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Autore: _ A r i a    20/09/2019    1 recensioni
{ 4391 words | what if? post!3rd serie }
«Saresti dovuto andare a piedi, avresti fatto prima, se la tua intenzione è davvero quella di liberarti di me» gli fa notare, un sogghigno divertito che gli spunta sul volto, mentre s’infila le mani nelle tasche del lungo cappotto che indossa, così da poterle tenere al caldo.
«È stata una giornata stancante, non ho le forze necessarie per recuperare tutti quei piani di scale a piedi» sbotta il ragazzo, con voce irritata.
«Cosa? Un giocatore di calcio a livello agonistico che non riesce a fare qualche piano di scale a piedi?» Kageyama poggia i palmi ampi delle mani sulle spalle di Kidou, ignorando il modo in cui il ragazzo subito si irrigidisce. «Dovresti imparare a raccontare balle migliori, Kidou.»
«Dovresti imparare a farti gli affari tuoi, Kageyama» replica Yuuto, stille d’ira che danzano nei suoi occhi.
«Oh, siamo aggressivi, stasera? Mi piace, mi piace davvero un sacco» commenta Reiji, leccandosi le labbra, pieno di aspettative.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jude/Yuuto, Kageyama Reiji
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Матрёшка



La neve imperversa sulla pista di atterraggio di un piccolo aeroporto secondario, non molto distante da San Pietroburgo. Le turbine del velivolo immettono nell’aria gelida un rumore metallico, mentre quei grossi fiocchi continuano a volare nell’aria, imperterriti, saettando in ogni direzione.
Tre uomini si affollano attorno ad una grossa cassa di legno, mentre una quarta persona si limita ad osservare la scena, a pochi passi di distanza, stringendosi per bene nella propria giacca pesante.
Uno degli uomini affaccendati vicino alla cassa di legno solleva lo sguardo con fare interrogativo, in attesa di delucidazioni.
«Allora? Che ne facciamo di questa?» domanda, a voce alta, per sovrastare il ruggito del vento.
La quarta persona solleva le spalle, infilando le mani nelle tasche della giacca. Non si meraviglierebbe se, da un momento all’altro, finisse per morire di ipotermia.
«Portatela nell’hangar, assieme alle altre» sentenzia la voce giovane della quarta persona, in un inglese così perfetto da far sfigurare in pochi secondi quello maccheronico dei tre addetti ai lavori.
Gli uomini annuiscono, dopo un primo momento di spaesamento, per poi avviarsi a passo spedito verso la meta che è stata loro indicata. Fortuna che quello è l’ultimo carico della partita di merce arrivata, anche perché difficilmente avrebbero potuto continuare le loro attività con delle condizioni climatiche così avverse.
Kidou si sistema nuovamente la sciarpa di lana calda attorno al collo, con tutto quel vento ha finito per sciogliersi. Le due estremità del tessuto candido restano sospese a mezz’aria ancora per pochi istanti, vibrando come se quello fosse il loro ultimo respiro prima di morire. “Certo che fa veramente freddo”, valuta tra sé il ragazzo.
Teme che, per quel giorno, i suoi compiti siano finiti, per cui si appresta a raggiungere la macchina che lo attende, all’entrata della pista, per riportarlo in hotel.
Non sa che, nascosta nel buio, c’è una quinta figura che non smette di tenerlo sotto controllo.



Non era stato Kidou a scegliere di recarsi a San Pietroburgo. Suo padre, convinto che il ragazzo dovesse cominciare ad acquisire maggiori responsabilità all’interno dell’azienda di famiglia, lo aveva spedito lì, al fine di seguire l’andamento di quella partita di merce, oltre che ad occuparsi di altre questioni più puramente burocratiche, una volta ritrovatosi in ufficio.
Adesso, tuttavia, è sera inoltrata, e al ragazzo non resta altro da fare che tornarsene nella sua triste e vuota stanza d’albergo.
Yuuto si sfila la sciarpa, mentre l’elegante berlina nera che suo padre ha messo a sua completa disposizione scivola tra le strade del centro di San Pietroburgo. La neve, adesso, è meno densa, e sembra essersi mischiata a una pioggia leggera. Il ragazzo si ritrova a chiedersi distrattamente quanti gradi ci siano, là fuori. Nell’auto, grazie a Dio, la temperatura è ben più gradevole, tanto che per un momento è tentato persino di togliersi la giacca. Alla fine però decide di desistere da quell’idea, quella giornata l’ha talmente prosciugato di ogni energia che anche un semplice gesto come quello gli sembra un’impresa titanica. Non vede l’ora di arrivare in albergo per farsi una bella doccia calda, nella speranza che almeno quella riesca a restituirgli un po’ di energie.
Kidou si volta di lato, mettendosi ad osservare il paesaggio che scorre oltre il suo finestrino. Le vetrine sono illuminate a festa, mentre i negozi traboccano di addobbi natalizi. Mancano ancora due settimane al venticinque dicembre, eppure la corsa per i regali sembra essere già iniziata. Per la strada una bambina stringe la mano della madre, avvolta in un guanto pesante, nella propria, indicandole una bancarella che vende bastoncini di zucchero, mentre un uomo vestito da Santa Claus fa risuonare la campana che ha tra le mani e augura buon Natale ai passanti.
In tutto ciò, Kidou fissa le decorazioni e la gioia dei passanti con una certa apatia. Pensa al proprio, di Natale, e d’improvviso gli viene una gran voglia di addormentarsi, per risvegliarsi solo una volta che le festività saranno definitivamente concluse. Ricorda a malapena i primi sei anni della sua vita, trascorsi con la propria vera famiglia, eppure tutte le memorie che ha in merito sono sorprendentemente felici: lui e Haruna che addobbano la casa insieme ai loro genitori, l’apertura dei regali, il giorno di Natale, ai piedi del loro modesto abete sintetico…
Yuuto scuote la testa, ricacciando in fretta quei ricordi – e le lacrime che avevano già cominciato a formarsi agli angoli dei suoi occhi, maledette – e tornando prepotentemente alla realtà. Da dieci anni a quella parte, infatti – vale a dire da quando era entrato a far parte della famiglia Kidou – il Natale aveva perso sempre più il significato che i suoi genitori gli avevano insegnato fin dalla più tenera età. Il Natale era la festa in cui ci si ritrovava, il momento giusto da passare con i propri cari per dimostrare l’affetto che si prova nei loro confronti; per la famiglia Kidou, invece, non era altro che un ennesimo pretesto per organizzare cene di lavoro presso la loro abitazione, cogliendo al balzo l’occasione delle festività. Gli addobbi erano solo un modo come un altro per abbellire la villa, mentre il clima di festa faceva in fretta posto ad un’atmosfera più cupa e seria, perfetta per discutere i dettagli di qualche nuovo investimento finanziario. Capitò addirittura, un paio di anni, che Yuuto restasse da solo a casa, mentre entrambi i suoi genitori erano fuori per lavoro. Le poche volte che erano riusciti a sedersi attorno ad un tavolo, solo loro tre, l’unico rumore che il ragazzo era riuscito a sentire era il cozzare del cucchiaio d’argento contro la superficie del piatto in ceramica.
In fondo, Kidou non è poi così disperato al pensiero di trascorrere quei giorni che precedono le festività natalizie fuori città. Il ragazzo si lascia sfuggire un sospiro pesante, nell’istante esatto in cui la vettura su cui viaggia accosta nei pressi di un marciapiede.
Dalla parte opposta della strada, maestoso e sfavillante nel suo candido lucore, un hotel dall’imponente ingresso in marmo lo attende, il grande candelabro pieno di cristalli della hall che s’intravede fin da lì.
Nel frattempo, lo chauffeur è sceso dalla vettura e, prima che Kidou possa accorgersene, gli ha già aperto la portiera. Yuuto trattiene tra le labbra uno sbuffo infastidito, quindi recupera la sciarpa sul sedile accanto al proprio e si affretta a scendere dall’auto, ringraziando velocemente l’uomo, per poi allontanarsi in direzione dell’hotel.
Mentre sale su per i grandi scalini di marmo, il ragazzo intravede uno dei facchini dell’hotel in cui alloggia andargli incontro per tenergli aperta la porta a vetri dell’ingresso e deve di nuovo trattenersi per non lasciarsi sfuggire qualche espressione fin troppo colorita – e che ben poco si addice alla sua figura, sempre così elegante e composta. Sfila in fretta attraverso l’ingresso, ignorando il saluto che gli viene rivolto.
Non appena lo vede arrivare, l’uomo alla reception si è già premurato di recuperare la card magnetica della sua stanza.
«Ben tornato, signorino Kidou. È andato bene il suo giro in città?» gli domanda il receptionist, allungandogli la card.
«Sì, grazie, anche se mi è toccato patire un po’ il freddo» ammette Yuuto, inarcando appena le sopracciglia.
«Oh, in tal caso gradisce che le faccia preparare della cioccolata calda?» propone l’uomo, con aria bonaria.
Kidou sembra rifletterci rapidamente su, mentre continua a rigirarsi la card della sua camera tra le dita.
«Uhm, e va bene» acconsente infine, con un sospiro esausto.
«Ottimo» sentenzia allora l’uomo dai capelli bianchi come la neve che sta cadendo fuori di lì. «Gliela faccio portare subito, allora. Lei nel frattempo può accomodarsi tranquillamente qui nella hall.»
Kidou annuisce, per poi voltarsi e lasciarsi sfuggire un sospiro sommesso. Inutile dirlo, avrebbe preferito di gran lunga poter già salire nella sua stanza, tuttavia la prospettiva di avere qualcosa di caldo da bere lo alletta fin più del previsto, dopo aver trascorso tutte quelle ore al freddo e al gelo – inoltre il buon sapore della cioccolata è un peccato a cui la sua gola non riesce proprio a resistere.
Così, il ragazzo si sistema su un salottino poco distante, i morbidi cuscini rivestiti da un tessuto scuro, un verde decorato da ampi e ricchi arabeschi, tipici dei motivi damascati. A contatto con quella stoffa, Yuuto sente i palmi delle mani screpolati quasi dolere – non credeva di aver preso così tanto freddo. Ripensa a come dovevano essere arrossate le sue guance, prima, alla pista di atterraggio, punte dal freddo gelido dell’inverno russo e dalla lana ruvida della sua sciarpa. Per non parlare dei fiocchi di neve che gli si erano posati tra i capelli, sciogliendosi solo una volta che si era infilato all’interno dell’auto. Paradossalmente, apprezza ben più quel clima rigido piuttosto del sole caldo dell’estate. In fin dei conti, non è poi così dispiaciuto al pensiero di trovarsi in Russia.
Yuuto getta uno sguardo di lato, perdendosi nel panorama che riesce ad intravedere dalle ampie vetrate di quell’hotel situato nel centro della città. Le luci dei lampioni stanno cominciando ad accendersi proprio in quel momento, mentre centinaia di passanti continuano ad affollarsi sui marciapiedi. Ormai è tardi, per cui Yuuto immagina che siano quasi tutti diretti verso casa, dopo un intenso pomeriggio di shopping e passeggiate.
Nel frattempo sente qualcuno avvicinarsi a lui con un leggero tintinnio, segno che deve avere in mano qualcosa – il vassoio con la sua cioccolata calda, presumibilmente.
«La sua ordinazione, signorino» lo richiama alla realtà la voce di un cameriere, calma, pacata.
Yuuto sta giusto per voltarsi, ringraziare e recuperare la tazza con la sua dolce bevanda calda, così lungamente agognata, quando d’improvviso avverte comparire un altro peso accanto a sé sul divanetto, mentre un braccio gli circonda in fretta le spalle.
«La ringrazio! Già che ci sono, posso approfittare per chiederle anche un bicchiere di brandy?» sente domandare dalla voce accanto a sé.
Kidou s’irrigidisce di colpo.
Quella voce… no, non può essere…
Yuuto si volta lentamente, attonito; teme che la sua mente l’abbia ingannato – impossibile, sono passati sei anni, sei lunghi, dannatissimi anni, eppure…
Eppure non potrebbe mai confondere quella voce con nessun’altra al mondo.
Eppure…
Come diavolo è possibile che sia lì? Lui… non sarebbe dovuto essere… non era…
… morto?
Kageyama Reiji si volta ad osservarlo, quel ghigno affabile onnipresente sul suo volto.
Kidou sobbalza appena, sbarrando gli occhi. Come diavolo è possibile? Sente le lacrime sul punto di scivolare lungo le sue guance candide, mentre combatte con tutto sé stesso contro l’impulso di boccheggiare.
«Signorino, va tutto bene?»
Ancora una volta, la voce del cameriere lo distoglie dai suoi impenetrabili pensieri. Yuuto allora si volta nella sua direzione, dischiudendo appena le labbra – eppure sembra quasi che nessun suono voglia uscire da queste ultime.
Kageyama si china in fretta verso il suo orecchio, mormorando con fare seducente parole che finiscono per mandare ancor più in confusione il ragazzo, anche a causa del modo in cui le labbra dell’uomo gli sfiorano la pelle morbida.
«Fai finta che non stia succedendo niente, ragazzo» gli consiglia infatti, con voce melliflua. «Dopotutto, nessuno qui sa chi io sia.»
Yuuto deglutisce a vuoto, l’ossigeno che sembra essere di colpo scomparso dai suoi polmoni. Si rende tuttavia conto che l’ultima cosa che desidera è mettere in allarme il personale dell’hotel, perciò suo malgrado dovrà assecondare le parole di Kageyama.
«Tutto a posto, la ringrazio» risponde allora il ragazzo, ostentando il miglior sorriso rassicurante che riesca a tirare fuori in quel momento, le mani poggiate in grembo.
Il cameriere annuisce lievemente, per poi avviarsi subito dopo verso il piano bar.
Con l’allontanarsi del giovane, Kidou si lascia sfuggire un sospiro di sollievo. Kageyama, invece, continua a sogghignare, sistemandosi meglio sul divano.
«E bravo il mio ragazzo» commenta di lì a breve, senza spostare il braccio dalle spalle di Yuuto. «Sei perspicace – come sempre, d’altronde. Suppongo che non dovrei più stupirmi, ormai.»
«Kageyama.» Un brivido attraversa la schiena del ragazzo in maniera rapida, fugace, selvaggia quasi. «Che diavolo ci fai qui? Tu… avevano detto che eri…»
Kageyama soffoca una lieve risata, lasciando un paio di pacche su una spalla del ragazzo, per poi lasciare definitivamente la presa sul corpo di Yuuto.
«Con calma, ragazzo. Ci sarà tempo per ogni risposta. In fondo, non sempre quel che si dice in giro è vero, no?» Reiji continua ad osservare il ragazzo, incapace di togliergli gli occhi di dosso. «Dovresti bere quella cioccolata calda, comunque, non vorrei mai che il rigido inverno russo la facesse raffreddare.»
Kidou abbassa lo sguardo sulla tazza di ceramica candida, abbandonata sopra al tavolino che si ritrova davanti. Quando l’aveva ordinata gli era sembrata un buon modo per combattere il freddo; ora, invece, il sangue ha iniziato a pulsargli nelle vene a una tale velocità che un discreto calore si è diffuso all’interno del suo corpo.
Paradossalmente, non è arrabbiato con Kageyama. Certo, sa di aver a lungo odiato quell’uomo, nel corso della sua vita, a causa degli illeciti che aveva commesso. Spesso, purtroppo, perfino i suoi amici avevano rischiato di divenire delle vittime innocenti lungo il corso di quegli sporchi giochi. Eppure, alla fine, Yuuto era riuscito a perdonarlo, con la consapevolezza che gli anni che avrebbe dovuto scontare in prigione sarebbero stati la giusta punizione per le sue pene. Peccato che, poco prima di raggiungere il carcere, un grosso incidente aveva coinvolto il suo ex allenatore, che era stato dichiarato morto.
Ora però era lì, che lo osservava con quel ghigno onnipresente sul suo volto, pochi centimetri di distanza a separarli.
Yuuto afferra lentamente la tazza davanti a sé, lo sguardo fisso e fiero che osserva qualunque cosa – la reception, il tavolino, il vuoto – pur di non posarsi su quell’uomo.
Kidou non gli porta rancore – d’altronde sarebbe sciocco, da parte sua – eppure non riesce a capire perché sia ricomparso così d’improvviso nella sua vita, dopo due anni in cui si era lasciato passare per morto, né perché, tra tutti i momenti in cui avrebbero potuto rincontrarsi, aveva scelto proprio quello della sua permanenza in Russia.
Il ragazzo si porta la tazza alle labbra; prima di iniziare a sorseggiare la sua bevanda, tuttavia, decide che è ancora il momento per porre un’altra domanda all’uomo.
«Come facevi a sapere che mi trovavo qui?» mormora, lasciando scivolare il liquido bollente e dal sapore di cacao giù per la sua gola.
Reiji sorride, colpito dalla caparbietà dei suo ragazzo. “Certo che non cambierai mai, eh, Kidou?” si trova a domandarsi. In realtà è fin ammirato dal comportamento della sua migliore creazione, per cui decide di stare al gioco. Gli deve almeno un briciolo di spiegazioni, probabilmente.
«Oh, Kidou, dovresti conoscermi, ormai. Per me rintracciare qualcuno è un giochetto da ragazzi, specie se quel qualcuno sei tu.» Nel frattempo il cameriere li raggiunge nuovamente; porge a Reiji un bicchiere di vetro gelido, contenente del liquido ambrato e liquoroso, per poi tornare a sparire lungo la grande hall dal pavimento marmoreo e circolare dell’hotel. Reiji prende un piccolo sorso di brandy, poi continua a parlare. «Mi è bastato fare un paio di telefonate, a dir la verità. Certo, dichiarando determinate cose, sei anni fa, mi sono fatto terra bruciata intorno, e dove non sono arrivato io ci hanno pensato quelli per cui un tempo collaboravo. Fortunatamente, tuttavia, sono ancora inserito in qualche giro – anche se non ne faccio più parte. Ho degli amici che mi sono fedeli, perché un tempo sono stato magnanimo nei loro confronti, così mi è bastato rivolgere loro qualche domanda. Non ci è voluto molto prima di scoprire che ti trovavi in Russia per conto di tuo padre, al fine di seguire un carico di merce giunto qui dal Giappone. A quel punto mi è bastato seguirti, e così eccomi qua.»
Kidou si allontana per un momento la tazza dal volto, pensieroso. Sono ancora troppe le cose che non capisce, e sa bene quanta influenza abbiano ancora le parole di Kageyama su di lui. Anche solo trovarsi così vicino a quell’uomo lo manda nella confusione più totale, per cui sa bene che deve essere molto cauto.
«Continuo a non capire che bisogno avessi di venirmi a cercare» si limita ad ammettere, scrollando le spalle con quella che cerca di far passare come un’aria del tutto casuale.
«Sono qui per parlarti, ovviamente. Dopotutto, ho sempre trovato estremamente piacevole la tua compagnia, e di questo ne siamo consapevoli entrambi. Insieme abbiamo fatto grandi cose, anche se tu ti ostini a negarlo» gli rammenta Reiji, assumendo nell’ultima parte della frase un tono quasi affranto. «Però, se sei qui per seguire le indicazioni di tuo padre, significa che, in fin dei conti, continui a proseguire lungo la strada che un tempo avevo disegnato per te. Stai mentendo ancora una volta, Kidou, in primo luogo a te stesso; si dà il caso, tuttavia, che sia stato io a crescerti. Ti conosco meglio delle mie tasche, ragazzo, non c’è modo in cui tu possa ingannarmi.»
Yuuto solleva lo sguardo in direzione del soffitto, soffermandosi ad osservare l’enorme e ricco lampadario che pende sopra le loro teste. Doveva aspettarselo, come al solito Kageyama sta tentando di confonderlo con le sue stesse parole.
«Potevi tranquillamente aspettare che tornassi in Giappone per parlarmi. Inoltre, se sono qui è per restare il più possibile lontano da casa mia. Diciamo che ultimamente il rapporto con i miei genitori non sia poi così idilliaco» si ritrova ad ammettere, suo malgrado. Eppure, sa bene che, se vuole convincere Kageyama, sarà sfortunatamente costretto a metterlo a parte di dettagli che preferirebbe nascondere perfino a se stesso.
«Non essere sciocco, Kidou, non ti si addice. In Giappone mi daranno anche per morto, tuttavia se qualcuno mi riconoscesse non esiterebbero un secondo a scatenare contro di me una vera e propria caccia alle streghe. Qui, invece, nessuno ha la più pallida idea della mia vera identità, per cui non avrei potuto far altro che cogliere la palla al balzo e seguirti fin qui. Se qualcuno ci vedesse assieme, nessuno si insospettirebbe, cosa che invece accadrebbe senza ombra di dubbio in Giappone, dove ci separerebbero all’istante. Qui possiamo parlare nella tranquillità più totale.» Kageyama sorride, perdendosi ad accarezzare un lembo di pelle di Kidou, nella parte subito retrostante l’orecchio, in cui la cute incontra l’attaccatura dei capelli – è così morbida, fin vellutata. «E poi la Russia è un luogo così affascinante, non trovi? Ora però, se permetti, vorrei essere io a farti una domanda: se il pensiero di parlare con me t’infastidisce così tanto come stai vanamente cercando di dare a vedere, perché sei ancora qui e non sei già corso a rifugiarti nella tua stanza?»
Al tocco di Kageyama, Kidou finisce per trasalire, rabbrividendo visibilmente. Ha ragione, non ha motivo di trattenersi lì oltre, eppure…
«Perché anche io, a modo mio, avevo bisogno di alcune risposte» ammette, facendo schioccare morbidamente la lingua contro il palato. «E poi perché dovevo ancora finire la mia cioccolata calda.»
Kageyama ridacchia – com’è buffo, il suo ragazzo, quando cerca di raccontargli scuse campate per aria.
«Andiamo, Kidou, se la tua irritazione nei miei confronti fosse stata tale da impedirti di sostenere una conversazione con me te ne saresti andato a gambe levate già da un bel po’, preferendo rintanartene al sicuro nella tua camera da letto piuttosto che sopperire alla tua necessità di sostanze afrodisiache» lo provoca Kageyama, sogghignando – se possibile – ancor più di prima.
A quell’ennesima frecciatina, Kidou reagisce in maniera stizzita, alzandosi in piedi con uno scatto fulmineo, così improvviso che finisce per far tremare il tavolino. Il ragazzo poggia la tazza, in cui ormai è rimasta cioccolata calda per meno della metà, su quella superficie vitrea tremolante, per poi avviarsi con delle grandi falcate in direzione degli ascensori.
Kageyama ride, sempre più divertito dal comportamento altezzoso di Kidou – non pensava che una velata allusione agli appetiti sessuali del ragazzo potesse smuoverlo così tanto, o forse sì. Si limita, ad ogni modo, a buttare giù anche l’ultimo sorso del suo brandy, per poi abbandonare il bicchiere accanto alla tazza di cioccolata calda e seguire Kidou via dalla hall.
Lo ritrova poco distante da lì, in piedi davanti alle porte di un ascensore, in attesa che arrivi al pianterreno. Reiji può seguire benissimo fin da lì il percorso della cabina, che si muove all’interno di una sorta di gabbia dorata. È piuttosto lenta, ci metterà ancora un po’ prima di arrivare.
«Saresti dovuto andare a piedi, avresti fatto prima, se la tua intenzione è davvero quella di liberarti di me» gli fa notare, un sogghigno divertito che gli spunta sul volto, mentre s’infila le mani nelle tasche del lungo cappotto che indossa, così da poterle tenere al caldo.
«È stata una giornata stancante, non ho le forze necessarie per recuperare tutti quei piani di scale a piedi» sbotta il ragazzo, con voce irritata.
«Cosa? Un giocatore di calcio a livello agonistico che non riesce a fare qualche piano di scale a piedi?» Kageyama poggia i palmi ampi delle mani sulle spalle di Kidou, ignorando il modo in cui il ragazzo subito si irrigidisce. «Dovresti imparare a raccontare balle migliori, Kidou.»
«Dovresti imparare a farti gli affari tuoi, Kageyama» replica Yuuto, stille d’ira che danzano nei suoi occhi.
«Oh, siamo aggressivi, stasera? Mi piace, mi piace davvero un sacco» commenta Reiji, leccandosi le labbra, pieno di aspettative.
In quel momento, l’ascensore li raggiunge, con uno scampanellio vibrante. Le porte si aprono e Kidou si lascia scivolare all’interno, senza cercare di affrettarsi. Sa infatti che Kageyama troverebbe comunque, in un modo o nell’altro, uno stratagemma, pur di seguirlo.
Yuuto preme il pulsante del suo piano, dopodiché l’ascensore si chiude e comincia a salire. Il ragazzo sospinge la schiena contro la parete vermiglia della cabina, lasciandosi sfuggire un sospiro arrendevole.
«Non cerchi più di scappare?» Kageyama lo osserva attentamente, dalla parte opposta, le braccia incrociate al petto. Si trovano in uno spazio estremamente ristretto, e la tensione tra di loro diviene sempre più palpabile ad ogni istante che passa.
«Sarebbe inutile, non trovi?» Kidou abbassa lo sguardo, un senso di consapevolezza che inizia a farsi strada dentro di lui.
Ora che non ha gli occhi del ragazzo puntati addosso, Kageyama ne approfitta per sogghignare, sempre più divertito da quella situazione. Si avvicina a Kidou con pochi passi, una mano che subito corre ad accarezzare il volto del giovane.
Yuuto asseconda morbidamente quel movimento, così, pochi secondi dopo, si ritrova a sollevarsi in punta di piedi, le labbra colpevoli che cercano quelle di Kageyama.
Non si sorprende di trovarle, di lì a poco. Reiji non perde altro tempo per gustare quel sapore acerbo di gioventù, mentre Yuuto, man mano che i secondi passano, diventa sempre più irruento, affamato, non si era reso conto di aver così bisogno di lui. Per due lunghi anni lo aveva creduto morto, trovandosi d’improvviso costretto a dover rimpiazzare una persona che da sempre era stata una colonna portante della sua intera esistenza. Una presenza nociva, senza ombra di dubbio, ciononostante sarebbe stato assolutamente impossibile negare l’importanza che quell’uomo aveva da sempre rivestito all’interno della vita di Kidou.
Ora però, finalmente, è di nuovo lì. Ha così tante cose da chiedergli – ma, prima di tutto, c’è quel bisogno irrefrenabile che implora di essere soddisfatto con un’inarrestabile necessità. Per questo affonda le dita tra i capelli dell’uomo, stringendolo ancor più a sé, approfondendo maggiormente il bacio di cui erano entrambi caduti vittime.
Kageyama sogghigna impaziente contro le labbra del ragazzo, separandosi appena da lui. Yuuto lo ha tormentato fino a quel momento, con tutta la sua renitenza, per cui adesso può anche permettersi lo sfizio di essere lui ad avere in mano le redini del gioco.
Reiji sorride, accarezzando il volto del ragazzo. «Che ne dici di continuare questo discorso in camera da letto?» domanda, mentre l’ascensore giunge finalmente a destinazione, con un secondo trillo.
Kidou sorride a sua volta, di colpo sente una scarica di adrenalina correre lungo tutto il corpo.
«Certamente, Comandante» acconsente, questa volta con tono docile.
Il ragazzo si avvia fuori dall’ascensore, tenendogli la mano, e Kageyama sa di aver vinto ancora una volta.


Furono baci, e furono carezze, dolci come il miele, pronte a rincorrersi lungo corpi nudi.
Furono lenzuola attorcigliate alle membra stanche, per poi essere rifugi sicuri, una volta che tutto si concluse. Furono ansimi e sospiri, lasciati sulla pelle tremante di gole arcuate.


Kidou espira debolmente, lo sguardo puntato sul soffitto della sua camera. Non riesce a prendere sonno, al contrario di Kageyama, che, al suo fianco, è crollato addormentato, esausto.
Il lenzuolo purpureo gli copre parte del torace e arriva fin quasi alle ginocchia, tuttavia Yuuto non ha voglia di sistemarlo meglio, troppo esausto per darci peso.
Silenziosamente si rimette in piedi, stringendosi al petto quel mero vessillo pur di coprire, seppur non del tutto, il proprio corpo.
Tutto sommato, non riesce a sentirsi in colpa per quanto è appena accaduto, anzi, non può nascondere a sé stesso di aver tratto un’abbondante dose di piacere dall’intera situazione. C’è una parte di lui, tuttavia, che continua a tornare con la mente alle scene che ha vissuto fino a pochi minuti prima: non riesce a togliersi dalla testa il modo in cui le mani di Kageyama hanno accarezzato temerariamente la sua pelle, come l’hanno sfiorata, le dita pervase da un misto di dolcezza e bramosia. Come quando finalmente ottieni qualcosa che hai a lungo desiderato, eppure cerchi di non essere troppo brutale, per paura che quest’ultima possa andare in frantumi da un momento all’altro, per quanto è fragile e delicata, al pari di una scultura di cristallo.
Al tempo stesso, tuttavia, Kidou riconosce anche a sé stesso quel medesimo tocco affamato, con cui ha stretto a sé Kageyama, inducendolo ad approfondire ogni singolo bacio. Riesce quasi a sentire ancora la morbidezza setosa di quella chioma castana ingrigita dal tempo contro il palmo della sua mano, i capelli finissimi dell’uomo tra le sue dita – una sensazione cieca di appagamento che gli martella le ossa al solo pensiero.
Nel silenzio e nella penombra della camera da letto, mentre Reiji continua a riposare – un guerriero che trova finalmente la pace che ha a lungo agognato, dopo tanto lottare – Yuuto raggiunge la finestra della sua camera da letto. Il ragazzo si attorciglia uno scampolo delle tende cremisi tra le dita, con aria pensierosa.



Nella notte, tra la quiete e l’indifferenza, la neve continua a cadere.




▬ notes

Aehm.  Salve.  Probabilmente nessuno si ricorderà di me – o meglio, io me lo auguro fortemente, sia perché non sono affatto una persona memorabile e sia perché oh, andiamo, cosa diavolo bisognerebbe ricordare di me? –,  in ogni caso hi, sono sempre Aria, quella che fino a due anni fa rompeva le uova nel paniere a tutto il fandom con la sua otp brutta e immorale. No, non sono qui per rimanere, sono solo di passaggio anche perché visti i flame che girano su twitter non credo di essere la benvenuta qui. Sì, li shippo ancora, btw. Ho allegramente imparato a fregarmene della maggior parte delle cose che dice la gente, so here I am, a scrivere storie che poi non pubblico.  Questo abominio era nell’archivio del mio pc da anni, tra parentesi,  e mi sto decidendo a pubblicarlo solo adesso perché da un periodo a questa parte sono in blocco. Ahah, faccio schif.
Ah, già, parliamo al volo della ff. credo si intuisca, ma è ambientata sei anni dopo la fine del FFI. Kidou ha deciso di prendere in mano le redini dell’azienda di famiglia, e sta cercando di immettersi nel business occupandosi di alcuni piccoli incarichi che suo padre gli offre. Peccato che Kags si metta in mezzo a rovinare le feste.
Oh, la Russia non era voluta, btw, ma adesso con Orion ci casca a pennello. Sì, sto seguendo Orion. Sì, sono in hype per l’episodio di oggi.
Buh, non credo di avere altro da dire – anzi, sì, due cose. La prima è che probabilmente questa ff assomiglia a Haunting come se qualcuno la conoscesse ma la cosa non era intenzionale, più che altro è la mia fantasia che evidentemente, a un certo punto, deve aver raggiunto il suo limite. La seconda cosa riguarda Dark Necessities again, so che non avete idea di cosa io stia parlando, ma fate finta che sia così: non sono più andata avanti con il seguito sì, c’era un seguito. Non so se ci riuscirò mai, ma onestamente non ho molte speranze in merito.
Bene, adesso dovrebbe essere finalmente tutto, per cui fatemi scappare da questo posto che ho solo brutti ricordi pls.
{okay, non è vero, su twitter ho incontrato gente carina appartenente a questo fandom}
Grazie a chiunque leggerà e tutto il resto, anche se onestamente spero che questa storia venga ignorata e finisca presto nel dimenticatoio


Aria
   
 
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