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Autore: makaalaure    25/08/2019    0 recensioni
[DAL TESTO]
Per non essere troppo di parte, devo ammettere che sarebbe un po' scorretto incolpare solo coloro che poi sono passati alla storia. De facto, si potrebbe dire che all'origine di tutto vi erano, com'è giusto che sia, gli dèi – gli dèi e la loro vanagloria. La ribellione di Anshi aveva piegato il grande Tang, e la frivolezza divina aveva portato alla distruzione di Chang'an [...]
Depone comunque a favore degli dèi, il fatto che abbiano realizzato di aver commesso una gran stupidaggine, che si siano poi pentiti, e che per farsi perdonare da noi mortali ci abbiano costruito una seconda Chang'an: e questa è oggi immortale e indistruttibile, posta nella dimensione intermedia tra il mondo visibile e il mondo degli spiriti. Quanto a noi, o meglio, i nostri antenati, i cieli avevano lasciato loro il compito di vigilare sulle azioni degli uomini e assicurare che un errore simile non si ripetesse mai più. E questo spiega perché ci chiamiamo Osservatori.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Angolo dell'autrice:
Prima che leggiate questa storia, vorrei innanzitutto specificare che questo racconto nasce come una sfida personale. Il racconto fantastico/epico è un genere che ha cambiato la mia vita e che ha fatto nascere in me la passione della lettura e della scrittura. Purtroppo, però, non ho mai portato un'opera al compimento che avrei voluto. Ogni volta che rileggevo c'era sempre qualcosa che non mi andava giù, e per carità, anche questa storia che ora pubblico sarà probabilmente oggetto di periodiche revisioni e modifiche.
In questi ultimi anni, dunque, mi sono dedicata molto più alla lettura che alla scrittura, probabilmente anche alla ricerca di uno stile personale da adottare. È stato qualche giorno fa che la mia mente, improvvisamente ispirata, ha voluto mettere nero su bianco questa idea. Ho realizzato di voler scrivere qualcosa di non convenzionale, magari anche originale, per riesplorare questo mondo sotto un'ottica nuova, magari non per farne un capolavoro, ma anche solo per prenderlo come un esercizio. Così ho deciso di scrivere una storia che traesse ispirazione dalla mitologia cinese, ma che non fosse incentrata su di essa in senso stretto.
Spero dunque di riuscire ad arrivarne a capo e di ripagare la vostra pazienza e il tempo che dedicherete a leggere questa storia.
Ultima premessa: pur essendo frutto della mia fantasia, taluni ambienti e circostanze sono state fortemente influenzate da due serie tv specifiche (Nirvana in Fire, The Rise of Phoenixes)




 

1

Un acquazzone improvviso non dura tutto il giorno

 



 

Era una giornata ventosa.

Per comprendere a fondo la rarità di questo evento, bisogna che prima spieghi l'estate di Shanghai: tiepida, grigia, e soprattutto umida. Temporali improvvisi si alternano a qualche guizzo di sole. La pelle si fa appiccicosa non appena non si è più a portata di aria condizionata, anche se magari non fa nemmeno caldo. Non c'è da sorprendersi se, chi può permetterselo, si rifugi verso le zone costiere, dove la corrente marina porta un po' di vento­­ e di sollievo. O almeno così pare.

Ammetto di aver sempre avuto una tendenza fare la drammatica, ma quella volta davvero non stavo esagerando. Mi tenevo il cappello con una mano, e con l'altra il libro che stavo tentando di leggere, perché il vento minacciava di portarmeli via entrambi. Davanti a me c'era il mare di Jinshan, ampio, calmo e gorgogliante in quel verdastro sabbioso. Non era esattamente uno spettacolo, e l'avevo intuito dal primo istante in cui avevano menzionato "mare" e "Shanghai" nella stessa frase.

Bastò un istante di distrazione perché il vento ne approfittasse per gettarmi una nuova folata di sabbia tra le pagine del libro.

— Ehi, ragazza, questo è tuo? — il mio vicino di sdraio mi allungò il cappello da sole, che, me ne accorsi solo allora, mi era volato via quando mi ero messa a sbattere il libro con violenza nel tentativo di non dovermelo riportare a casa nelle sembianze di un relitto marino. Era un ometto sulla cinquantina che aveva appena passato una buona mezz'ora a imprecare contro un suo certo collega d'ufficio, a quanto pare promosso prima di lui. La moglie, seduta sullo sdraio accanto, si era sorbita tutto il discorso con il silenzio di chi o fa finta di ascoltare o ascolta per davvero.

— Oh, grazie.

L'ometto sorrise. Poi riattaccò nella sua filippica.

Mi tirai ostinatamente il cappello sulle orecchie, sperando di potermele tappare. Non per motivi di privacy, certamente, ma perché ne ero davvero stufa. Questo era il classico risultato della costipazione da lavoro: se uno non può lamentarsi in ufficio, finisce che lo fa in spiaggia. Perdeva sicuramente una certa dose di effetto, ma quelli erano punti di vista. Probabilmente per i suoi dipendenti non ci sarebbe stato nulla di più terrificante del loro capo arrabbiato, in costume da bagno, con la limonata in mano e una tonnellata di crema solare spalmata sulla faccia.

Poco più avanti, un'onda si dissolse in schiuma sotto i piedi di una bambina, che scoppiò a ridere. Mi accigliai, come facevo sempre più spesso da quando mi avevano detto che l'espressione scontrosa mi avrebbe fatto venire le rughe. Non era davvero granché come spiaggia. Tra le centinaia di sfumature di blu e verde esistenti, non ce n'era una che fosse sgradevole abbastanza da poter essere associata a quel mare: pareva che c'avessero versato dentro del petrolio – idea non del tutto improbabile, a pensarci. L'inquinamento in cui riversava l'intero Paese da una decina di anni aveva ingrigito anche il cielo, rendendolo blando e smorto, ma quello per la gioia degli stessi abitanti, che così potevano fare il bagno senza preoccuparsi di abbronzarsi. Mediamente ogni dieci minuti mi passava accanto un gruppo di ragazze dalla pelle così bianca da farmi sospettare se per caso non fossero cadute in lavatrice mentre facevano il bucato con la candeggina.

In ogni caso, non vi era dubbio che io fossi la persona più scura su quella spiaggia, ma se c'era una cosa che negli anni avevo imparato ad apprezzare di me stessa era il colore della mia pelle. Un caffellatte chiaro, che sotto qualche raggio di sole si faceva color frittella: era diventato molto più facile farmelo piacere, da quando un ragazzo carino mi aveva detto che avevo la carnagione dorata, ed era sicuramente diventato più facile ignorare gli opprimenti canoni di bellezza orientali. Certo, lui non lo vidi più in vita mia, ma in cuor mio continuai a serbare il suo complimento con gratitudine.

Seguii con lo sguardo un gruppo di ragazzi della mia età che si tuffò schiamazzando e ridendo. Più in là, persino i miei amici, tutti in acqua fino al collo, sembravano divertirsi, e si stavano inoltrando anche al largo, probabilmente per vedere i pesci. Riccardo amava i pesci. L'anno prima, a Rodi, non la smetteva più di parlare di quelli che avevano morsicato il fondoschiena alla povera Gemma. La cosa sembrò divertirlo molto.

Continuai a guardarli, immusonita. Kant diceva che quando si conosce attraverso i sensi, si azionano dei meccanismi di filtrazione, costituiti dai concetti di spazio e tempo. Se persino spazio e tempo non sono altro che filtri, allora cosa poteva essere il mio giudizio? Sarebbe stato decisamente giusto ammettere che avevo una visione di parte. Avevo passato plurime estati sulle più belle coste mediterranee, era naturale che Jinshan mi apparisse un po'... frolla. La spiaggia rosa di Elafonisi, l'acqua trasparente della Sardegna – mio padre lo chiama "il dominio di Nettuno", dalla divinità che maggiormente venera. È da quando ho memoria che nel nostro appartamento a Milano esiste un altarino in salotto, su cui vanno a posarsi periodicamente conchiglie, erbe sacre e altre offerte al dio. Dico "esiste" perché nel corso della mia infanzia aveva quasi assunto una personalità propria: papà lo interrogava a cadenza regolare, ci parlava, e rispondeva a domande che il cielo solo sa da dove arrivassero. Ovviamente lui si stava rivolgendo a Nettuno, o almeno così riteneva, perché io Nettuno nel nostro salotto non l'avevo mai visto e finché non si fosse presentato in carne ed ossa a punirmi per la mia blasfemia difficilmente lo avrei preso sul serio. Per tanto tempo, dunque, non capii il motivo di quell'insistente devozione, finché ad un certo punto non raggiunsi tanta capacità di discernere quanto bastava da supporre, a buon ragione, che alcune persone vivessero necessitando di una certa fede.

Qualcosa gocciolò sulla mia gamba. — Vì. Già di ritorno?

Ludovica si avvolse nel telo con la stessa destrezza di un mastro greco che arrotola la pita, e mi si sedette di fronte. I capelli scuri le si erano incollati sul viso, e sembrava un po' pallida. — È sarcasmo?

— Perché dovrebbe?

— Perché è da stamattina che ti lasciamo qui da sola a fare il turno.

Anche gli altri erano tornati più a riva, e Gemma si stava buffamente sbracciando. Alzai il braccio per ricambiare il saluto. — Nient'affatto. Mi sono offerta io di rimanere qua. Oggi non mi va di entrare in acqua. 

Quella di Ludovica era una domanda abbastanza inutile, a dire il vero. Non ero il tipo da prendermela per una simile sciocchezza, anzi, trovavo abbastanza divertente – o ridicolo, dipende dai punti di vista – il fatto che ad essersi arrabbiato fosse Lorenzo. "A che pro fare una vacanza insieme se poi non stiamo insieme?" aveva sbottato ad un certo punto, al che ero scoppiata a ridere in maniera talmente poco ortodossa che lui si era diretto dritto in acqua e non mi aveva più rivolto la parola da quella mattina. Io avevo riso per mancanza di tatto, lui invece si era arrabbiato per eccesso di permalosità. 

— Oh — Ludovica arricciò il naso. — Be' — aggiunse con un po' più di spirito. — Si sono alzate le onde, e io mi sono un po' spaventata. Però per il resto non era così male. Peccato che te lo sia persa quand'era più calmo. Cosa leggi?

Il libro era stato messo malamente da parte, e le sventure di Jacopo Ortis avevano perso quella poca attrattiva che detenevano ancora cinque minuti prima. Vi accennai appena, e lei lo guardò con aria altrettanto impietosita.

Negli ultimi due anni di liceo avevamo avuto un insegnante di letteratura italiana mite e mansueto quanto una tazza di camomilla. Essendo che si era rivelato poi un uomo simpatico, trovai un peccato che purtroppo avesse anche lo stesso effetto della camomilla: avevo passato la maggior parte delle sue lezioni a bighellonare dietro a una più che sospettosa pila di libri. Non ero l'unica, naturalmente, ma questo non mi aiutava a smuovere i sensi di colpa, motivo per cui due estati più tardi stavo disperatamente tentando di ingannare la mia stessa coscienza.

— È abbastanza terribile. — dissi, senza alcun rimorso. 

— Tu sei una lettrice troppo accanita per lasciare un libro a metà. — mi ammonì lei.

Ludovica mi guardava con uno sguardo obliquo, al quale risposi con un sorriso. — Sono anche una persona troppo pigra per proseguire qualsiasi cosa verso cui il mio interesse è perduto per sempre. Siamo ancora alle solite, Vì.

Dovetti averlo detto con una certa rassegnazione, perché Vì rise, e un gruppo di ragazzi che stava passando davanti a noi si voltò a guardarla. Non era la prima volta che accadeva: gli stranieri si occhieggiavano sempre con meraviglia e curiosità, e oltretutto Vì era una bella ragazza dal sorriso incantevole.

— Oh, Yiwen, cosa rende un libro ben scritto? Una trama avvincente? Personaggi ben sviluppati? O forse il retaggio che si lascia dietro? — lo sguardo di Ludovica adesso era civettuolo, con una traccia di beffa.

Cercai di tenere a freno la risata. — Lo stile di scrittura, è chiaro.

— Eppure un libro scritto bene ma privo di sostanza non può considerarsi un buon libro. Di questo dovrai convenire anche tu, no? 

— Ti sbagli — risposi, trionfante. — Piaccia o no ai critici, il destino della letteratura sta nelle mani del lettore. Ogni cosa è controllata dalle volubilità del consumatore. Ebbene, se un libro è scritto talmente bene da far dimenticare al lettore che ha speso un mese di tempo a leggere un beato nulla, allora sì, è un libro ben scritto.

Vì si stava sistemando il telo sulla sabbia, anche se il sole era appena scomparso. Si sdraiò e socchiuse gli occhi. — È strano che tu lo dica.

— E perché?

— Perché tu non ci metti un mese a leggere un libro. Il tuo esempio è inconsistente.

— E la tua frase non presenta un minimo di nesso logico.

Non mi rispose più, e io non insistetti. Cercai di godermi quel di cui potevo godere di quegli ultimi giorni di vacanza. Avevo atteso la bella stagione per così tanto che adesso si era trasformata in un affanno a raccogliere come oro colato gli sgoccioli di quell'estate, e nonostante il mio sorriso distratto non lo desse a vedere, i miei occhi provavano un vago, inspiegabile senso di anelito verso lo sprazzo colorato di un aquilone da kitesurfing in lontananza.

— Ah, questa è bella! — Ludovica si era messa a sedere, e guardava al cielo crucciata. — Devo subire il caldo ma non mi lasciano abbronzare. 

Mi tolsi gli occhiali da sole, sorpresa. Effettivamente, il cielo si stava rannuvolando non poco. Ma la cosa preoccupante era che la patina di inquinamento non lasciava più intravedere il solito grigio sbiadito e omogeneo, ma grossi cumulonembi che si erano addensati in pochi minuti. 

La gente si stava agitando. Vì sbuffò. — Be', ora non mi sembra così tragico. Non è che non si sia mai vista della pioggia in spiaggia.

Forse avrei dovuto dirle che la pioggia di Shanghai non arrivava in quel modo, o che non presentava mai nuvole del genere, ma la spiegazione si sarebbe protratta troppo in lungo, e dubitavo della sua utilità. Solo agli scialbi inglesi piace discorrere del tempo, e io non ero né scialba né inglese. Avevo anche la strana impressione che non si trattasse di un banale fenomeno metereologico, ma forse era la cattiva influenza di papà, che in casi come questi soleva scuotere la testa e sospirare qualcosa del tipo "Giove è di cattivo umore". Probabilmente non era nulla di che; del resto, il nostro pantheon non aveva divinità del cielo, o meglio, li aveva, ma erano in modalità, per così dire, offline.

— Sai, Vì, qui a Shanghai... — iniziai, un po' indolente, e la terra prese a tremare sotto di noi.

Tutti si immaginano, almeno una volta nella loro vita, l'eventualità in cui ci si trovi nel mezzo di un terremoto. Io ci pensavo più che spesso, e allora mi guardavo attorno, fantasticando su cosa avrei fatto: rifugiarmi sotto il tavolo, correre in giardino, e cosa avrei tratto in salvo con me?, il cellulare, il mio computer, il mio libro preferito. Ma una volta passato il momento, uno non ci riflette esattamente come a un'eventualità reale. Io, per esempio, non avevo mai pensato a quelle povere anime che si trovassero in spiaggia nel momento di una gran calamità, solo che adesso la povera anima ero io. 

Per un intero minuto, fu come se un mostro all'interno delle viscere della terra si stesse risvegliando, facendo muovere la sabbia con la stessa dinamica delle onde marine. Il nostro vicino di sdraio svenne, o forse scomparve soltanto dalla nostra vista. La borsa di Gemma cadde dall'appiglio dell'ombrellone, e per istinto ci alzammo nel tentativo di afferrarla, ma finimmo per perdere l'equilibrio e ballammo un convulso foxtrot attorno agli sdrai.

Poi, prima ancora che potessimo realizzare cosa stesse accadendo, la terra si fermò, e tornò solida – per quanto potesse essere solida la sabbia. 

La gente prese a gridare, correre o piangere – le opzioni erano quelle, insomma. I genitori si buttavano in acqua alla ricerca dei bambini persi di vista al momento della scossa, i bagnini urlavano a tutto megafono di stare calmi; altri rimasero fermi, in attesa di una seconda scossa. Il nostro vicino era ricomparso barcollando, e alquanto inaspettatamente non riprese la sua invettiva. Alla mia destra, immobile sulla sdraio, il romanzo di Foscolo, che presi tra le mani meravigliata. Non so cosa mi stesse passando per la testa in quell'istante – troppe cose, e tutte troppo confuse, probabilmente – ma vedere quel libro immutato mi sconvolse, per qualche motivo.

Mi girava la testa, e avevo preso a vedere tutto in una sfumatura più scura. Strizzai gli occhi un paio di volte, finché non mi accorsi che qualcosa che non andava. Non ero io che vedevo tutto più scuro, era tutto più scuro: i grossi cumulonembi si erano trasformati, in quel breve lasso di tempo, in terrificanti, pesanti nubi temporalesche. E si erano infittite proprio sopra il mare!, rombando minacciose di cupi brontolii, tanto che ora sembrava notte fonda. Intravidi la figura di Vì, a pochi centimetri da me, solo quando il lampo d'un fulmine sbiancò il cielo, seguito subito dopo da un tuono dalla portata di un'esplosione.

Prese a piovere, un vero acquazzone. Uno avrebbe detto che per la spiaggia sarebbe stato troppo, che si sarebbe diffuso il panico e che si sarebbe scatenata la baraonda, ma questo scenario da apocalisse non è altro che il frutto della nostra tendenza a sottovalutare l'uomo. Che era un diluvio universale per la resilienza dei Shanghainesi? Una bazzecola! Sembrarono quasi calmarsi, e lentamente si cominciò a mettere al riparo borse, zaini, e persone, con il chiacchiericcio e il pragmatismo di una quotidianità per nulla intaccata. Quella terribile pioggia rappresentava l'unica certezza dopo un istante in cui il mondo aveva rischiato di mettersi al rovescio – letteralmente – e allora la gente alzava di tanto in tanto il capo per scrutare quelle nubi ostili e annuiva, come per dire: sì, piove ancora. E finché pioveva, il mondo non poteva finire. Non per Shanghai.

— Yiwen? — Ludovica aveva una strana espressione. Era turbata, e guardava in lontananza, verso il mare che si stava facendo sempre più mosso.

Lo notai dopo, perché in quel momento io stavo studiando la posizione strategica in cui sistemare i nostri averi, prima che la tempesta se li portasse via. La mia superficialità era di nuovo al timone, e se non fosse stato per Vì quella volta avrei davvero rischiato di commettere la più grave dimenticanza della mia vita. — Cosa? 

Rimase in silenzio per qualche istante, poi mi prese debolmente per un braccio. — Dobbiamo trovare gli altri, giusto?

   
 
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