note d'autrice: Mi sono detta che è stupido far passare una settimana tra un capitolo e l'altro dal momento che la storia è già bella che stesa.
Posterò una volta al giorno, dunque.
Grazie mille
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