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Autore: Mana    28/08/2019    0 recensioni
♫ Storia partecipante al contest “Darkest fantasy” indetto da Dark Sider sul forum di EFP. ♫
«Ripetete dopo di me, principessa. Giuro solennemente su fiori, alberi e ruscelli che non rivelerò i segreti di questo regno.»
«Giuro solennemente su fiori, alberi e ruscelli che non rivelerò i segreti di questo regno.»
affermò lei formale, un po’ confusa.
Sentì profumo di fiori e di erba bagnata. Davanti ai suoi occhi comparvero centinaia di piccole fate, mentre il verde della foresta si illuminava con i colori di mille magici fiori che non aveva mai veduto in vita sua. Si presentò a Rhoséd cerimoniosamente, sperando che la normale etichetta andasse bene con le fate, ma Maith la prese in giro, insegnandole che alle fate non importava null’altro che della sincerità del cuore degli esseri umani.
Genere: Fantasy, Song-fic, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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03 Amico mio, tutta questa parola è dedicata a te, t'è di buon auspicio

–––

Amico mio, tutta questa parola è dedicata a te, t'è di buon auspicio,
se avessi continuato a fare il mago forse ti avrei tolto da ogni maleficio
e se fosse stato troppo tardi giuro che con sotterfugi ti avrei vendicato,
con un cappio al collo adesso canto questo perché tu non devi essere dimenticato,
ora sto cantando a tutto il reame che hanno ucciso un drago che non è reale...

–––

 

–Capitolo 3–

 

 

Il mattino successivo alla battaglia il cielo era ancora oscuro. Qua e là si scorgeva qualche piccolo sprazzo di sereno, ma perlopiù erano dense nuvole a velare la pallida luce di quel triste inverno che volgeva al termine. Per rimarcare la propria posizione, Bréagach aveva deciso di cominciare niente meno che con l’esecuzione di Charbán, scatenando l’odio più profondo in Chàrosh, che non lo immaginava così stupido da agire senza prima consultarlo. La vanagloria aveva già dato alla testa a quello sciocco, ma gliel’avrebbe fatta pagare più tardi, con calma. Purtroppo, però, già moltissimi dei suoi soldati verdi avevano appoggiato quella follia, nonché gli stessi sovrani del Regno Bianco, che avevano acconsentito alla condanna a morte per impiccagione.

Il problema era che Chàrosh l’aveva saputo tardi, quindi era stato costretto a correre per raggiungere la piazza del patibolo. Da lontano non sentiva nulla, ma temeva che Charbán, arrivato a quel punto, svelasse qualcosa. Ciò che realmente lo faceva sudare freddo, tuttavia, era il legame della pozione dello specchio, che avrebbe senza alcun dubbio posto fine alla vita di entrambi, rispettando il patto alchemico. Nessuno, nel tempo che aveva trascorso su quella terra, aveva mai osato fargli provare il sentimento della paura con così tanta intensità. Aveva il corpo di un umano, ma la sua vita aveva un valore al di sopra di quella del misero essere che occupava. Persino Charbán, alla fine, non l’aveva mai realmente ostacolato, evitando di incrociare la sua strada per moltissimi anni.

Poco più in là, al centro della piazza, a Charbán fu finalmente tolto il bavaglio che gli impediva di parlare.

«Ebbene, è almeno concesso un ultimo desiderio a un condannato a morte?»

Re Bardhë, il Re Bianco, gli accordò il permesso di esprimere quell’ultimo desiderio.

«Non desidero altro che suonare il flauto per la principessa Bláth. Vi chiedo, dunque, di slegarmi le mani solo per il tempo necessario affinché io possa portare a compimento il mio desiderio.»

Appena gli furono slegate le mani estrasse dalla tunica il flauto di Hath, gli occhi puntati in quelli della Principessa Bianca, della quale aveva già la completa attenzione, perché aveva riconosciuto il flauto di Maith. Le poche e semplici note di una melodia antica, eseguita con triste pacatezza, risuonarono per tutta la zona, lasciando i cuori colmi allo stesso tempo di contrizione e di meraviglia. Charbán approfittò del momento per comunicare con la principessa Bláth.

«Principessa, ricordatevi sempre che il dubbio è l’inizio della conoscenza.»

Il flauto gli fu sottratto dalle mani, mentre il cappio tornava ad adornargli il collo, e Charbán fu certo che fosse giunta la sua ora. Poteva sentire già qualche gocciolina di pioggia sul viso, o forse erano comunissime lacrime di paura. La sua unica consolazione era la consapevolezza che, dovunque suo fratello si trovasse, anche la sua anima sarebbe stata liberata da ogni pena.

La sua mente immersa nei meandri di remoti ricordi non gli permise di udire con chiarezza le parole pronunciate da Chàrosh, quando questi richiamò l’attenzione di tutti, costretto a intercedere per la vita del gemello, adducendo come attenuante il proprio contributo nell’aver fornito al principe Bréagach la freccia magica in grado di sconfiggere il drago nero. Sfruttando al massimo l’arte della persuasione, che tanto aveva affinato sin dall’inizio della propria esistenza, li convinse tutti, dal primo all’ultimo, che la condanna a morte fosse troppo severa, persino per un traditore, ché tenerlo rinchiuso nelle segrete del Castello Bianco, lontano dalla luce del sole e dalla sua terra, sarebbe stata una punizione molto più crudele.

Il sollievo per la riuscita di quella misera impresa, tuttavia, non sollevò Chàrosh dalle preoccupazioni che ancora lo attanagliavano. Forse si stava solo facendo prendere dall’ansia a causa del panico provato per quello scampato pericolo. Sentiva di aver perso parte della sua lucidità. Aveva riconosciuto chiaramente un richiamo di fate nel soave e misterioso motivo prodotto dal flauto che era custodito dalle mani della principessa Bláth. Forse aveva sottovalutato Charbán. Ma sarebbe stato rinchiuso per sempre, dimenticato dal mondo, l’ultimo alchimista ad aver avuto accesso al sapere delle arti magiche, ricordato unicamente come cantastorie traditore. E qualche minuscola fata non avrebbe di certo potuto ostacolarlo.

 

Fíonnula e Rhoséd avevano udito il richiamo. Grazie al potere racchiuso nel flauto di Hath sapevano anche che a inviare quella richiesta di aiuto non era stato Maith, ma qualcun altro, qualcuno con un corpo maledetto dall’unione proibita di alchimia e stregoneria. Maith era sempre stato un buon amico per loro, forse l’unico essere umano, in decenni, a meritare la loro più profonda stima, in quanto dotato di una purezza di cuore più rara del più raro fiore conosciuto. Perciò si recarono insieme alle altre davanti al grande biancospino. Fu tanto il loro stupore nell’incontrare gli gnomi, anch’essi venuti a supplicare l’albero nella speranza che aiutasse Maith.

«Crataegus, immensa Mathanas, dona la vita a chi ha servito la natura e la pace» invocò Rhoséd, prostrandosi ai suoi piedi.

Fíonnula offrì la propria campanella in dono, piegandosi a sua volta.

«Offro la mia stessa vita» sussurrò determinata.

Rhoséd stava quasi per rimproverarla quando udirono la risposta di Mathanas.

Egli vive ancora. Ha accettato il mio aiuto. Gli concederò soltanto una goccia.

Fíonnula e Rhoséd si guardarono consapevoli, ritornando a volare leggere verso il punto più nascosto dell’albero, che stava aprendo le sue fronde per consentire loro il passaggio. Quelle si richiusero dietro di loro, ma la brina che vi si era formata si sciolse di colpo, pur lasciando un freddo innaturale. Rhoséd si sporse verso il corimbo che splendeva più degli altri, in riverente attesa, porgendo la propria campanella. Una sola minuscola e fulgida goccia scese da quei fiori per riempirla, e le due fate si affrettarono ad abbandonare il sacro luogo per cercare Maith. Non fu difficile, perché il corpo del grande drago nero si trovava proprio ai margini del bosco, ancora legato da crudeli ed enormi corde.

Rhoséd si avvicinò alla sua bocca, quindi vi fece scomparire la luccicante goccia, allontanandosi. Le due enormi iridi si spalancarono contemporaneamente, destando Maith dal sonno nel quale era imprigionato. Fíonnula e Rhoséd agitarono dolcemente le rispettive campanelle, rompendo le corde che ancora gli impedivano di levarsi in volo. Anche le sue ferite si risanarono per effetto della magia, le scaglie di nuovo marmoree e perfettamente riflettenti. Il drago distese le ali senza ancora levarsi in volo, accorgendosi della presenza intimorita e curiosa della principessa Bláth, che lentamente si appropinquava sempre di più, col flauto stretto tra le mani. Fíonnula soffiò con un po’ di polvere di fata un vento dolce, che sollevò da terra la principessa adagiandola sul dorso del drago.

«Fuggite, presto! Prima che si accorgano di voi.»

Maith ringhiò fiero, dispiegando le ali per abbandonare quel luogo, con la principessa Bláth che tentava di tenersi salda, incastrata tra quelle squame inospitali. Per sua fortuna il viaggio durò poco, perché il drago la portò al di là della foresta di Hath, il luogo che tanto aveva bramato di rivedere. Da quel lato appariva più tenebroso di quanto ricordasse, lo stesso verde degli alberi come oscurato da una sottile patina di grigiore triste, che ricalcava quello del cielo sopra di loro.

La principessa Bláth scese con prudenza dalla grande bestia, ritrovandosi poi davanti ai suoi immensi occhi. Un po’ impaurita dall’oscura profondità dell’iride blu spostò l’attenzione su quella azzurra, avvertendo un’emozione di struggente ambiguità.

Ricordatevi sempre che il dubbio è l’inizio della conoscenza.

Il drago nero non muoveva un muscolo, le quattro zampe ripiegate in posizione quieta e inoffensiva, così come le ali intorno al suo corpo smisurato, mentre Bláth si avvicinava sempre di più. Poi emise uno strano brontolio, abbassando il collo finché il muso non si ritrovò a poca distanza dalla principessa. Osservando quell’occhio ancora più da vicino protese istintivamente una mano verso di lui, l’altra stretta saldamente sul flauto che si premeva in petto, quasi temendo che le sfuggisse.

Maith?

«Cosa ti hanno fatto?»

Dalla gola del drago un altro latrato sommesso. Bláth sentì i propri occhi riempirsi di lacrime, nella comprensione della verità. Non sapeva né come né perché, ma Maith, il suo amore, in qualche modo era lì dinanzi a lei, impossibilitato a parlarle.

«Amore mio...» sussurrò in un soffio. «Sei davvero tu?»

Con le punte delle dita la principessa sfiorò la pelle squamosa della testa del drago, poi vi posò le labbra, nell’accenno di un bacio. Quando riaprì gli occhi dovette ritrarsi subito, schermandosi il volto: una sfolgorante luce avvolgeva il corpo della creatura, che si contrasse fino a raggiungere la forma di un essere umano.

«Maith...!»

«Non so che magia abbiano compiuto le vostre labbra, ma ora sono davvero io.»

La principessa Bláth gli si strinse contro, stremata da tutte quelle sensazioni. Si baciarono con passione, felici di essersi ritrovati, sostenendo i propri corpi sul tronco di un giovane biancospino, il cui legno sembrò ammorbidirsi fino a curvarsi sotto il peso dei loro corpi avvinghiati in quella stretta romantica.

«Le fate...» suggerì la principessa, porgendogli il flauto di Hath.

Maith annuì, prendendo lo strumento e intrecciando la mano con quella di Bláth, dunque si addentrò con lei nel bosco. Nella foresta una densa e fredda nebbia impregnava l’aria, i sentieri erano confusi e Maith faticava a trovare quello che l’avrebbe condotto verso il regno delle fate. Bláth avvertì nuovamente, dopo tanto tempo, la dolce malia di quel luogo, dei suoi alberi e dei suoi cespugli, dei rami e delle foglie, dell’umidità invitante del sottobosco. Il cuore le batteva all’impazzata nel petto, ma il suo Principe Azzurro la teneva per mano e non l’avrebbe abbandonata.

Una volta raggiunto il cuore della foresta Maith intonò con il flauto una sola nota delicata, e le fate comparvero. Àrsaidh, la più anziana tra le fate, spiegò loro quanto avevano compreso di ciò che era accaduto sino a quel momento: Maith era stato vittima di un crudele maleficio che aveva convertito sei principi in sei giganteschi draghi. Poiché a tale scopo era stato adoperato il sangue del drago Smok, chi era stato trasformato aveva cercato vendetta nella Famiglia Bianca, colpevole di aver distrutto il leggendario drago oltre cinque secoli addietro. Ma chiunque fosse stato l’alchimista ad aver tramato una simile pozione, egli aveva dimenticato di aggiungere una scaglia di drago, per rendere il mutamento definitivo. Senza quella sarebbe invece stato possibile controvertere l’effetto della maledizione con un bacio di una principessa innamorata.

Il fatto che Maith non avesse perso la memoria, inoltre, Àrsaidh lo imputò alla protezione della polvere di fata, donatagli sette anni prima in quella stessa foresta. Infine, prima che Maith fosse colpito al cuore, Mathanas, il grande albero di biancospino, aveva fatto sì che il suo battito rallentasse fin quasi a farlo apparire morto, portandolo in un particolarissimo stato di sospensione vitale, che era stato interrotto da una purissima goccia di vita elargitagli dallo stesso albero. Su chi avesse ordito un simile copione Àrsaidh non sapeva fornire risposte.

«È stato quell’uomo» si intromise la principessa. «Quello che rassomiglia al vostro maestro.»

Maith pensò subito a Charbán, e a come stoltamente aveva creduto che l’amico l’avesse tradito, quando in realtà quello che aveva visto non era che una brutta copia del proprio mentore. Bláth gli raccontò quanto avvenuto nella piazza delle esecuzioni, di come Charbán avesse richiamato le fate e di come l’avesse dunque spinta a interrogarsi sulla vera natura di quella situazione. Proprio mentre ne discutevano comparve Charbán tra i grossi biancospini ancora non fioriti.

«Dovete uccidermi» esordì immediatamente. «Ma prima vorrei portarvi in un posto.»

 

Charbán aveva lasciato dei cavalli appena oltre il limite del bosco. Bláth salì in sella assieme a Maith, tenendosi stretta a lui. Cavalcarono spingendo impietosamente gli animali, esortati dall’urgenza nella voce di Charbán, che aveva rimandato le spiegazioni a più tardi. Soltanto al tramonto, sulle rive di un ruscello salvatosi dalla furia del fuoco di drago, dove i cavalli poterono abbeverarsi assieme a loro, si premurò di fornire qualche delucidazione.

Egli spiegò ai due giovani di essere fuggito grazie all’uso di un trucco magico, lo schiocco dell’ombra. Sebbene si trattasse di magia oscura, era tra le più semplici e innocue, in quanto permetteva di celarsi nelle ombre dell’ambiente con un minimo residuo di tenebra per l’utilizzatore. Quel giorno di buio ve n’era parecchio, pertanto non era stato difficile approfittarne, lasciando dietro di sé, ancora per qualche minuto, l’ottenebramento di una sagoma illusoria nelle menti dei suoi carcerieri.

Ciò che Charbán aveva taciuto era stato l’incantesimo di memoria con il quale aveva richiamato a sé ogni ricordo della propria vita, rendendolo nitido e chiaro quanto il presente stesso. Ogni incantesimo, pozione alchemica e magia appresa durante la sua infanzia era ritornata a lui, che aveva allontanato tali conoscenze in preda all’angoscia più cupa. Nel suo dolore per la morte del padre, infatti, aveva rimosso lo strano incubo che aveva occupato il suo sonno quel funesto giorno, in cui Athair gli svelava con poche, semplici parole, ciò di cui aveva bisogno.

Quello non è più tuo fratello.

Che quel sogno fosse stato il frutto di un’ultima disperata magia del padre non ne era certo; ciò che sapeva era che quelle parole avevano avvalorato i terribili dubbi che lo avevano attanagliato per decenni. Ogni giorno aggiungeva qualcosa alla sua storia, rivelando nuovi dettagli. Maith fu incredibilmente sorpreso dalla sua conoscenza dell’arte della stregoneria, ma non volle indagare oltre. Lo spaventava anche l’ordine di ucciderlo che Charbán gli aveva ingiunto, eppure aveva deciso di seguirlo senza fare ulteriori domande. A grandi linee aveva compreso che il fratello di Charbán e lo stesso Charbán erano stati protagonisti di un potente scambio alchemico praticato con una pozione attivata tramite una formula magica, anche se di sortilegi non ne sapeva nulla.

Dopo aver parlato con i due giovani, Charbán si isolava, lasciandoli soli, permettendo loro di discutere e riflettere senza la sua ingombrante presenza. Bláth aveva raccolto in una treccia scomposta i lunghissimi capelli azzurri, per i quali Maith si era scusato dal profondo del cuore, perché la fiammata con la quale intendeva dichiararle il suo amore non aveva avuto l’effetto sperato. Ella non lo biasimava, anzi l’aveva compatito per ciò che aveva dovuto sopportare nei panni di quella bestia; gli era inoltre profondamente grata per aver fatto il possibile per difenderla dalla furia degli altri draghi.

Maith non si perdonava tutta la devastazione che non era riuscito a evitare, però aveva una motivazione per diventare re: quella di ripristinare l’equilibrio e la pace e ricostruire quanto era stato ingiustamente distrutto.

«Quando tutto questo sarà finito, amor mio, ci sposeremo» gli promise la principessa Bláth.

«Il mio cuore e la mia vita sono tuoi» rispose Maith, con le dita intrecciate alle sue.

Quella era l’antica formula del congiungimento delle mani. Egli l’aveva pronunciata sotto il cielo notturno, denso della pece più nera, ma la principessa Bláth ne fu ugualmente felice, anche se, in fondo al cuore, una parte di lei non faceva che bramare soltanto il ritorno alla foresta di Hath. Entrambi avevano perso il conto dei giorni trascorsi galoppando sotto quell’incalzante fretta che Charbán instillava in loro. Quella sua ansia si quietò soltanto quando, da una piccola altura brulla, intravide un esteso bosco di salici piangenti.

A Bláth, nonostante i precedenti pensieri, non piacque doversi inoltrare in quell’ambiente: quelli che da fuori sembravano splendidi salici, all’interno della foresta creavano un curioso gioco di spazi chiusi, delineati da penduli rami ricolmi di fiori verdi, che opprimevano Bláth togliendole il respiro. Charbán li guidava con passo sicuro, ma era difficile stargli dietro, perché sia Maith che Bláth continuavano a incespicare. Nonostante tutto riuscirono a fatica a non perderlo di vista, finché egli non si fermò in una stretta radura ombrosa. Chiese loro di mantenersi al limite e si avvicinò al grande albero di salice piangente dal manto verde e giallo, quindi con delicatezza posò le palme delle mani sul suo tronco slanciato.

«Sei davvero qui?» chiese Charbán titubante. «Parlami, Chàrosh.»

Charbán volse lo sguardo verso quella chioma, dubitando ancora per un istante delle proprie deduzioni, dei suoi stessi ricordi.

Fratello, sei tornato.

«Volevo solo rivederti un’ultima volta e chiederti perdono.»

Sarei io a doverti chiedere perdono, la stoltezza della mia giovane età mi ha condotto a scelte sbagliate, ma questa non è una giustificazione. Fearg mi ha corrotto la mente soltanto perché ha trovato terreno fertile per le proprie lusinghe. È una creatura più antica di quanto immagini. Devi affrettarti, perché è già qui vicino. La mia vita è quasi al termine, perciò non affliggerti.

Poco distanti, Maith e Bláth attendevano. L’agitazione della principessa era palpabile, perché ogni ramoscello, ogni foglia, ogni fronzolo le pareva muoversi sotto la spinta di un vento innaturale, del quale non capiva la provenienza né comprendeva la direzione. Maith cercava di rassicurarla, assicurandole che qualsiasi cosa fosse accaduta l’avrebbe protetta, ma anche lui iniziava a sospettare che quello stato d’animo fosse causato dalla saturante magia di quella foresta. Quando infine Charbán tornò da loro, ripeté l’ordine che aveva impartito loro quando si erano riuniti. Maith protestò, poiché, pur avendo ascoltato in quei giorni la storia della sua vita, non poteva concepire che non esistesse un’alternativa.

«Non c’è più tempo per i dubbi! Non posso farlo da solo.»

Charbán si aggrappò disperatamente al principe, tentando invano di fargli prendere quella decisione. Sapeva che si trattava di una richiesta estrema, eppure non aveva altra scelta. I suoi occhi balzarono sulla principessa Bláth, che con aspetto smarrito lo guardava di rimando. Colto da un’illuminazione si rivolse a lei, scongiurandola in ginocchio di fare quanto necessario.

«Maith, dammi il flauto» fece calma, per poi sottrarglielo.

Egli era immobile; neppure aveva provato a impedirle di prenderlo. Charbán protese la testa e il collo verso un lato, osservando con un sorriso il suo caro, vecchio amico, il bambino che aveva cercato di rendere un uomo, l’unico essere umano al quale fosse riuscito ad affezionarsi dopo oltre un secolo di solitudine. Sussurrò un lieve incanto di benedizione, poi la principessa levò il flauto, decisa a puntare il suo collo. Anche quella stregoneria non sapeva come sarebbe avvenuta, ma in qualche modo pareva che ella ne fosse conscia, o che seguisse un istinto inspiegabile.

«Ogni giorno al vostro fianco è stato gioioso, amico mio» sussurrò Charbán con gli occhi puntati nuovamente in quelli del principe.

Il tempo sembrò rallentare mentre Bláth calava il flauto sulla gola di Charbán: in quell’istante il chiaro legno di biancospino si trasmutò in una luminosa lama affilata, che mozzò di netto la testa del mago. Quella cadde al suolo in un tonfo morbido e Maith distolse lo sguardo, con le mani di fronte al viso, invece la principessa rimase immobile, incapace di comprendere dove avesse trovato la forza per compiere un tale gesto. Guardando le proprie mani Bláth trovò, perfettamente integro, il flauto di Hath.

Un brivido impressionante attraversò il suo corpo, poi si ricordò di Maith.

«Andiamo via, ti prego. Ho paura, Maith, ho paura! Dobbiamo andare via.»

Poco distante, ancora nascosto ai loro occhi, Fearg cadde in ginocchio, avvertendo un forte dolore al collo. Istintivamente si portò entrambe le mani intorno al gozzo, dal quale cominciò a sgorgare una considerevole quantità di sangue cremisi.

«No!» esclamò terrorizzato, in un singulto sbigottito.

Attingendo a tutte le proprie riserve di magia trovò la forza di rialzarsi e di attraversare l’ultima parete di fronde che lo separava dalla radura del grande salice piangente. Poi stramazzò a terra, i suoi poteri inutili contro la forza dello stesso incanto che egli stesso aveva voluto sfruttare per liberarsi.

Chàrosh aveva sentito il suo arrivo così come aveva percepito ogni suo passo in quella foresta che ormai rappresentava la sua dimora da oltre un secolo. Ironicamente Fearg era tornato per morire nel luogo della propria antica prigionia. Chàrosh invece aveva persino avuto il privilegio di riconciliarsi con suo fratello Charbán, una speranza che non lo aveva mai abbandonato durante tutti quegli anni.

Accolse con sollievo la magia alchemica della pozione dello specchio, che stava infine reclamando anche la sua essenza, sciogliendo il suo vincolo con il tronco del grande albero.

 

Per convincere Maith ad allontanarsi, Bláth l’aveva dovuto richiamare più e più volte, pregandolo di seguirla, perché la strana corrente che si era levata dopo la morte di Charbán sembrava aumentare di secondo in secondo, sollevando e smuovendo l’intera boscaglia. Maith aveva voltato la testa poco dopo, fissando gli occhi spalancati dell’amico esangue.

Disperata, Bláth l’aveva preso per mano, fino a trascinarlo con sé, alla cieca, rintracciando a tentoni il sentiero che avevano percorso per giungere alla piccola radura, scostando faticosamente decine di lunghe fronde dal loro cammino, lottando contro quegli spifferi gelidi. Affannata ma determinata la principessa lo aveva guidato, fino a ritrovare i due cavalli che li avevano accompagnati in quel viaggio.

«Dobbiamo andare, Maith» ripeté.

«Bláth, come hai potuto...?» chiese lui ancora disorientato.

«Dovevo farlo, Maith! Maith, guardami, devi reagire! Dobbiamo tornare subito nel Regno Bianco. Hai dimenticato i discorsi che mi hai fatto in questi giorni? I tuoi propositi di riportare la pace, di ricostruire per il bene del popolo? Ho bisogno di te, Maith. Amor mio, il mio cuore e la mia vita sono tuoi. Dimmi, è ancora lo stesso per te?»

«Il mio cuore e la mia vita sono tuoi. Ora e sempre» confermò il principe, iniziando finalmente a riscuotersi.

Maith allungò le mani a riprendere il suo flauto, quindi lo ripose al sicuro sotto i propri abiti. Piegandosi in due rigettò l’intensa nausea che si era impadronita di lui durante quei momenti, infine aiutò la principessa Bláth a salire a cavallo, montando poi sull’altro, deciso a non farsi fermare dagli eventi delle ultime ore.

«Verso il Regno Bianco.»

«Fai strada, amor mio.»

 

 

–––

[Song credits: Sangue di drago, Rancore]

   
 
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