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Autore: Mana    23/08/2019    1 recensioni
♫ Storia partecipante al contest “Darkest fantasy” indetto da Dark Sider sul forum di EFP. ♫
«Ripetete dopo di me, principessa. Giuro solennemente su fiori, alberi e ruscelli che non rivelerò i segreti di questo regno.»
«Giuro solennemente su fiori, alberi e ruscelli che non rivelerò i segreti di questo regno.»
affermò lei formale, un po’ confusa.
Sentì profumo di fiori e di erba bagnata. Davanti ai suoi occhi comparvero centinaia di piccole fate, mentre il verde della foresta si illuminava con i colori di mille magici fiori che non aveva mai veduto in vita sua. Si presentò a Rhoséd cerimoniosamente, sperando che la normale etichetta andasse bene con le fate, ma Maith la prese in giro, insegnandole che alle fate non importava null’altro che della sincerità del cuore degli esseri umani.
Genere: Fantasy, Song-fic, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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01 Questo è il canto di quel cantastorie qualunque dentro quel regno

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Questo è il canto di quel cantastorie qualunque dentro quel regno
che canta di principi e maghi come ci fosse un oscuro disegno
e racconta di draghi, di uomini ormai destinati a sembianze orripilanti
che solo le labbra di una principessa potrebbero sciogliere tutti gli incanti...

–––

 

–Capitolo 1–

 

*Sette anni dopo*

Il principe Maith era l’orgoglio dei suoi genitori. Nonostante la scarsa prestanza fisica, s’impegnava diligentemente nell’uso delle armi, pur dicendosi con convinzione dedito alla ricerca della pace. Loro non comprendevano appieno cosa il figliolo intendesse con tale espressione, nondimeno vederlo così amato dal popolo, così acclamato dalle masse, non poteva che rallegrarli. Persino la principessa Bláth aveva dimostrato un chiaro interesse verso di lui, durante quegli anni. Ogni primavera, infatti, quand’era il momento per lei di trascorrere il suo tempo con i principi degli altri sette regni, tentava sempre di seguirlo nelle sue avventure. Purtroppo tali bighellonate da bambini dovevano essere abbandonate, perciò gli avevano fatto comprendere che non doveva in alcun modo mettere in pericolo la vita della principessa.

Per tale motivo Maith aveva non solo scoraggiato, ma infine impedito a Bláth di corrergli dietro come suo solito. Ella fremeva, inquieta, ogniqualvolta lo vedeva in procinto di fuggire da quel castello che aveva cominciato a detestare, fino ad arrivare al punto di fingere di svenire tra le sue braccia per poter entrare in contatto con lui, avvertendo con tocchi fintamente ingenui la presenza, sotto la sua tunica, del magico flauto di Hath, come era solito chiamarlo Maith.

«Bláth» la avvertì lui, che privatamente aveva abbandonato qualsiasi tipo di formalità con lei. «Non dovresti toccarmi in questa maniera. Ormai sono un uomo, sai...»

La principessa fu improvvisamente cosciente di quell’eccessiva vicinanza, ben oltre i limiti della decenza loro imposta, e spalancò i delicati occhi alla vista di quel suo sguardo, così intenso da farle torcere repentinamente ogni organo nella pancia. Le labbra socchiuse di lei e l’espressione ormai consapevole mentre si teneva aggrappata a lui spinsero Maith a coprire quell’ultima distanza che li separava in un bacio irruento, al quale la principessa Bláth faticò a rispondere, travolta da emozioni che fino a quel momento aveva negato di provare. Eppure nella sua mente c’era ancora dello spazio per il pensiero della foresta, lì, appena un po’ più in lontananza, oltre quella finestra dove si consumava il loro ardore, il calore che le infiammava per la prima volta punti del corpo che aveva sempre volutamente ignorato.

In quel grigiore, tra quei mattoni che odiava, vedeva Maith come un uomo e non voleva lasciare la sua mano.

«Non avremmo dovuto, Bláth...» provò a protestare debolmente lui, pur lasciandosi trascinare in un nuovo bacio.

Anche Maith, fino a quel momento, non l’aveva degnata di uno sguardo, quasi non accorgendosi del pregio della sua beltà sbocciata in quei sedici anni; era stato completamente assorbito dal suo rapporto con gli abitanti del suo regno, umani o non umani che fossero, dimentico di principi e principesse, a malapena cosciente persino dei suoi stessi genitori. Vedendola tra le sue braccia non desiderava altro che continuare a stringerla, cancellando la sua attrazione per quel bosco così misteriosamente affascinante.

«Maith» lo invocò Bláth.

Maith scacciò le immagini inquietanti di qualcuno che entrava nella stanza e li scopriva insieme, distruggendo per sempre la sua reputazione nel trovarli avvinghiati in maniera così indecorosa. Nervosi, con l’orecchio teso a captare ogni più fine rumore, si separarono, anche se Bláth sembrava non volerlo lasciare andare. Si trattennero ancora un po’ per calmare i loro cuori davanti alla finestra che tante volte li aveva visti complici. Quante volte erano fuggiti insieme, perdendosi nella foresta per ore, a chiacchierare con le fate? Quante volte erano stati rimproverati per quelle poco educate assenze da eventi previsti nei loro regali doveri?

«Non seguirmi, Bláth» le disse infine Maith.

«Perché non posso seguirti?»

«Sai bene perché» fece serio, carezzandole la fronte, prendendo le sue mani per baciarle entrambe. «Sei splendida.»

Non poteva svelarle la verità in maniera esplicita, perché Fíonnula si era raccomandata di negargliela a tutti i costi, in quanto sarebbe stata solo più deleteria, sebbene una giustificazione alla sottile insania che aveva infettato la sua mente avrebbe potuto forse arginare la sua frustrazione. Maith usò il potere di quella loro nuova intimità per persuaderla a restare nel castello. La principessa Bláth si arrese, trattenendo le lacrime. Le rilasciò soltanto quando lui fu sparito, oppressa dalle ombre di quella tetra fortezza che non sopportava più, nella quale non faceva che sognare alberi e piante che le si attorcigliavano alle gambe, trascinandola in un sottobosco magico e accogliente, umido e fresco, odoroso di fiori ed erba bagnata. Se solo avesse potuto riposare un solo giorno tra quelle dolci braccia! Allora forse quell’affanno che avvertiva si sarebbe placato e si sarebbe sentita finalmente libera.

Ma aveva promesso di non disubbidire a Maith e riteneva che la propria parola avesse ancora un qualche valore, sebbene avesse violato i propri doveri di Principessa Bianca donandogli il suo cuore. Premendosi su quelle pareti fredde, che odiava in quel momento più che mai, impose a se stessa di controllare le proprie emozioni. Una piccola parte di Bláth fantasticava ancora sulla possibilità che Maith la invitasse nuovamente ad andare con lui. L’altra era più assennata e le suggerì di non introdursi più con tanta sfacciataggine nelle camere di un uomo. Ancora un anno soltanto, poi sarebbe stato suo, perché l’avrebbe scelto, non curandosi del torneo che avrebbe organizzato il re suo padre. Ella non ne aveva saputo nulla fino a pochi mesi prima, quando aveva casualmente origliato una conversazione dei suoi genitori. Prima era sempre stata convinta che sarebbe stata soltanto sua, la scelta, ma neppure in quello era libera.

Nonostante quei propositi continuò a intrufolarsi nelle sue stanze, pregandolo ogni volta di portarla con sé, ricevendo in cambio soltanto qualche bacio e qualche ammonimento. Quella passione sembrava mettere un freno al suo desiderio di ritornare nel bosco, ma quel palliativo durava soltanto fino al giorno successivo, così infine Bláth decise di tenersi lontana da lui.

Prima che Maith fosse costretto nuovamente ad abbandonarla lo mise a conoscenza del dettaglio concernente il torneo di giochi, facendogli promettere di non rivelarlo ad anima viva, pregandolo tuttavia di impegnarsi al massimo affinché avessero potuto sposarsi. Maith, in realtà, aveva sospettato di aver effettivamente fatto cosa sgradita alla principessa Bláth, poiché a un certo punto ella non s’era più ripresentata nella sua stanza e, quelle poche volte che erano stati insieme a tutti gli altri, lo aveva trattato con un deferente distacco che gli faceva venir voglia di afferrarla davanti a tutti per coprire ancora una volta quelle labbra con le proprie. Con quell’ultimo incontro capì che Bláth s’era dunque tenuta a distanza per evitare nuovamente quella dolce e proibita tentazione. Il fatto poi che non gli avesse più accennato di voler andare nella foresta lo aveva rassicurato.

La poveretta dovette trattenere ancora la mestizia quando infine si salutarono. Eppure stava accadendo qualcosa di inquietante: si era sentita osservata da un uomo, del quale non ricordava il nome, che seguiva sempre Maith quand’era fuori dal castello per gli eventi ufficiali. Curiosamente, però, l’aveva visto distratto quando re Glic aveva proposto un brindisi in onore della sua bellezza, con quell’oscuro rosso vino prelibato che veniva preventivamente servito all’assaggiatore in una bella coppa colma fino all’orlo. Verificata l’assenza di fiele nella bevanda tutti i reali ne bevvero, esclusa lei, che non aveva il permesso. Tornò a cercare con lo sguardo l’uomo che prima la guardava, affrettandosi in quella direzione, ma la nicchia in cui era protetto da sguardi troppo indiscreti era vuota.

 

L’uomo che aveva attirato l’attenzione della giovane principessa Bláth era Charbán, il mentore del principe Maith. Gli insegnava a duellare con spada e fioretto, sebbene Maith dimostrasse scarsa attitudine a quel tipo di attività, nonché a giostrare e a battersi corpo a corpo. Riteneva che per lui fosse meglio essere in grado di difendersi anche a mani nude, se la situazione l’avesse richiesto.

«Charbán, sei mai stato innamorato?» gli chiese Maith durante il viaggio di ritorno al Regno Azzurro.

Charbán scoppiò a ridere. Egli non s’era mai fatto tormento di tali questioni, nonostante qualche volta avesse avvertito quella che i comuni umani avrebbero definito semplicemente attrazione. Ma si era comunque imposto di non coltivare tali sentimenti, troppo impegnato a spostarsi di regno in regno per celare la propria maledizione, troppo desideroso di apprendere sempre nuove arti per potersi fermare in un singolo posto.

Charbán, in gioventù, aveva dedicato i suoi giorni allo studio della magia. Definire cosa fosse gioventù, nella sua lunga vita, sarebbe stato complesso persino per lui, dal momento che aveva già centoquarantasei anni, pur dimostrandone a malapena venti. La storia di come fosse arrivato ad avere un’esistenza così lunga probabilmente era nota soltanto alla propria persona e a suo fratello gemello, Chàrosh. Era nato in giorni oscuri, dominati da sospetto e diffidenza verso le arti magiche e alchemiche. Ciononostante Athair, suo padre, era uno degli alchimisti più rispettati del suo tempo e intendeva trasmettere la propria arte ai suoi due figli. Per farlo si era appartato nei pressi di un luogo ammantato di magia, la foresta di Saile, ricolma di giganteschi salici piangenti, nel cuore di un regno in cui Charbán non aveva più tentato di tornare.

Sin dalla più tenera infanzia i due fanciulli si erano distinti in personalità e interessi. Charbán era curioso ma posato, sempre delicato nell’approcciarsi a ogni sostanza che Athair gli metteva tra le mani, attento a dosare con cura ogni singolo ingrediente, leggendo fin dai quattro anni, con estrema minuzia, i grossi libri di alchimia e di magia concessigli dal padre. Chàrosh, invece, era impaziente, avido di sapere e di sperimentare, nonché invidioso della maggiore fiducia che il padre sembrava riporre in suo fratello. Mano a mano che i fanciulli crescevano quei tratti si intensificavano sempre di più, convincendo Charbán dell’imprevedibilità del fratello e Chàrosh del proprio superiore, vispo intelletto.

Quelle volte che Charbán interpellava il padre riguardo alle proprie incertezze e insicurezze, per le quali spesso il fratello tentava di farlo sentire inferiore, il padre gli rispondeva con una frase che con il passare degli anni avrebbe assunto un significato sempre più compiuto.

«Il dubbio è l’inizio della conoscenza.»

All’età di tredici anni Charbán aveva persino osato confessare al padre le proprie riflessioni sull’altro, pur consapevole che Athair avrebbe potuto considerarlo semplicemente desideroso di rivalità, ma ritrovando nel padre le stesse preoccupazioni che albergavano nella propria mente. La stretta vicinanza di Chàrosh alla natura incantata di quel posto era sempre stata causa di controversie, perché Athair non approvava che Chàrosh trascorresse i pomeriggi a leggere di antica magia all’ombra dei rami e dei fiori di quegli alberi.

Quando Athair propose a Chàrosh di rinunciare all’uso delle sue arti per dedicarsi a un’attività più affine ai regni degli uomini fu deriso dal suo stesso figlio. Charbán origliava, di nascosto, come un piccolo spione traditore, anche se le voci concitate non gli avrebbero impedito di ascoltare neppure se si fosse tappato entrambe le orecchie.

«Non rinuncerò mai all’alchimia e alla magia, io diventerò un mago potentissimo! Perché non vedi le mie potenzialità, padre? Sono molto più dotato di mio fratello. Sarei persino in grado di esperire la pozione dello specchio!»

Athair gli tirò un ceffone che rimbombò nella stanzetta fino al nascondiglio di Charbán, che a fatica soffocò un singulto per lo sbigottimento derivante dall’assistere a un gesto tanto impetuoso da parte del genitore.

Chàrosh si dileguò, furioso e umiliato, sbattendo la porta, senza notare minimamente la presenza del gemello, che aveva oltrepassato in preda a sentimenti di rabbia. Corse e corse fino a inoltrarsi nella foresta, abbracciando il suo cuore, il centro di quel suo piccolo mondo. Confidò al saggio albero quanto accaduto, piangendo, scalpitando, chiedendo e pretendendo un consiglio. Temeva per la propria vita, quindi doveva parlargli, altrimenti non sarebbero potuti più stare insieme.

«Salix, aiutami, ti imploro! Salix!»

Ma l’albero non rispondeva e Chàrosh trascorse ancora molte ore in quello che sarebbe ai più apparso come un semplice monologo, addormentandosi infine, sfinito, alla sua ombra. A risvegliarlo da un sonno agitato e privo di sogni fu un sussurro sinistro, graffiante e allo stesso tempo suadente come i fiori di quell’albero.

La pozione dello specchio.

Aveva vantato tale dote soltanto con l’intento di impressionare il padre, tuttavia non era certo di poterci realmente riuscire. Sapeva che il padre era adirato anche perché il libro che conteneva quella pozione a lui era stato negato, ma non era così sciocco da non comprendere che ormai da mesi non gli venivano affidati altro che compiti elementari e privi di sfida, mentre Charbán imperterrito andava avanti con lo studio, tentando inutilmente e scioccamente di superarlo. Il proprio talento però era superiore, di questo ne era certo, così avrebbe dovuto far capire anche al padre e al fratello che non avrebbero potuto tagliarlo fuori. Non gliel’avrebbe permesso.

Una volta tornato a casa si scusò col padre, il quale acconsentì a fornirgli un nuovo libro dalla sua collezione, pur tuttavia intimandogli con serietà di fare attenzione ai propri esperimenti e di consultarsi con lui prima di qualsiasi pratica concreta e riguardo a qualsiasi intruglio alchemico nel quale avesse voluto cimentarsi. Chàrosh annuì serio, ma fu soltanto Charbán a cogliere un riflesso divertito nei suoi occhi. Quel giorno aveva cominciato ad avere paura di suo fratello.

A causa di quell’angoscia Charbán non si rivolse più ad Athair, per non turbarlo ulteriormente, ma iniziò a seguire il fratello. Lo spiava con una certa discrezione, stando sempre ben attento a non farsi cogliere sul fatto, piuttosto rinunciando se i rischi erano elevati, come quando il gemello si recava nella foresta, territorio a lui ignoto. In casa però aveva la certezza che Chàrosh stesse rubando gli ingredienti per una pozione alchemica, anche se non sapeva quale fosse. Purtroppo non aveva avuto possibilità di scorgere quali avesse sottratto alla fornitissima dispensa del padre, né aveva l’arroganza per porgere al padre domande così specifiche.

Più i mesi trascorrevano, però, più l’inquietudine e un inconsueto senso di attesa si facevano strada in lui, arrivando a fargli dubitare della sua stessa sanità mentale. Quel morboso interesse verso il fratello non era sano ed era inoltre certo che la foresta avesse qualcosa a che fare anche con la sua ossessione. Di quella si sentì libero di accennare ad Athair, facendogli notare che percepiva la presenza della foresta come qualcosa di vivo, che lo attirava da lontano col suo pianto. Il padre gli suggerì semplicemente di non recarsi per alcun motivo all’interno. Non che avesse bisogno di quella raccomandazione: c’era già il suo cuore pavido a fermarlo.

Eppure una volta decise di seguire il fratello. Non sapeva se fosse stato uno strano mormorio a indurlo ad abbassare la guardia, o se il fruscio dei fiori e dei rami fosse diventato improvvisamente irresistibile, ma un ronzio in testa gli suggeriva di andare appresso a Chàrosh. Non fece neppure attenzione a non far rumore, mentre posava gli stivali su quel terreno sconosciuto, né provò ansia quando il fratello si fermò ai piedi di un grosso salice piangente. Provava uno strano sollievo, come se fosse stato giusto trovarsi lì, anche se una parte della sua mente ancora cercava di trasmettergli un’emozione diversa, più negativa, più appropriata, più...

«Vieni, fratello mio» lo chiamò Chàrosh, guardando verso di lui. «Non temere.»

Quella voce dolce e melliflua sembrava la propria, così diversa dal tono naturale utilizzato dal gemello, così rassicurante da scacciare anche l’ennesimo barlume di coscienza che riusciva a filtrare attraverso il brusio del suo cervello. Chàrosh gli afferrò un braccio, scostando la manica per incidere il suo polso con un piccolo pugnale, poi fece lo stesso con il proprio. Lasciò ricadere il sangue di entrambi all’interno di una piccola ciotola posata per terra, sopra a uno specchio che era appartenuto alla loro madre mai conosciuta. Poi prese la ciotola tra le mani e la levò verso il cielo, verso l’albero.

«Il mio sangue per il tuo sangue, metà della mia vita per metà della tua, il mio corpo per il tuo corpo!» dichiarò a gran voce, immergendo poi le dita nella pozione alchemica, tracciando quindi strani simboli sulla fronte del fratello e sulla propria, e infine sul tronco dell’albero. «Possa il mio destino essere per sempre il tuo destino!»

Versò il contenuto della ciotola sulla superficie dello specchio, che rifulse per un istante abbagliandoli così forte da farli ritrarre. Il cielo si era fatto ancora più scuro da quel che potevano vedere, così come lo specchio, che ormai non rifletteva più nulla. Chàrosh lo raccolse, ghignando soddisfatto. Era andato tutto secondo i suoi piani. Neppure il minimo cambiamento era intercorso, neanche la più piccola interferenza.

«Che... che è successo? Cosa mi hai fatto?» chiese Charbán, come risvegliatosi da un sogno.

Ricordava tutto, sebbene a tratti quelle immagini gli risultassero sfocate, come irreali. Ma la ferita perdeva sangue e dovette tamponarsela, senza contare che Chàrosh aveva degli strani simboli dipinti sulla fronte.

«Lo dirò a nostro padre!» minacciò, allontanandosi da lì.

Temeva che il fratello gli avrebbe fatto del male, o che sarebbe corso a bloccargli la strada, ma tutto ciò non avvenne. Corse e corse per quelle che gli parvero ore, mentre per entrare nella foresta gli era sembrato che fossero bastati pochi minuti, e non gli fece piacere vedere la ripugnanza manifesta negli occhi di Athair, quando accorse al suo richiamo esagitato, reclamando la sua attenzione. Nonostante avesse fatto in fretta, proprio in quel momento giunse al suo fianco anche Chàrosh, uno storto sorriso di palese vittoria sulle labbra.

«Come hai potuto? Tuo fratello, non avrai mica... Quella magia non ha questo scopo!»

«Zitto, vecchio! Ora non potrai più uccidermi. Ho legato le nostre vite per sempre.»

Athair si ritrasse, ancora più disgustato, scottato da quelle parole. Aveva intuito in un lampo che se avesse provato a ucciderlo anche l’altro suo figlio l’avrebbe seguito nella stessa sorte. Eppure doveva farlo, perché quello non era più suo figlio. Quantunque fosse un ribelle, non si sarebbe mai comportato così sconsideratamente.

«Sai bene cos’ho fatto, eh? Adesso avrò anche la tua vita.»

Charbán non stava capendo nulla ed era ancora un po’ intontito da tutta quella faccenda, ma sentendo il tono minaccioso del fratello si frappose tra lui e il loro padre, lanciandogli uno sguardo d’intesa. Athair tentò di correre in casa, ma appena diede loro le spalle Chàrosh gli lanciò il piccolo pugnale che ancora stringeva tra le mani, superando Charbán e penetrandogli un fianco.

«Perché fai questo? Dovresti essermi grato per ciò che ti ho donato. Grazie a me avrai una vita più lunga di ogni altro, non ti mancherà il tempo per studiare la magia e l’alchimia e non avrai problemi di malattie, dovrai solo evitare di ostacolarmi.»

Diceva così, ma in realtà l’aveva risparmiato soltanto perché necessitava della sua vita per evitare che il vecchio tentasse di ucciderlo. Sarebbe stato un epilogo quantomeno violento, perciò era giusto che a lasciare quel mondo fosse soltanto Athair. Era questione di pochi minuti. Avrebbe messo fuori gioco Charbán, senza fargli troppo male, poi si sarebbe occupato di quell’altro, in modo che non restasse nessuno in grado di comprendere la maledizione praticata. Ma fu costretto a urlare per il ribrezzo quando le fiamme avvolsero la casa, tirando via con sé anche Charbán, travolto da un orrore ben diverso dal suo.

«Sciocco, sciocco, stolto!» ripeté pensando alla mole di libri dall’inestimabile valore che andavano in fumo in quell’ultima, folle e scaltra mossa di Athair.

Poi spinse via con stizza Charbán, abbandonandolo. Lì non c’era più nulla che gli interessasse. Charbán si allontanò dall’incendio, vomitando sangue. Si rifiutava di tornare verso la foresta, quindi seguì il sentiero opposto a quello imboccato dal fratello. Non aveva voglia di rivederlo. Al primo ruscello lavò dal viso i resti di quella pozione che ancora non aveva compreso, lasciandosi finalmente andare al pianto più disperato per la perdita del padre.

Camminò per giorni e giorni senza tener conto del passare del tempo, desideroso soltanto di incontrare un altro essere umano. Si era premurato di mantenersi sempre pulito, sia lui che i suoi abiti, sfruttando l’acqua del ruscello che stava seguendo, così come qualche semplice incantesimo. Quando raggiunse il primo villaggio non riuscì ad aprire bocca, ma gli fu dato del cibo e una stanza in cui dormire. Più tardi, specchiandosi, non si riconobbe. Sembrava il volto di un altro, quello di qualcuno più adulto e più vissuto, e i suoi occhi avevano cambiato colore: da scuri che erano se li ritrovava a metà tra il verde e il giallo, in uno strano gioco di sfumature che realizzò avere qualcosa a che fare con quella bizzarra pozione che il fratello lo aveva costretto a utilizzare in un rito che non aveva ancora studiato.

La pozione dello specchio.

«Bán, sono stato indiscreto?» la voce del principe Maith che cavalcava di fianco a lui lo riportò al presente.

«Dell’arte dell’amore, vi confesso, amico mio, di non essere affatto esperto. Ma a quanto pare la bella principessa Bláth ha infiammato il vostro cuore.»

«Ella mi ricambia, vi dico» affermò con sincerità. «Ma come mai d’un tratto ciò che mi pareva di conoscere mi sembra sconosciuto? Cos’è questo dubbio che mi tormenta, nonostante mi abbia promesso il suo cuore? Ti confesso che non ne capisco nulla di governo, né vi ambisco, ma desidero sposarla.»

Charbán era arrivato nel Regno Azzurro quando Maith era solo un bambino. Con una semplice ghironda raccontava di avventure in terre lontane, risalenti ad altri tempi, con dei toni così ammalianti e coinvolgenti da fargli guadagnare in poco tempo il titolo di cantastorie del regno. La voce era giunta fino al Castello Azzurro, così gli era stato ordinato di presentarsi al cospetto della famiglia reale. Maith aveva soltanto quattro anni, ma una sconfinata fantasia, e non volle saperne di lasciarlo andar via, dopo aver sentito i suoi racconti. Venendo a conoscenza del fatto che avrebbe potuto trascorrere molto meno tempo con il piccolo a causa dell’imminente scelta di un mentore da parte dei suoi genitori, Charbán si era proposto volontario.

Aveva svelato di essere stato addestrato dai migliori combattenti di tutti i regni, elevando a livello d’eccellenza la propria preparazione. Era anche vero che mai aveva ricoperto un ruolo così importante come formatore di un principe, eppure si era mostrato determinato nell’insistere per ottenere tale nomina. C’era stato scompiglio e sconcerto, perché nessuno credeva che un semplice cantastorie potesse nascondere doti di tale portata. Però le aveva dimostrate con i fatti, accettando di sfidare ogni possibile candidato e di arrendersi se avesse perso anche solo in una singola disciplina. Così, infine, col benestare dei sovrani e per la gioia di Maith, era divenuto il precettore del Principe Azzurro.

«Il dubbio che provi è l’inizio stesso della conoscenza, è proprio questa la ragione della tua incertezza. Ciò vale in tutte le cose, perciò anche l’amore non può fare eccezione.»

Charbán si ripeteva la frase di suo padre ogni volta che si accostava a nuova attività. Ogni volta essa gli dava più forza per affrontare l’ignoto. Di Athair non gli era rimasto che quello, perché ormai neppure la memoria conservava il ricordo del suo viso.

«Devi rendermi più forte, amico mio. Degno di lei» asserì solennemente Maith.

 

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[Song credits: Sangue di drago, Rancore]

   
 
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