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Seguii la donna fino allo sportello bancomat e aspettai che prelevasse.
La
osservai dall'altro lato della strada e la guardai fisso: ormai era un
gioco da
ragazzi. Sette-Quattro-Undici-Otto.
La
gente ha metodi strani per ricordarsi le cose. Avevo letto la mente di
tantissime persone in quei mesi e avevo scoperto che anche cinque
numeri
semplici come quelli del pin di un bancomat, hanno tanti modi di essere
ricordati: chi li raggruppava a gruppi di due numeri più uno
singolo, chi li
divideva in uno da tre e uno da due, chi a caso, come questa donna
elegante, e
chi si ricordava i cinque numeri distintamente. Tutti, però
lo pensavano mentre
lo digitavano. Tutti. Era questa la mia fortuna.
Riuscivo
a leggere nel pensiero della gente. Non era tanto che avevo scoperto di
riuscirci. Mi bastava guardare qualcuno, concentrarmi e riuscivo a
percepire i
suoi pensieri. Con il passare del tempo ci avevo preso la mano e avevo
capito
come riuscirci per quello che mi interessava e ricavarci qualcosa.
La
gente faceva i pensieri più strani. Davvero, nessuno pensava
che qualcuno
avrebbe potuto sentirli. Qualcuno come me.
Ho
sempre auto paura di incontrare una persona capace di fare quello che
sapevo
fare io. Qualcuno in grado di leggere i miei pensieri, così
se beccavo qualcuno
che mi fissava, e a dir la verità era una cosa che mi
capitava spesso, recitavo
la poesia che ho imparato alle elementari, quella sulla figlia del
poeta che
giocava con la palla e prima di arrivare in fondo alla prima strofa,
pensavo
urlando: 'Brutto bastardo!' e lo osservavo
per vedere se sul suo
volto c'era stupore.
Come?
È una cosa da scemi? Può essere. Ma ho sempre
voluto essere sicuro. Quindi: o
non ho mai incontrato qualcuno come me oppure fingeva molto bene.
Quando
la donna si staccò dal bancomat, attraversai la strada
velocemente per andarle
incontro. Mentre lei si girava, la urtai contro la spalla e il suo
braccio si
spostò, stringendo forte il contante, che pensò
le volessi rubare. Le sorrisi,
nonostante l'occhiataccia che mi lanciò, perché
tanto c'ero abituato.
"Mi
scusi" dissi, fingendomi dispiaciuto. Lei annuì e strinse
gli occhi.
Conoscevo quel genere di persone. Si sentivano migliori di tutti.
Migliori di
me, specialmente. Mi toccai la fronte con la punta di un guanto e dissi
ancora:
"Buongiorno".
La
sua bocca divenne una linea piegata, brutta, odiosa. "Buonasera" mi
corresse, pensando subito dopo: 'Pezzente'. Ero
abituato anche a questo
e, infatti, non mossi un muscolo. "A lei" risposi sorridendo e
girandomi per andarmene.
Toccai
in tasca il bancomat. Un'altra donna che si sarebbe accorta di aver
lasciato il
bancomat allo sportello.
Mi
diressi in fretta verso la mia banca preferita per prelevare il denaro
altrui.
Digitai il pin che avevo spiato e prelevai il possibile. Intascai i
duecento, mi
incamminai verso il centro città e quando passai vicino alla
banca di prima,
infilai il bancomat nella fessura e aspettai che lo sportello se lo
rimangiasse.
Guardai
il cielo e sospirai quando infilai le mani nella tasca della felpa. Era
una
bella serata, fondamentalmente. Qualche ora e avrebbe fatto freddo, non
era più
inverno inoltrato ma le nottate non erano ancora neanche tiepide.
Andai
verso il fast food più vicino, deciso a cenare. Sulla
soglia, una giovane donna
con in braccio un bambino chiedeva l'elemosina. La degnai appena di uno
sguardo
ed entrai nel locale. In cassa ordinai due Hamburger, delle patatine,
del
fritto e una birra in bottiglia. Con il vassoio in mano, camminai verso
uno dei
tavoli che davano sulla vetrata, mi sedetti, mi tolsi i guanti e
scartai il
primo panino.
Fuori
c'era buio, ora. Guardai il cielo e sospirai, bevendo direttamente
dalla
bottiglia.
Sono
sempre stato solo. Da ragazzino avevo avuto una famiglia, ma per lo
più ero
cresciuto per strada. Mio padre lavorava tutti i giorni, tutto il
giorno,
tornava a casa solo per urlare dietro a mia madre, cenare, ubriacarsi e
crollare a letto. Mia madre piangeva quando mio padre era a casa e
stava zitta
tutto il tempo quando non c'era. Mio fratello maggiore se n'era andato
da così
tanto che non lo avrei riconosciuto neanche se si fosse presentato a
casa mia.
Quando
compii diciassette anni avevo troppa poca voglia di studiare e troppa
di
mettermi nei casini per continuare a vivere con i miei, così
me ne andai.
Dormii un po' da tizio e un po' da caio, ma presto, tutti mi fecero
capire che
fosse il caso di levar le tende.
Vivevo
un po' per strada, un po' nei rifugi, un po' dove capitava. In quegli
otto anni
da solo avevo vissuto facendo piccoli lavoretti e rubacchiando.
Soprattutto
rubacchiando. Poi scoprii il mio dono. Era stato un caso. Non avevo
capito
subito.
Stavo
guardando una ragazza, una bella ragazza a dir la verità,
seduta su una
panchina del centro commerciale che mandava messaggi con il cellulare.
Io la
guardavo e lei leggeva i messaggi che arrivavano dalla sua amica
Daniela. E
sapevo quello che le rispondeva perché lo pensava mentre
scriveva.
Mi
chiesi come mai lei parlasse così ad alta voce di tutti i
fatti suoi, quando un
ragazzo le si avvicinò e tentò di rimorchiarla.
Riuscii a sentire benissimo
tutto quello che lei diceva a lui e anche quello che invece pensava
veramente.
Era stata una rivelazione.
"No,
mi spiace, ho già un ragazzo" disse.
'Non
ho nessuna intenzione di uscire con te, idiota'
pensò, invece.
"Frequento
l'ultimo anno al Linguistico" disse ancora, mentre pensava subito
dopo: 'Ho diciassette anni e sono stata bocciata due
volte, ma tanto
non lo scoprirai mai' quando capii che le sue labbra
non si muovevano
quando io sentivo i suoi pensieri, feci due più due.
Poi
feci altri esperimenti. Provai a non guardare qualcuno per vedere se
erano gli
occhi che mi permettevano di leggere nella mente o cosa e scoprii di
essere in
grado di farlo anche solo toccando qualcuno o andandoci contro. Potevo
essere
molto vicino o toccargli una spalla o, ancora, guardandolo.
Logicamente,
guardare da lontano era l'ideale se si voleva fregare una persona, ma
era molto
più stancante.
Una
volta provai a curiosare fra i pensieri di un cane, per vedere se
funzionasse
anche con gli animali. Lo accarezzai e mentre lui scodinzolava
silenziosamente,
sentii il suo abbaiare festoso che mi salutava e una strana sensazione
mi si
allargò nel petto, qualcosa che non avevo mai provato:
contentezza. Mi ricordo
che mi allontanai dal cane quasi di slancio: mi ero spaventato. Avevo
sempre
sentito i pensieri delle persone, ma mai delle sensazioni.
Feci
altri esperimenti: se toccavo qualcuno, gli stringevo la mano o
soltanto
sfioravo la sua pelle, potevo sentire cosa provava. Se il sentimento
era forte,
lo percepivo anch'io nella sua potenza, come essere contagiati dalla
stessa
malattia, mentre invece, se il sentimento non era così
intenso anch'io lo
percepivo come un piccolo spiffero.
Un
tipo mi passò di fianco con il vassoio e si sedette al
tavolo di fronte al mio.
Mi fece un cenno con il capo, come per salutarmi e iniziò a
mangiare. Lo
guardai distrattamente mentre con un boccone si divorò
metà panino e si pulì
con la manica della maglia che aveva indosso. Disgustato, voltai lo
sguardo.
Quando
mi alzai per buttare i rifiuti e gli passai vicino, notai che guardava
verso
l'entrata del locale: stava guardando la ragazza che chiedeva
l'elemosina.
'Potrei
portarla a casa mia. Sicuramente farà di tutto per un pasto
caldo. Anche
scaldarmi il letto' pensò,
ghignando.
Non
mi importava cosa avrebbe fatto. Non mi interessava sapere cosa dovesse
fare
quella ragazza per mangiare quella sera. La guardai attraverso il
vetro. Non
volevo sentire a cosa pensasse, ma vedevo il suo viso triste. Poi
guardai
ancora l'uomo.
Non
sono fatti tuoi. Non ti interessa. Il
mio mantra tornò
alla carica.
Vuotai
il vassoio nel sacco. Fatti i fatti tuoi.
Appoggiai
il vassoio sugli altri. Voltati dall'altra parte.
Sospirai. Fregatene.
Sospirai
ancora e tornai alla cassa.
Comprai
due panini piccoli, una bottiglietta d'acqua e un succo di frutta. Me
li feci
infilare in un sacchetto, indossai i guanti prima di pagare e mi
avventurai
fuori. Effettivamente stava iniziando a fare freddo. Le allungai il
sacchetto e
lei mi guardò stralunata, poi ci guardò dentro e
sorrise all'interno della
busta, tirando fuori uno dei panini. Prima che io potessi dire
qualsiasi cosa,
lo divorò.
Non
mi fece ribrezzo come immaginai, nonostante mi disse 'grazie' con la
bocca
piena. Feci un passo per andarmene quando la vidi spostare il bambino.
Sospirai
ancora. Non sono...
Misi
a tacere il mio mantra e le dissi: "Vieni con me".
La
ragazza spalancò gli occhi e scosse la testa. Le allungai
una banconota da
dieci e le dissi ancora: "Vieni con me", ma questa volta mi voltai e
non aspettai la sua risposta.
La
sentii alzarsi e seguirmi. Non rallentai il passo, ma controllai spesso
che
continuasse a essere dietro di me. Quando aprii la porta del rifugio di
Rosa,
la tenni aperta per farla entrare per prima. Lei entrò e si
fermò nell'atrio dove
Rosa, la responsabile, le sorrise.
"Cara,
mi spiace, ma non abbiamo più posti. Puoi provare..." Rosa
si interruppe
quando mi vide. Mi fece un cenno che stava a significare "Lei
è con
te?" e io annuii. La donna sulla sessantina si
avvicinò di più a
noi e mise una mano sulla spalla della ragazza, guardando il bambino
addormentato. "Ti troveremo un posto, allora. Vieni..."
La
ragazza si voltò verso di me, mi salutò e mi
ringraziò. Ma non aprì mai la
bocca, se non per rispondere alla mia amica Rosa.
"Ciao,
mi fa piacere vederti. Come stai?" mi chiese quando tornò,
da sola.
"Sto" risposi io, alzando le spalle.
Rosa
si era occupata di me, molto più di quanto aveva fatto la
mia vera madre. Dopo
cinque minuti di chiacchiere, mi girai per andarmene. "Sei un bravo
ragazzo,
stai lontano dai guai" mi salutò lei.
"Sono
loro che mi vengono a cercare, lo sai" risposi, come sempre. Lei mi
lanciò
un'occhiataccia affettuosa e un sorriso le disegnò le
labbra. La stavo ancora
guardando quando qualcuno mi urtò, entrando di corsa nel
rifugio.
Una
strana sensazione si impossessò di me. Un misto di
inquietudine e di terrore,
come quando vidi di nascosto il mio primo film horror, da ragazzino.
Sorpreso,
tornai verso Rosa e la persona che era entrata. Era una
ragazza,
pressappoco della mia età.
"I
miei guanti! Ho lasciato qui i miei guanti, li avete trovati?"
esclamò. La
osservai bene, per capire chi potesse mai essere da avere
così tanta paura.
Rosa le rispose che non avevano trovato niente e sentii i suoi pensieri
urlare
di dolore. Non mi era mai successo. Lei stava urlando. Nella sua mente.
Non
doveva essere tutta a posto.
"Mi
spiace, Cassandra, non abbiamo trovato i tuoi guanti..." Mi avvicinai
ancora. La ragazza era in stato confusionale, l'avrei capito anche
senza
leggerle i pensieri.
"I
miei guanti..." Ora era sconsolata. Sentii il vuoto e un bruttissimo
senso
di impotenza. Mi sentivo solo e per un attimo il buio mi
circondò, avvolgendomi
a spirale. Dovetti fare uno sforzo tremendo per non cadere per terra.
Mi
sentivo esausto. Ma... chi era quella ragazza? E come faceva a
sopportare tutto
questo?
"Cassandra,
sei andata in ospedale? Ti sei fatta dare le medicine..." Rosa venne
interrotta dalla ragazza che si infuriò: "Non sono malata!
Non prenderò le
medicine!"
Preoccupato
per tutte e due, cercai di mettermi in mezzo per dividerle, ma quando
allungai
un braccio verso la mano della ragazza lei gridò: "Non
toccarmi!"
Mi
immobilizzai da quello che pensò subito dopo: 'Ti
prego, non toccarmi.
Ti prego, non lo fare'.
Era
una supplica e io non avevo mai alzato le mani su una donna. Mai. La
mia mano
si fermò a mezza via e dissi, stupito: "Non ti tocco.
Scusami, non volevo
spaventarti".
Lei
annuì, poi tornò a parlare a Rosa: "Sono uscita
adesso dall'ospedale, ma
ho bisogno dei miei guanti..." Si passò una mano fra i
capelli biondi e li
scompigliò, sospirando. Le sue mani erano piccole e
pallide. Sentivo
ancora quell'inquietudine che l'artigliava. Dannazione, ero
scombussolato io.
Chissà come stava lei...
Quando
mi passò di nuovo accanto per uscire dal rifugio, mi
lanciò uno sguardo tanto
blu quanto disperato e si allontanò da me. Continuai a
guardarla e mentre
spingeva la porta con la spalla la sentii pensare "Il
ponte. Il
ponte di Mezzo. Mi butto di sotto. E sarà finita questa
storia assurda".
Mi
spaventai. Tante volte sentivo i pensieri di persone a cui era andato
male
qualcosa dire che sarebbero scappati di casa, avrebbero ucciso qualcuno
o si
sarebbero uccisi. Ma mai nessuno con quell'intensità. Mai
nessuno aveva creato
il buio dentro di me. Non avevo mai incontrato qualcuno che pensasse
davvero di
farla finita. Fino a ora.
Salutai
di nuovo Rosa e rincorsi la ragazza. Ma doveva essere stata
velocissima, perché
fuori dal rifugio non la vidi. Mi guardai intorno e la scorsi mentre
camminava
velocemente lungo la strada. Verso il ponte di Mezzo. Sapevo dov'era
quel
ponte, così la rincorsi in mezzo alla gente e alle macchine
per raggiungerla.
Lei
doveva essere molto più in forma di me, perché
riuscì a seminarmi più o meno a
metà strada. Arrivai al ponte, un po' isolato e ormai
deserto a quell'ora e lo
attraversai non sapendo bene se sperare di incontrarla o meno.
Quella
ragazza, Cassandra, mi aveva incuriosito. Era l'unica che mi avesse
scosso, che
mi avesse fatto provare una sensazione così forte anche se
così oscura. Mi
sentivo intrappolato. Continuavo a vedere i suoi occhi, a vedere quello
sguardo
senza speranza che mi fissava, come a volermi accusare. Accusare? E di
cosa
poi? Mica era colpa mia se lei era... Era cosa? Malata? Forse. Rosa
aveva
parlato di medicine. Ma io ero stato vicino a persone malate di mente,
avevo
visto i loro pensieri e le loro sensazioni. Non erano così.
Lei non era malata.
Era... disperata? Forse sì. Sembrava inconsolabile, come se
sapesse che nessuno
avrebbe potuto comprenderla.
Così
fu con gioia e sgomento che la vidi in fondo al ponte, vicino alla
balaustra in
pietra a guardare giù. Mi fermai a osservarla.
'Non
voglio buttarmi, diamine. Non voglio. L'acqua è
così buia e c'è così freddo...
Non... Ma che alternative ho? Tutti mi credono pazza. E se fossi pazza
davvero?
Forse dovrei farlo e smetterla di pensarci. Buttarmi giù e
farla finita...
Forse... O forse potrei andare a parlare con quel dottore al
consultorio... era
l'unico che mi aveva creduto. O magari ha fatto finta... Magari anche
lui...'
Per
la prima volta in vita mia, mi sentii uno spione. Non avrei dovuto
leggerle la
mente, non con pensieri così intimi, ma volevo davvero
aiutarla. Avrei potuto
fare qualcosa per lei? Beh, di sicuro avrei potuto evitare che si
buttasse giù
dal ponte. Feci un passo avanti e parlai.
Fu
un errore. Lei si spaventò della mia presenza,
appoggiò una mano sulla
balaustra e vidi il suo viso deformarsi. Quando le sue dita toccarono
la lastra
di pietra, spalancò la bocca e gli occhi, come se fosse
stata scossa da dentro.
Quando iniziò a tremare, mi spaventai anch'io e la raggiunsi
velocemente. La
presi per le spalle e la staccai dal freddo parapetto.
I
suoi occhi tornarono normali e la sua bocca si richiuse, leggermente,
accostando appena le labbra fra di loro. Rimasi un attimo di troppo a
osservarla. Ma anche lei rimase senza parole per un po' e poi
sussurrò:
"Mi stai toccando".
La
lasciai andare di scatto. Lei non voleva essere toccata. "Scusami"
dissi, facendo un passo indietro. Annuì senza dire niente.
"Non ho i miei
guanti..." disse ancora. Sembrava meno sconvolta di quando era al
rifugio,
ma comunque spaesata.
Scossi
la testa senza capire e le chiesi: "Vuoi i miei?", facendo il gesto
di toglierli. Lei non poteva saperlo, ma quell'offerta era molto di
più di
quello che sembrava. I guanti mi servivano per proteggermi da
ciò che non
riuscivo a controllare. Erano i miei guanti da supereroe. Li chiamavo
così
perché se ero io a scegliere o meno di leggere nella mente
delle persone, le
mie mani non avevano controllo, se toccavano qualcuno, non potevo
evitare di
venire investito da emozioni altrui. I guanti erano l'unico modo per
difendermi. Per isolarmi. Privarmi di tale protezione era un grosso
rischio,
per me.
Lei
scosse la testa mentre li allungavo nella sua direzione e io dissi
ancora:
"Non buttarti, per favore". Sembrava una supplica. Forse lo era.
Cassandra
alzò lo sguardo su di me e, alla luce dei lampioni vidi le
sue guance farsi
rosse. Bene. Se provava vergogna, voleva dire che ci aveva ripensato.
"Non
volevo buttarmi" sostenne, guardando il fiume.
Quasi
risi. L'avevo seguita fin lì e le avevo offerto
ciò che avevo di più caro per
non farle fare una brutta scelta e ora lei negava. Ma andava bene
così. Annuii.
"Bene. Andiamo a prendere un caffè? O un tè?
Qualcosa di caldo?"
Lei
alzò gli occhi su di me e io vidi qualcosa di simile alla
gratitudine. Neanche
ci feci caso, ma lo capii senza sentire i suoi pensieri. "Sei una
persona
gentile" disse Cassandra, incredula, incamminandosi vicino a me lungo
il
ponte.
Scossi
le spalle e, come prima, non cercai di sentire quello che stesse
pensando, ma
camminai pacificamente vicino a lei. Mi sentii in pace. Anche lei
sembrava più
tranquilla.
"Posso
chiederti perché ti servono proprio i tuoi guanti?" le
chiesi. Lei non si
voltò verso di me, ma rispose con un'altra domanda:
"Perché porti i guanti
in aprile?" questa volta sentii io le guance arrossarsi. Mi aveva
beccato.
Io portavo i guanti anche in agosto. Perché non era il
freddo che volevo tenere
fuori.
Ma
questa volta non volevo tenere qualcosa fuori. Qualcosa mi spinse a
raccontarmi, a fidarmi di lei. Di Cassandra. Feci per prenderle la
mano,
scordandomi che lei non volesse essere toccata e quando la sfiorai, lei
indietreggiò con la mano a mezz'aria.
Non
seppi stare zitto e chiesi ancora: "Perché hai paura di
me?"
In
fin dei conti, mi sembrava di averle mostrato di valere la sua fiducia.
Lei
sospirò profondamente e sussurrò: "Non ho paura
di te. Ho paura di quello
che vedo quando tocco le cose, o le persone".
Come?
Mi stupii. Cosa vedeva? "Perché? Cosa vedi?" chiesi ancora.
Possibile? Possibile? Avevo trovato qualcuno che sentiva quello che
sentivo io?
Poteva leggere la mia mente? Pensai una cosa stupidissima che non avrei
mai
detto ad alta voce, solo per capire se potesse farlo. Ne pensai tre o
quattro,
a dir la verità, una più brutta dell'altra e
finii con una proposta sconcia che
anche Rosa mi avrebbe schiaffeggiato se avesse assistito alla scena. Ma
lei,
Cassandra, non si mosse e il suo viso non mutò: non mi aveva
sentito.
Cercai
di non rimanerci male. Ma il mio viso dovette lasciar trapelare quello
che
pensavo, perché lei si morse il labbro inferiore e mi
guardò con tristezza.
"Non mi crederesti".
Mmm.
E chi lo sa, anch'io riuscivo a fare cose per cui non mi avrebbe
creduto
nessuno. "Mettimi alla prova".
Cassandra,
oramai era diventata Cassandra e il suo nome risuonava dentro di me
come le
canzoni di Natale nei negozi a dicembre, fece un passo verso di me e mi
toccò
una mano. A dir la verità, mi toccò il guanto, ma
comunque fu quello che fece:
mi toccò.
"Hai
dato un sacchetto a una ragazza seduta per terra. Hai dato dei soldi a
un tipo
con le mani callose. Hai comprato un giornale. Hai schiacciato il
bottone del
passaggio pedonale a un semaforo. Hai scritto cinque numeri su un
pezzetto di
carta. Aspetta... Hai, per caso, rubato una tessera bancomat?"
Il
suo sopracciglio sinistro si alzò mentre mi faceva quella
domanda e io feci un
passo indietro. Aveva visto tutto. Avevo fatto tutte quelle cose. La
cena alla
ragazza del fast food, l'affitto del mio monolocale a Ernesto,
l'attraversamento di via Rione, il pin di quell'idiota che pensava al
contrario.
Tutte le cose che avevo fatto con i guanti. Il suo sorriso divenne
triste.
"Adesso dirai che sono matta. Perché vedo cose che non fanno
piacere e
nessuno mi crede. Deve essere colpa del mio nome..."
Ero
così stupito che non mi accorsi neanche di leggerle i
pensieri. 'Sei
proprio come tutti gli altri. Peccato'.
"Non
sono come tutti gli altri. Cosa hai visto quando hai toccato la
balaustra, al
ponte?" chiesi. Cassandra spalancò gli occhi "Come hai
fatto..."
Ma
non volevo spiegarglielo, non ancora. "Cosa hai visto? Sei quasi
svenuta,
sei stata... male" sussurrai avvicinandomi.
"Sto
sempre male. Ho visto Vittorio, un uomo che è salito sul
parapetto e si è
buttato nel fiume perché aveva perso il figlio e non
riusciva a gestire il
dolore. Ogni volta che tocco qualcosa, vedo qualcosa che mi fa stare
male.
Sempre. Ho bisogno dei miei guanti per non stare così."
Riuscivo
perfettamente a crederle. E riuscivo anche a capire il problema dei
guanti. Ero
sorpreso, sorpreso e contento per aver trovato una persona come me e
allo
stesso ero preoccupato, perché non mi era piaciuta per
niente quando aveva
toccato la pietra là al ponte.
Però...
Però "Non sei stata male quando hai toccato i miei guanti"
Cassandra
spalancò gli occhi. Probabilmente, presa dal nervoso o
chissà da quale
emozione, non se n'era accorta.
"No,
hai ragione" disse, dopo un po' "di solito sto male anche quando al
bar tocco il bicchiere e scopro che non l'hanno lavato ma sciacquato
sotto
l'acqua corrente".
Cassandra
fece una smorfia e poi incrociò le braccia al petto "E
invece tu come hai
fatto a sapere cosa stavo pensando?" Oh. Giusto.
Lei
stava ancora aspettando. "Penserai che sia matto" .
Sorrisi,
usando le sue stesse parole. Il suo viso si tinse di tenerezza e
sorrise a sua
volta. "Mettimi alla prova".
Risi,
quando disse esattamente quello che avevo detto io.
***
"Così
sei un supereroe..." disse Cassandra giocando con il bicchiere, seduta
sul
divano del mio monolocale.
Le
avevo spiegato tutto, quello che mi succedeva e anche, con vergogna,
quello che
facevo con il mio dono. Lei mi
aveva raccontato
del suo, di dono e di
come lei lo vivesse male. Le
spiegai un po' come facevo io a gestire i pensieri e ci scambiammo
aneddoti,
consigli e pareri. Fu una serata piacevolissima e, per una volta, non
dovetti
sforzarmi di essere quello che non ero.
"Solo
perché leggo nel pensiero?" La guardai di sottecchi, mentre
fingevo di
raccogliere qualcosa da terra. Ero imbarazzato, nessuno mi avrebbe mai
definito
un supereroe.
"Stasera
mi hai salvato, avevo pensato davvero di buttarmi" sussurrò
ancora,
confidandosi con me. Annuii senza dire niente perché lo
sapevo. Ma avevo visto
anche quanto era forte e glielo dissi. Per un po' nessuno
parlò più, ma poi lei
mi disse: "Ok, hai il mio permesso, guarda dentro di me".
Sorrisi
perché era veramente una cosa strana da dire e anche da fare
effettivamente,
ma, visto che avevo il suo permesso, ascoltai i suoi pensieri: 'Posso
toccarti,
adesso?'
Quando
alzai le mani verso di lei, per permetterle di toccarmi, lei le
spostò e posò
le sue piccole mani sulle mie guance. Aspettammo insieme la sua
reazione e
quando chiuse gli occhi un po' mi preoccupai, ma lei si
avvicinò e mi baciò.
"Mi
hai baciato perché dici che ti ho salvato?" le chiesi quando
ci staccammo.
"Ti
ho baciato perché sei il mio supereroe e chi è
che non vorrebbe baciare un
supereroe?"
E
posò di nuovo le labbra sulle mie.