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Autore: Shadow writer    25/09/2019    2 recensioni
Forse quando avevo scoperto della scelta di Lee, avevo provato un po’ di rabbia egoista. Rancore all’idea che mi avesse lasciato solo, in un mondo in cui ero abituato a muovermi accompagnato da lui. Avevo capito da tempo che Lee era una persona migliore di me, ma c’era qualcosa di profondo su cui si basava la nostra amicizia. I nostri caratteri non erano opposti, ma complementari, e senza di lui ero rimasto solo uno zoppo senza bastone.
«Che cosa ne sai tu, della morte?» gli chiesi.
[Storia partecipante al Contest "Una macchia di storia" indetto da elli2998 e Inchiostro_nel_Sangue sul forum di EFP]
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IN PACE




Il bosco si ergeva al di là del campo di grano secco che ci separava dai primi alberi. Chiamarlo bosco era eccessivo per quella serie sconnessa di sagome nodose senza foglie, scure contro il cielo argenteo. 
Lee avanzava nascosto dalla vita in giù nell’erba secca troppo alta, come un naufrago in un mare giallo e appassito. Con quella sua testa rotonda dai capelli corti e il cappotto nero pareva un rettangolo sormontato da una palla da bowling. 
Guardai il cielo rannuvolato. Sapevo che Lee era venuto a prendermi quella mattina alle nove, ma sarebbe stato difficile dire che ore fossero in quel momento.
Si voltò a guardarmi e mi fece cenno di seguirlo. Con le mani cacciate nella giacca di jeans, mi infilai nel campo, controvoglia, ma glielo dovevo. Tirava un vento gelido che mi batteva senza sosta sulla nuca nuda. Ero stato un idiota a vestirmi così leggero, ma tanto, che importanza aveva?
«Tutto bene?» mi domandò Lee quando lo raggiunsi. I suoi occhi grandi e scuri, immutati dall’infanzia, mi scrutavano con apprensione.
Feci un cenno di assenso e riprendemmo il nostro cammino verso il bosco.
«Non ti ricordavo così silenzioso» commentò lui quando raggiungemmo i primi alberi. Dalla piega delle sue labbra capii che stava scherzando. O almeno ci provava. 
Intorno a noi, l’unico rumore erano gli scricchiolii degli alberi e il vento che sibilava tra le fronde protese verso il cielo.
«Sì, scusa, è ancora tutto così strano per me» replicai.
«Sono passati tre anni».
Lee era sempre stato una persona mite. Poco incline allo scontro e men che meno al litigio, non aveva mai azzardato una parola che potesse essere anche lontanamente offensiva. Eppure, in quel momento, aveva una mansuetudine quasi remissiva. Non poteva essere più privo di malizia.
Riprendemmo a camminare prima che potessi pensare ad una risposta. 
Gli alberi intorno erano troppo nudi e troppo rinsecchiti per offrire una qualche protezione da quell’aria fredda che si accaniva su di noi. Lee pareva non curarsene, protetto dal capotto e dalla voluminosa sciarpa che portava al collo.
Si era presentato quella mattina nel salotto di casa mia e aveva detto che doveva mostrarmi una cosa.
Così, candido come un bambino.
I miei genitori lo avevano fatto entrare perché, insomma, era Lee e noi eravamo amici fin dalla culla. 
Non aveva fatto un accenno a quegli anni silenziosi, alle telefonate senza risposta, al fatto che fossi stato probabilmente il peggior amico del mondo e senza ombra di dubbio un grande stronzo. 
Guardandomi allo specchio ogni mattina, mi ero dimenticato che tipo di persona fosse Lee e quanto diverso fosse da me.
«Mi hai portato in questo posto abbandonato per uccidermi? Era questa la tua sorpresa?» domandai dopo alcuni minuti di camminata. Stavamo percorrendo quello che appariva come un sentiero, appena accennato tra la polvere e le sterpaglie, ma il paesaggio circostante rimaneva immutato. Giallo, grigio e nero.
Lee mi rivolse uno sguardo di ammonimento, che era la cosa più vicina all’infastidito di cui fosse capace.
«Hai paura?» mi chiese.
Serrai le labbra, senza rispondere e Lee parve intuire la mia risposta. Non stavamo più parlando del bosco.
Mi scrutò ancora, con quei suoi strani occhi così infantili e così penetranti allo stesso tempo, e si accorse che stavo tremando.
«Buon Dio, perché non hai messo una giacca più calda?» commentò, scoccando un’occhiata a quello che indossavo.
Alzai gli occhi al cielo: «Perché non mi hai detto dove saremmo andati.»
Quando avevo visto Lee nel mio salotto, ero rimasto stranito. Insomma, mi aveva chiamato la sera precedente per chiedermi se fossi stato libero, ma la conversazione era stata così surreale che credevo di essermela sognata. Guardandolo, fermo tra il divano e la poltrona, con il cappotto ancora addosso, ero certo che mi avrebbe detto quello che dicono tutti: che gli dispiaceva e che ci sarebbe stato per qualsiasi cosa. Invece mi aveva guardato, con quel sorriso caldo che ricordavo dalla mia adolescenza, dalle estati trascorse pedalando per la città e gli inverni a giocare a carte nel mio seminterrato, e mi aveva semplicemente chiesto di seguirlo.
Fece un passo verso di me, cominciando a svolgere la sciarpa che portava al collo.
«Non è necessario» tentai, ma lui mi zittì subito: «Smettila di essere il testardo te per un secondo.»
Quando mi avvicinai per prendere la sciarpa che mi tendeva, lo sguardo mi cadde sul collare bianco che spuntava dal cappotto e involontariamente mi irrigidii.
Lee intuì immediatamente la direzione dei miei occhi e sorrise: «Sapevi che ero un prete anche prima di vederlo.»
Presi la sciarpa e me la misi al collo con falsa disinvoltura: «Te l’ho detto, è ancora strano per me.»
Lee mi sorrise e fece cenno di continuare a camminare mentre parlavamo.
«Mi rendo conto che sia stata una novità inaspettata per te» disse, «ma non capisco perché la cosa ti abbia sconvolto così tanto.»
La verità, avrei voluto dirgli, era che non lo sapevo neanche io. Lee aveva un anno meno di me, così, quando ero partito per il college, ci eravamo involontariamente allontanati.
Non mi sarei mai aspettato, una volta tornato a casa, che il mio migliore amico fosse partito per il seminario. Senza dirmi nulla. 
Insomma, lui aveva provato a chiamarmi qualche volta, ma, scoperta la sua scelta, non avevo mai risposto ad una di quelle chiamate.
Ancora non so perché. Forse mi sentivo tradito, forse dentro di me credevo che Lee mi avrebbe raggiunto al college, forse mi vergognavo con me stesso per non aver capito prima, per non aver colto i segni anzi tempo, sempre che ce ne fossero stati.
La domanda di Lee rimase sospesa nel vuoto e lui non si preoccupò di ripeterla.
«Sai cosa sono questi alberi?» continuò, indicandomi le forme contorte che incombevano su di noi.
Scossi il capo: «Ho studiato musica, Lee, non botanica.»
Lui sorrise: «Sono querce. Riesci a immaginarti quanto possano essere maestose nella loro stagione più rigogliosa?»
Esitai un istante e lui colse subito la mia espressione.
«So che sei impaziente, non manca molto ormai.»
Il sentiero su cui camminavamo si stava facendo più marcato e potevo riconoscere che altre persone, prima di noi erano passate di qui.
Proprio quando lo spazio intorno a noi stava cominciando a farsi più rassicurante, scorsi una grande croce nera conficcata tra le querce.
«Davvero, Lee, dove diavolo mi stai portando?» 
Lui notò che guardavo la croce e il suo volto corrucciato si distese: «Curiosa scelta di parole. Sono solo i resti di un vecchio cimitero di monaci. Ora si sono trasferiti qualche miglio più in là.»
«Dio, se volevi rassicurarmi non ci sei riuscito».
Lui rise sommessamente e mi lanciò un’occhiata rapida. Per un istante mi parve di scorgere il mio vecchio amico, quello con cui andavo al cinema e con cui parlavo delle ragazze più belle dalla scuola.
Il mio viso dovette farsi triste, perché disse: «So che hai paura.»
La forza del suo sguardo quasi mi faceva male. «È naturale. Come quando si viene al mondo, morendo abbiamo paura dell’ignoto.» 
Presi un respiro profondo. Finalmente l’aveva nominata. La mia morte. Lee non avevano usato i giri di parole e gli abbellimenti retorici che piacciono tanto agli altri. Lee sapeva che io stavo morendo e che avevo paura. Dio, me la stavo facendo sotto e lui riusciva ad annusare il mio terrore come un lupo selvaggio.
«La paura è qualcosa di interiore e non ha nulla a che vedere con la realtà.»
«Per quale sermone l’hai scritta questa?» ribattei sarcastico. Era più forte di me, nascondermi dietro alla barriera dell’ironia quando le cose si facevano troppo pericolose per la mia stabilità emotiva.
«L’ha scritta la mia mente pensando a te» continuò Lee. 
Dio, avrei voluto strappargli quel sorriso pacifico dal volto e gridargli che no, la paura non era interiore, ma una belva che mi inseguiva giorno e notte, fin troppo reale per chi doveva conviverci.
Eppure, fissando i miei occhi in quei suoi laghi neri, qualcosa dentro di me si placò. Fu come un vento che si arresta all’improvviso e, senza spiegazione e senza motivo, lascia ogni cosa immobile, in pace.
Forse quando avevo scoperto della scelta di Lee, avevo provato un po’ di rabbia egoista. Rancore all’idea che mi avesse lasciato solo, in un mondo in cui ero abituato a muovermi accompagnato da lui. Avevo capito da tempo che Lee era una persona migliore di me, ma c’era qualcosa di profondo su cui si basava la nostra amicizia. I nostri caratteri non erano opposti, ma complementari, e senza di lui ero rimasto solo uno zoppo senza bastone.
«Che cosa ne sai tu, della morte?» gli chiesi.
Sentivo il dolore che trasudava dal mio volto, deformandomi i lineamenti. Ero stato forte per i miei genitori, per i miei amici, per le persone che scoppiavano a piangere non appena davo loro l’infausta notizia. Ma non avevo bisogno di nascondermi davanti a Lee.
«Morire è come nascere» mi rispose lui, pacato. «È solo un cambiamento. Vieni, siamo arrivati.»
Presi un respiro profondo e lo seguii al di là di una serie più fitta di querce. Non appena le superammo, davanti a noi si aprì una radura che mi lasciò senza fiato.
Ritto, in mezzo a quel buco nel bosco, c’era il muro di una vecchia abbazia. Si intravedeva l’inizio di un arco a sesto acuto, ormai quasi del tutto crollato, e dell’alta finestra gotica sopravviveva solo il sostegno in metallo, privo dei vetri colorati.
Tutt’intorno, nella radura, si vedevano altre croci nere di diverse dimensioni.
Non eravamo soli, ma sotto a quei resti erano affollati alcuni uomini con addosso lunghe tuniche scure.
«Vorrei darti una spiegazione per tutto il dolore che porti dentro» cominciò Lee, fermandosi sul bordo della radura per voltarsi verso di me, «ma non ne sono capace. Mentirei a entrambi se solo ci provassi. Quello che so, è che ogni cambiamento fa paura, ma la sofferenza passerà, se è vero che la transitorietà è l’essenza di questa vita.»
Fece una pausa e lanciò uno sguardo al muro diroccato. Eravamo troppo distanti per capire cosa stessero facendo quegli uomini.
«Guarda quella parete. Una volta era un’abbazia, ora ne è solo una debole macchia. La cosa ironica è che aveva una cappella troppo piccola per suonare, ma quel muro, quell’unico rimasto in piedi, fornisce un’acustica perfetta. Non esiste sala di registrazione in tutta la contea che abbia un’acustica naturale migliore di quella.»
Lee riprese a camminare e lo seguii a ruota, come una calamita.
Mentre ci avvicinavamo, cominciai a capire che gli uomini dalla veste scura erano religiosi e alcuni di loro portavano uno strumento musicale. 
Distinsi una viola, un’armonica, un flauto e una chitarra.
Guardai Lee, che mi stava rivolgendo un sorriso incerto. Capii che quel posto aveva un significato importante per lui e che credeva ne avrebbe avuto uno anche per me.
Prendemmo posto sull’erba, accanto ad altri uomini che si erano già seduti e i quattro musicisti si posero davanti a noi. Nessuno di loro badò alla nostra presenza.
Non appena cominciarono a suonare, il mio cuore saltò un battito. La musica risuonava in tutta la radura, elevandosi tra il silenzio degli alberi e facendo vibrare l’erba secca. L’alta parete, alle spalle dei suonatori, riversava quelle onde sonore verso di noi e le dolci note ci avvolgevano, vive come scintille. 
La musica penetrò prima nel mio cuore e poi corse alla mia testa, travolgendo e annientando il mio raziocinio. In un istante dimenticai tutto: gli anni senza Lee, la rabbia che avevo dentro, la malattia che mi mangiava giorno dopo giorno.
La musica cancellò ogni paura e ogni dolore e mi fasciò con la sua grazia e la sua bellezza. Disimparai di essere un uomo, di essere mortale e mi credetti eterno, in quell’istante che sembrava destinato a durare per sempre.
Mi voltai verso Lee e i suoi occhi un po’ fanciulleschi un po’ saggi mi sorrisero.
Ero in pace.
 
 
 
 

 
   
 
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