Capitolo secondo
What have you done?
Is this what you wanted?
What have you become?
His soul's not forsaken
You're walking alone
From heaven into hell
Now that you know
Your way in this madness
Your powers are gone
Your chains have been broken
You've suffered so long
You will never change!
(“A demon’s fate”
– Within Temptation)
Il mattino dopo, come
promesso, Giovanni era di nuovo a tampinare Rinaldo Albizzi nella sua cella,
sventolandogli in faccia il documento e continuando a insistere affinché lo firmasse.
Questa volta i due
erano soli, Cosimo aveva pensato bene di tenere il Papa lontano da quei due
quando erano insieme (la sapeva lunga, lui!) e di non provare più a convincere
l’uomo. Tanto, Rinaldo avrebbe sempre e comunque fatto l’opposto di quello che
Cosimo voleva, così, per partito preso; era forse più probabile che Giovanni,
da solo, riuscisse a convincerlo.
“Proprio non vuoi
capire, ragazzino? Innanzitutto non voglio la pietà di Cosimo e non intendo
sentirmi in debito con lui per la mia vita” ripeté Albizzi per l’ennesima
volta, come se ormai non lo avessero capito anche i muri della sua cella, “e
poi… io sono un nobile, un politico di Firenze. Che cosa dovrei fare in esilio?
Non avrei più niente per cui vivere.”
Giovanni era
esterrefatto.
“Non avreste più
niente, dite? Ma siete completamente fuori di senno?” esclamò. “Avete la vostra
famiglia, vostro figlio e Messer Cosimo farà in modo che non vi vengano
confiscati i vostri averi, questo lo so già. Volete far parte della vita
politica, o magari continuare ad essere un capo militare, come durante la
guerra contro Lucca? Questo nessuno ve lo impedisce. Il documento vi obbliga a
non cercare di ritornare a Firenze e, soprattutto, a non muovere guerra alla
città, ma potreste comunque farvi una nuova vita nel luogo dove sarete
destinato. Mio fratello Lapo, per esempio, è il comandante delle guardie del
Duca di Mantova e mio fratello Francesco segue la carriera militare a Verona.
Il nome degli Uberti è amato e rispettato in altre città… sono io che volevo
che fosse riabilitato anche a Firenze, ma l’esilio non è stata la fine della
nostra famiglia.”
Rinaldo crollò il
capo, le parole del ragazzo non lo convincevano.
“I tuoi fratelli non
sono nati a Firenze, non hanno avuto difficoltà a stabilirsi in altre città
dove stanno facendo fortuna” replicò. “Io sono fiorentino da generazioni e la
mia famiglia è da sempre una colonna portante di Firenze. Come potrei
ricominciare da capo in una città diversa? Forse Ormanno potrebbe, ma non io.”
“E allora fatelo per
vostro figlio!” riprese Giovanni, sperando che l’argomento relativo al futuro
di Ormanno fosse più convincente. “Cosa credete che sia meglio per lui, vedere
suo padre giustiziato o farsi una nuova vita altrove, come hanno fatto i miei
fratelli?”
“Se io muoio, Ormanno
non dovrà subire alcuna conseguenza. Lui non era coinvolto nel mio tentativo di
impadronirmi della Signoria e, anzi, ha tentato di dissuadermi. La mia colpa
morirà con me e la famiglia Albizzi potrà riprendere il posto che le spetta a Firenze
proprio grazie a mio figlio” ribatté Rinaldo che, a quanto pare, stava
cominciando ad affezionarsi all’idea di fare la figura del martire, di colui che muore impavido per il bene della sua famiglia
e altre stronzate cavalleresche del genere.
Giovanni, però,
queste storie non voleva nemmeno ascoltarle.
“Siete più cocciuto
di un mulo!” gridò, esasperato. “Voi e la vostra fissazione di fare l’eroe! Possibile che non capiate
la cosa più semplice del mondo? Dall’esilio si può sempre tornare, in un modo o
nell’altro, Messer Cosimo ci è riuscito, come avete visto. Una volta che uno è
morto, invece, non ritorna più!”
Rinaldo rimase
colpito, non tanto dalle parole, quanto dall’accento disperato che colse nella
voce del ragazzino. Giovanni teneva dunque così tanto a lui? Era così affranto
all’idea che gli accadesse qualcosa? Sembrò comprendere che nel cuore del
giovane Uberti c’era molto di più di quanto volesse ammettere e decise perciò
di mostrarsi conciliante, pur restando fermo sulle sue posizioni. Sedette più
vicino al ragazzo e lo prese per le spalle, avvicinandolo a sé.
“Adesso ti farò una
domanda ben precisa, Giovanni, e voglio che tu mi risponda sinceramente, siamo
intesi?” gli disse, fissandolo negli occhi.
Il ragazzo annuì,
confuso.
“Tu sei tornato a Firenze
per riabilitare il nome della tua famiglia e, soprattutto, quello dei tuoi
antenati Farinata e Neri degli Uberti. Ebbene, loro sono stati esiliati e tu
sai bene quanto ciò li abbia fatti soffrire, quanto disperatamente essi abbiano
tentato di ottenere il permesso di rientrare nella loro città. Non è forse
così?”
Giovanni annuì di
nuovo, ma nei suoi occhi comparve un’ombra dolorosa che non sfuggì ad Albizzi.
Il ragazzino cominciava a capire dove l’uomo volesse andare a parare con quel
suo discorso e la cosa non gli piaceva per niente; dal canto suo, Rinaldo
sapeva bene che ciò che stava per dire avrebbe ferito Giovanni, ma non poteva
farne a meno.
“Se Farinata degli
Uberti fosse qui, adesso, al mio posto, credi che sceglierebbe mai l’esilio di
sua volontà? E tu avresti il coraggio di insistere con lui perché firmasse un
documento che lo condannerebbe ad un esilio perpetuo, sapendo quanto ciò è
costato a lui e a tutta la vostra famiglia?” riprese Albizzi, stringendo più
forte le spalle del ragazzo. Era consapevole di dargli un dolore. “Te lo
ripeto: Farinata degli Uberti avrebbe mai scelto di firmare quel documento,
condannandosi da solo all’esilio da Firenze?”
Ora gli occhi del
ragazzo erano colmi di lacrime e lui si mordeva il labbro inferiore per impedire
che scendessero… ma non poté mentire: lui sapeva bene che cosa avrebbe scelto
il suo antenato tanto amato e ammirato.
“No” ammise con un
sospiro, “Farinata degli Uberti non si sarebbe mai piegato a firmare quel
documento…”
“E allora perché vuoi
che lo faccia io?” insisté Rinaldo, questa volta sommessamente, quasi con
dolcezza, avvicinandosi sempre di più a lui. “Perché vuoi che io compia un atto
di codardia che il tuo antenato non avrebbe mai compiuto? Mi ritieni dunque così
tanto inferiore al grande Farinata?”
“No, no, non è
questo” protestò Giovanni, rendendosi conto di essere stato sconfitto su tutta
la linea. “Non vi ritengo inferiore a lui e non voglio che vi sentiate un
codardo, è solo che io… io non voglio che… non posso nemmeno pensarci…”
“Allora non chiedermi
più di fare qualcosa che andrebbe contro tutto ciò in cui credo” concluse
l’uomo, interrompendo Giovanni prima che dicesse qualcosa di troppo. “Tu più di
chiunque altro dovresti capire cosa significa per me.”
Il ragazzino chinò il
capo, straziato. Allora Albizzi lo prese tra le braccia e lo baciò, questa
volta non con la foga avida della sera precedente, ma con la dolcezza
struggente di un ultimo saluto. Lo baciò come non aveva mai fatto prima, godendosi
ogni istante del contatto tenero e caldo con le labbra e con il corpo di
Giovanni. Lo distese sul letto e si mise sopra di lui, sempre baciandolo, lo
prese con lentezza e appassionata dolcezza, consapevole che quelli erano
probabilmente gli ultimi momenti di serenità e tenerezza che poteva concedersi
(e per fortuna i carcerieri, in quella prigione, si facevano i fatti loro e si
preoccupavano solo che il prigioniero fosse chiuso a chiave!). Giovanni,
stordito e turbato da quell’assalto amoroso che, decisamente, non si aspettava
in un contesto del genere, dimenticò ben presto dove si trovava e si abbandonò
completamente a quel piacere che non aveva ancora capito, ma che travolgeva e
confondeva tutti i suoi sensi.
Alla fine di tutto,
ancora particolarmente sbalordito da quanto era appena successo in quella
cella, Giovanni poté solo raccogliere il documento che, nel frattempo, era
finito sul pavimento della prigione e rivolgere un ultimo sguardo pieno di
disperazione a Rinaldo.
“Non firmerò quel
documento, Giovanni, e tu non hai il diritto di chiedermelo ancora” ribadì
l’uomo, scompigliandogli i capelli con un gesto affettuoso. “Però ti ringrazio
per esserti preso tanto a cuore la mia causa, nessuno si era mai preoccupato
così per me. Sono felice di averti conosciuto.”
Quel discorso sapeva
tanto di addio e Giovanni non poteva sopportarlo. Rinaldo lo abbracciò e baciò
ancora una volta, tanto per incoraggiamento, poi lo lasciò andare.
Il giovane Uberti
avrebbe voluto piangere, disperarsi, tentare ancora di convincere l’uomo… ma
poi comprese che non era quella la strada giusta, che c’erano ancora dei modi
per salvare Albizzi e lui doveva trovarli prima che fosse troppo tardi.
Sulla porta della
cella si voltò a guardare Rinaldo, questa volta con espressione fiera e
combattiva.
“Non vi chiederò più
di firmare questo documento, Messer Albizzi, ma sappiate che non smetterò di
lottare per voi” dichiarò. “Non avrò pace finché non vi avrò liberato da questa
cella e non saprò che la vostra vita non è più in pericolo.”
“Che cosa farai,
ragazzino, rovescerai la Signoria?” fece scherzosamente l’uomo.
“Anche, se occorre,
ma state certo che io vi salverò.
Tenete bene a mente queste mie parole” concluse Giovanni.
Albizzi lo guardò
uscire dalla cella e lo seguì con lo sguardo finché poté, senza nemmeno vedere
il carceriere che, nel frattempo, era accorso per richiudere la porta a chiave.
Che intenzioni aveva Giovanni? Non si sarebbe messo nei guai per lui, vero?
Vero?
Rovesciare la
Signoria pur di salvarlo, che idea… lui ci aveva provato e bel risultato aveva ottenuto!
Non voleva che anche Giovanni rischiasse il patibolo. Beh, ma chi ci riusciva a
far ragionare quel ragazzino incosciente e spavaldo? Un vero, piccolo, nobile e
valoroso Uberti…
Giovanni uscì dal
Palazzo della Signoria tutto immerso nei suoi pensieri e nei suoi piani.
Avrebbe trovato al più presto un modo per liberare Messer Albizzi da quella
cella, ne era sicuro, non avrebbe mai lasciato che lo giustiziassero. Forse
Messer Cosimo poteva insistere per l’esilio anche se Rinaldo non aveva firmato
il documento, forse…
I pensieri del
ragazzo furono interrotti da un brusco risveglio: qualcuno lo afferrò rudemente
per il polso, gli torse il braccio dietro la schiena e gli strappò il documento
che teneva in mano. Giovanni, stupito, lanciò un grido e solo dopo si accorse
che l’autore di quel gesto meschino era Andrea Pazzi (e chi altri poteva essere
tanto bastardo da aggredire per strada un ragazzino?).
“Voi!” sibilò, con
gli occhi che lanciavano fiamme. “Ridatemi immediatamente quel foglio, non vi
appartiene!”
“Ah, interessante”
disse Pazzi, scorrendo il documento. “Con questo, Rinaldo Albizzi giura di
restare in esilio e in pace e in cambio chiede salva la vita… Vedo che c’è
anche la firma di Sua Santità, ma Albizzi non l’ha firmato, a quanto pare.”
“Cosa ve ne importa a
voi? Ridatemi immediatamente quel documento” esclamò inviperito Giovanni.
“Adesso siete anche un ladro oltre che un traditore, un bugiardo e uno
spergiuro? Complimenti!”
“Se Rinaldo non ha
accettato questo accordo così generoso è perché, con tutta evidenza, non vuole
affatto restare in pace, la sua intenzione è davvero quella di mettere insieme
un nuovo esercito e attaccare Firenze” riprese l’uomo, ignorando le accuse di
Giovanni. “Molto bene, è giusto che il Gonfaloniere e tutta la Signoria siano
informati dei loschi piani di Rinaldo Albizzi.”
“Come osate dire una
cosa simile, quando tutta questa storia non è che un vostro sporco intrigo per
impadronirvi del seggio di Messer Albizzi alla Signoria?” reagì il ragazzino
che, se non avesse avuto il braccio bloccato, avrebbe volentieri cavato gli
occhi a Andrea Pazzi.
“Sei astuto, giovane
Uberti, intelligente e presuntuoso come tutta la tua famiglia” replicò Pazzi in
tono mellifluo. “Hai capito tutto molto prima degli altri, ma non potrai farci
niente. A chi pensi che crederà il Gonfaloniere, a un vecchio amico come me o a
un ragazzino insolente, polemico e spocchioso che discende da una famiglia in
disgrazia?”
“La mia famiglia è in
disgrazia solo per colpa dei vostri antenati, che erano meschini e malfattori
come voi!” protestò Giovanni, oltraggiato e infuriato. “Ma non vi illudete,
questa volta non ingannerete nessuno: io riuscirò a far assolvere Messer
Albizzi e a riabilitare il nome della mia famiglia, mentre voi e tutta la
vostra dannata discendenza finirete in rovina!”
“Quanto fuoco nel
difendere il caro Rinaldo Albizzi… interessante” commentò malignamente l’uomo.
“Beh, la cosa non mi riguarda, è molto più importante che consegni
immediatamente questo documento al Gonfaloniere come prova delle turpi
intenzioni di Albizzi.”
Andrea Pazzi liberò
Giovanni e, ormai padrone del famigerato documento, fece per allontanarsi. Il
ragazzo avrebbe potuto provare a riprenderselo, ma valutò che, con ogni
probabilità, quel subdolo individuo era armato e poi avrebbe potuto denunciarlo
alla Signoria per aggressione e farlo arrestare. Se fosse stato in prigione,
come avrebbe potuto salvare Messer Albizzi? Così si limitò a gridargli dietro
tutta la sua rabbia.
“Andate, andate pure,
tanto quel documento non significa niente e potrei dirvi dove dovreste infilarvelo,
ma sono un nobile signore e non lo farò!” gridò, tanto per sfogarsi. Poi,
sempre più arrabbiato, corse fino a Palazzo Medici in un modo che lo faceva
somigliare molto di più a un monello di strada che al nobile signore che aveva appena dichiarato di essere… e, giunto là,
chiese di poter parlare immediatamente con Cosimo.
Emilia, la serva, gli
disse che era nel suo studio in compagnia della sua schiava (nonché nuova
amante) Maddalena, ma a Giovanni non interessavano i pettegolezzi. Salì le
scale e si precipitò come un piccolo tornado nello studio di Cosimo, lasciando
a bocca aperta il Medici e la schiava che se lo ritrovarono nella stanza
accaldato, con le guance arrossate, i vestiti spiegazzati e i capelli
scompigliati. Sembrava il sopravvissuto a qualche cataclisma…
“Messer Cosimo,
dovete fare qualcosa subito! Quel grandissimo bastardo… scusami, Maddalena, ma
è quello che è… dicevo, quel grandissimo bastardo di Andrea Pazzi mi ha
strappato di mano il documento che Messer Albizzi avrebbe dovuto firmare” disse
tutto d’un fiato. “Ora lo porterà alla Signoria per dimostrare, dice lui, che Messer Albizzi ha cattive
intenzioni contro Firenze e che deve essere giustiziato! Dovete impedirlo,
Messere, io lo so che anche voi volete salvare Messer Albizzi, lo so… vi
prego!”
Cosimo alzò gli occhi
al cielo, sospirò e poi prese la sua decisione.
“E va bene.
Maddalena, lasciaci soli, per favore, io e Giovanni dobbiamo parlare” disse.
Mentre la donna
lasciava la stanza, il Medici si dispose ad ascoltare Giovanni. Il ragazzo non
aveva tutti i torti, in fondo: lui avrebbe voluto veramente aiutare Rinaldo,
anche solo per far pace con la sua coscienza e dimenticare ciò che era avvenuto
vent’anni prima. Inoltre, se nella storia entrava anche Andrea Pazzi, le cose
potevano mettersi molto male. Albizzi era un irresponsabile e una testa calda, ma,
come diceva Papa Eugenio, in fondo era un brav’uomo e ogni sua malefatta era
legata a quel mai sopito rancore per la faccenda di vent’anni prima. Al
contrario, Andrea Pazzi era un disonesto, un traditore e un falso e Cosimo
sapeva bene che, come rivale per il potere, sarebbe stato molto più pericoloso
di Rinaldo.
Giovanni aveva
ragione, era arrivata anche per lui l’ora di agire.
Fine capitolo secondo