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Autore: Alicat_Barbix    28/09/2019    1 recensioni
John Watson è un qualunque studente di Hogwarts. Ama il quidditich, teme la McGonagall, odia i Serpeverde. O almeno, così pensava. Ma John Watson è molto di più di questo. Strani sogni costellano le sue notti. Sogni a cui non riesce a dare spiegazione. La vita di John Watson sta per essere travolta dall'ondata ineluttabile del suo passato, un passato che a malapena ricorda ma che ha cambiato per sempre la sua vita. E poi... Sherlock Holmes. Sherlock Holmes che è insolente, arrogante, pieno di sé e più fragile di quanto John Watson pensi.
Genere: Angst, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO TRE
 
​Erano trascorsi circa dieci giorni da quella mattina e la vita di John in quanto studente di Hogwarts era andata avanti senza intoppi. Gli allenamenti di quidditch erano ripresi e lui e Greg non facevano che parlare della futura formazione per il Torneo, a differenza della maggior parte degli altri studenti, che invece si riempiva la bocca della vicina competizione del Torneo Tremaghi.
“Ho deciso.” esclamò un giorno Greg a colazione. “Ho intenzione di iscrivermi anche io.”
John se n’era uscito con una mezza risata. “Scusa se te lo dico, ma non credo tu abbia la minima speranza.”
Molly, dal canto suo, si era stretta al braccio di Lestrade, scuotendo forsennatamente la testa. “Non essere ridicolo! Il Torneo Tremaghi è troppo pericoloso!”
“Non se sei un mago dotato delle mie abilità.” la contradisse il ragazzo.
“Credo che il problema siano proprio le tue abilità, invece.”
I tre Grifondoro si voltarono all’unisono e gli occhi di tutti incontrarono lo sguardo di Sherlock, in piedi accanto alla loro tavolata con le mani affondate nelle tasche e un’espressione sogghignante dipinta in volto. John udì a malapena la risposta infervorata di un Greg colpito nel proprio orgoglio, troppo impegnato a studiare la figura del suo… amico immobile e fottutamente sicura di sé. Non lo vedeva da… circa una settimana, un tempo considerevolmente lungo se si considerava la loro presunta amicizia, ma ragionevolmente breve se invece si teneva conto che era sempre di Sherlock Holmes che si stava parlando. Sette giorni e quel tipetto spocchioso si era fatto ancora più bello – oggettivamente parlando, s’intende.
“John? John, mi stai ascoltando?”
Il ragazzo si volse in direzione di Lestrade, intento a fissarlo con un broncio a metà tra il ferito e l’indignato. “Cosa?”
“Ti ho chiesto se anche tu pensi che le mie abilità siano mediocri.”
“N-no, io…”
“Visto che mi dispiacerebbe oltremodo che tu mentissi a causa di una mia osservazione – ovviamente vera, s’intende – ti dispiace se mi accompagni fuori?”
“Io?” fece John indicandosi, come in trance.
“No, John, quell’insulso secchione Corvonero dell’ultimo anno alle tue spalle… Sì, proprio tu! Sbrigati.”
“Veramente io…”
Ma Sherlock non gli diede modo di ribattere, perché gli ghermì il polso trascinandoselo dietro, fuori dalla Sala Grande, dai suoi amici, ma soprattutto dalla sua colazione. Una volta sulla tromba delle scale, John si divincolò dalla presa dell’altro e incrociò le braccia al petto nello stesso momento i gradoni presero a muoversi guidandoli Dio solo sapeva dove.
“Che cosa significa?”
“Che cosa?”
“Questo rapimento.”
“Non ti ho rapito. E’ Sabato, non abbiamo le lezioni ed è arrivato il momento di-”
“Appunto, Sherlock, è SABATO! Scommetto che la tua mente eccezionale non abbia neanche lontanamente elaborato la possibilità che io potessi avere dei programmi.”
Sherlock sbuffò, roteando gli occhi con esasperazione. “Non sia mai che ti abbia scombinato i tuoi piani, per carità! Lungi da me!”
“E invece l’hai fatto, Sherlock. Anzi no, non stavolta. Ho un appuntamento.”
Il moro aggrottò la fronte, fissandolo con smarrimento. “Un che?”
“Quando due persone si piacciono, escono e si divertono, Sherlock. Ma tu hai avuto un fidanzato, dovresti saperle certe cose.”
Sherlock annuì un paio di volte, miracolosamente senza parole. “Va bene, okay… Sì, insomma, non pensavo ad un simile picco nella nostra relazione, non momentaneamente… Anzi, John, forse dovrei specificare, onde evitare possibili fraintendimenti: anche se Victor è morto, sono fermamente convinto che non possa esserci nessun altro nella mia vita dopo di lui. E sì, forse sto dicendo qualcosa che potrebbe risultarti stucchevole o deludente – o magari entrambe – ma la verità è che so che non amerò più nessuno come ho amato lui. Per questo e per il bene delle nostre indagini, nonostante sia onorato delle tue attenzioni, credo che sia meglio mantenere il nostro rapporto così com’è. Sai… senza complicazioni.”
John lo fissò stupito per alcuni secondi. “Pensi davvero questo di Victor e di quello che c’è stato tra voi?” Il silenzio dell’altro fu la conferma che aspettava. “Capisco, beh… Dovevi amarlo davvero tanto… Sono passati ormai cinque mesi e mi era sembrato che avessi assorbito il lutto con… Aspetta, cosa? Cos’hai detto?”
“Quando?”
“Prima, quando parlavi di te e Victor… Cos’hai detto riguardo… riguardo me?”
“Andiamo, John, sai quanto io detesti ripetermi.”
Nello stesso momento in cui il moro terminò la frase, le scale arrestarono il loro moto e il Corvonero si affrettò in una direzione che solo lui sapeva. John lo rincorse, deglutendo a fatica. “Hai detto… hai detto che sei onorato delle mie attenzioni…”
Sherlock sospirò. “Aveva ragione Victor quando diceva che nei rifiuti bisogna sempre mostrarsi fermi sulla propria posizione, altrimenti si rischia soltanto di illudere e ferire l’altro – anche se a mio parere è più la scocciatura da parte del poveretto che deve sorbirsi l’inutile cotta di un qualche adolescente… No, John, non dare alle mie parole un significato che non hanno. Era solo un modo gentile per dirti che non sono affatto interessato.”
“Non è questo il punto, idiota! Il punto è che non ci stavo provando!”
“Sì, John, certo, e io sono Salazar Serpeverde – in versione belloccio.”
“Non parlavo di te quando mi riferivo all’appuntamento! Mi riferivo ad una ragazza della mia casa che ieri sera mi ha chiesto di uscire!”
Il moro si immobilizzò improvvisamente nel bel mezzo del corridoio e gli lanciò un’occhiata curiosa. “Sul serio?”
“Sì.” sospirò John cercando di dissipare il rossore che gli era fluito in viso.
“Oh, okay… Meglio. Sarebbe stato imbarazzante.”
“Decisamente imbarazzante. E poi non sono gay.”
L’angolo destro delle labbra di Sherlock guizzarono verso l’alto. “Se lo dici tu…”
“No, Sherlock, non lo dico io, lo dice il mio DNA, non so se hai chiaro che cos’è.”
“Come sei esagerato, John. Dovrei presentarti a mio fratello, sono sicuro che andreste davvero d’accordo.” borbottò il Corvonero prima di infilarsi in una porta sulla destra e tenendola aperta dietro di sé per lasciar passare l’altro.
John si ritrovò in un’ampia stanza dalle pareti in marmo bianco, al centro della quale si ergeva una serie di lavandini – due dei quali rotti – e sulla destra una fila di porte in legno aperte che davano l’accesso nell’angusto spazio dei gabinetti.
“Siamo in un bagno?”
“Arguto, John. Siamo precisamente nel bagno delle ragazze del terzo piano.”
“Quello in cui non va mai nessuna perché si dice che sia infestato?”
“Tecnicamente è infestato, signor Watson.” gli rispose una voce femminile alle sue spalle.
Il Grifondoro si volse di scatto, sussultando appena nel trovarsi di fronte la figura diafana di una ragazza all’apparenza bellissima, dai morbidi ricci che le ricadevano sulle spalle semitrasparenti e gli occhi che sembravano brillare di luce propria.
“Chi sei?”
Lei sbuffò e lo superò, senza neanche degnarlo di ulteriori attenzioni, aprendosi in un sorriso radioso alla vista del Corvonero. “Finalmente ti degni di farti vivo, Mr Sherlock Holmes.”
“Irene. Sempre un piacere vederti morta ogni volta come ti avevo trovato quella prima.”
“Mi sto sbellicando.” ribatté lei senza però perdere il sorriso, anzi, accentuandolo ancor di più. “Allora, sei qui per far saltare tutto in aria come la volta scorsa oppure-”
“L’hai custodita come ti avevo chiesto?”
La ragazza – che a quanto pareva si chiamava Irene – sospirò. “Dovrei sentirmi fortemente offesa per questa domanda completamente inutile e idiota. Ad ogni modo, se può farti stare tranquillo: sì, Sherlock, l’ho custodita. Non che ce ne fosse bisogno. Come al solito non si è fatto vivo nessuno.”
John inarcò un sopracciglio in direzione della giovane. “Tu… tu sei il fantasma di cui si parla tanto a scuola? Quello che infesta il bagno delle ragazze…”
Finalmente, gli occhi di Irene si volsero nella sua direzione, un’espressione scocciata a dipingerle il viso diafano. Lo squadrò infastidita per pochi secondi, infine tornò a guardare Sherlock, l’accenno di un sorriso divertito a schiuderle le labbra. “No, fammi capire: prima di sceglierti il fidanzatino stili una lista in quanto a intelligenza e arguzia per caso? Perché questo è ancora più acuto del precedente.”
Sul viso del moro comparve un accenno di sorriso. “Una cosa del genere. Adesso, se non ti dispiace…”
Irene si scostò una ciocca di capelli dagli occhi vispi e fece loro segno – più a Sherlock in realtà – di seguirla. Quando furono davanti ad uno dei tanti specchi del bagno si fermò, lasciando che il Corvonero la superasse, parandosi di fronte ad esso. “Ben fatto Irene.”
“Sempre un piacere, Sherl.”
“Sherl?” le fece eco il biondo corrugando la fronte.
“Geloso, signor Watson?”
Il ragazzo percepì il viso avvampare d’imbarazzo a quelle parole. “N-no, noi non… non siamo una coppia.”
Lei assottigliò appena gli occhi, intensificando lo sguardo. C’era un che d’insolente e provocatorio in quelle iridi incolore e John se ne sentì trapassato. Gli parve quasi di venire messo a nudo, ma non era una sensazione elettrizzante come quando Sherlock deduceva gli aspetti più improbabili da cogliere della sua vita, no… Era disturbante, come se vi fosse qualcosa, in lui, che solo lei poteva scorgere, che forse John stesso non aveva ancora visto. Ma finì nel tempo stesso in cui lei distolse gli occhi e si affrettò ad affiancare Sherlock, scambiando con lui qualche parola sottovoce.
“Ti ringrazio, Irene.” concluse il moro rivolgendole un sorriso sincero, non uno di quelli ironici che soleva scoccare a chiunque – specialmente a John, quando gli lanciava una sfida di qualche genere – e, per un attimo, il Grifondoro se ne sentì quasi geloso.
“Dovere, mio caro.”
“Mio caro?” ripeté il biondo, stavolta completamente ignorato dagli altri due. Lei fece per andarsene quando, come colta da un improvviso ripensamento, si trattenne e, chinandosi sul Corvonero, gli scoccò un bacio sulla guancia.
“Fai buon viaggio, signor Sherlock Holmes.”
E con una capriola all’indietro, si catapultò in uno dei gabinetti, lasciando uno Sherlock sorridente e un John coi pugni stretti e gli occhi ostinatamente fissi sulle punte delle sue scarpe.
“Beh? Ti sei incantato?” lo richiamò l’amico chinandosi appena per far incrociare il loro sguardi.
“Mi spieghi che cosa hai in mente?” Sherlock sospirò e si limitò ad indicargli lo specchio di fronte a cui si era posizionato. “E’ uno specchio.”
“Non un semplice specchio, John. Tu guardi ma non osservi. Che cos’è realmente?”
John si concentrò, aggrottando la fronte e cercando di affinare la vista, ma il risultato che ottenne non fu che una smorfia infantile e completamente inutile. “Non ne ho idea, mi dispiace. Ora puoi smetterla di giocare al primo della classe e mi dici che stiamo facendo?”
“Quello specchio, John” cominciò con tono paziente il Corvonero. “è una Passaporta.”
Il biondo sgranò repentinamente gli occhi. “U-una Passaporta?” Al cenno affermativo dell’altro proseguì: “Ma che ci fa una Passaporta ad Hogwarts? In così bella vista, tra l’altro.”
“L’ho creata io.”
“T-tu!?”
“Non è così difficile come sembra. Basta pronunciare la formula, essere dotati di un discreto livello-”
“E’ PROIBITO!” sbottò John facendoglisi vicino e guardandosi intorno, come se qualcuno avesse potuto sentirli. “Tu… Tu lo sai che c’è bisogno di un’autorizzazione dal Ministero? Che se viene attivata una Passaporta senza il permesso del Primo Ministro viene mobilitata l’intera Squadra Speciale Magica?”
“Certo che sì.”
“E sai anche che dispongono di mezzi con cui ci troverebbero in un battito di ciglia?”
“Sì.”
“E deduco, a questo punto, che tu sappia anche che se ci beccano – cosa scontata – ci faranno a pezzetti o peggio?”
“Esattamente.”
“E ALLORA MI SPIEGHI PERCHE’ HAI CREATO UN’ACCIDENTI DI PASSAPORTA!?” tuonò esasperato il Grifondoro, abbandonando il suo tono fintamente calmo.
“Silenzio, John, non voglio che tutti sappiano che c’è una Passaporta disponibile all’utilizzo!”
“Ah, quindi è ancora un segreto nonostante la tua abitudine a pavoneggiarti per le imprese compiute!?”
“Sì, è ancora un segreto!” rispose con uno sbuffo il moro. “Mi prometti che ora mi starai a sentire tappando quella bocca larga che ti ritrovi?”
“Giuro su Dio!” urlò John esasperato, ma resosi conto di aver nuovamente alzato la voce distolse lo sguardo, lasciando la parola all’altro.
“Bene. Come ho già avuto modo di accennarti, mio fratello tiene in scacco il Ministero intero. Nessuno farà niente senza il suo permesso, dunque dubito fortemente che faranno anche solo in tempo a venire a sapere di questa Passaporta: mio fratello intercetterà l’avviso ancora prima che arrivi sulla scrivania di quel borioso Ministro.”
“Okay.” sospirò il Grifondoro passandosi una mano sul volto. “E mi spieghi che cosa ci facciamo di una Passaporta.”
“La usiamo per teletrasportarci, John. Mi sembra un concetto basilare persino per te.”
“No, idiota che non sei altro, intendo: dove?”
“Oh, questa è la parte difficile…” L’espressione di Sherlock assunse un carattere contrariato. “Io… Ecco, non sono sicuro che le mie abilità siano così buone da permettermi la massima precisione, però… Sì, insomma, l’idea era quella di raggiungere la casa di Victor.”
Le sue parole vennero inghiottite dal silenzio. John aprì e chiuse la bocca ripetutamente, senza trovare la forza di spiccicare parola. “Quindi… Tu…” borbottò poi con voce roca. “Tu vuoi… andare a casa sua?”
Sherlock annuì. “E’ lì che sono stati portati i suoi effetti personali. E se è come crediamo, se davvero è stato minacciato… Allora mi sembra il luogo più adatto per cercare la prova di tale minaccia.”
“E se non dovessimo trovare nulla?”
“Allora… Avremo fatto un viaggio a vuoto. Niente di irrecuperabile. E avremo… Sì, beh, avremo comunque rivisto una parte di Victor.” rispose il Corvonero fissando la pavimentazione quadrettata del bagno. “Sei con me?” biascicò poco dopo, rivolgendo all’altro uno sguardo speranzoso da cui John si sentì investito.
“Certo.”
 
 
Sherlock non mentiva quando aveva fatto riferimento ad un probabile insuccesso nel materializzarsi precisamente di fronte alla casa di Victor. John dovette riconoscere che, anche in quell’occasione, Sherlock ci aveva visto giusto. Forse anche troppo. Un’ora e mezzo di camminata per le strade di Londra – e il conseguente dolore alle piante dei piedi – ne fu testimone.
Fu Sherlock a bussare alla porta di quella casetta di periferia, vicina al corso basso del Tamigi e fu sempre Sherlock a rispondere al saluto freddamente cortese della donna dal viso tondo e i capelli rossi sparati in tutte le direzioni che li accolse. John era come in trance. Osservava quella casa e immaginava un piccolo Victor crescere fra quelle quattro mura, giocare in quel piccolo cortile, imbracciare la gabbia col suo Gufo, Barbagialla, trascinandosi su quel vialetto pavimentato la valigia.
“… Ma certo, entrate pure.” sospirò infine la donna, scansandosi per lasciarli passare e conducendoli al piano di sopra, dove vi era la zona notte. La camera di Victor verteva in uno stato di disastroso disordine. C’erano vestiti buttati sul letto e scarpe lasciate in mezzo, un pallone da basket proprio di fronte all’ingresso e poi libri e libri di astronomia, il suo telescopio… John trattenne il fiato. Gli sembrava come se fosse ancora lì, il suo Victor. Il loro Victor. Victor che lasciava sempre la sua parte di camerata in completo disordine. Victor che ogni volta che doveva tirare fuori un libro buttava all’aria tutta la sua cassapanca. Victor che prima di decidere un vestiario adatto per uscire col suo fidanzato il Sabato o la Domenica impiegava un’infinità di tempo. Victor che non c’era più. Ma era come se ci fosse.
“Ho lasciato tutto come… Come lo aveva lasciato lui.” sussurrò la madre alle loro spalle, una mano a velarsi preventivamente la bocca. “E’ un’abitudine che ho adottato tutti gli anni: ogni volta che partiva per quella scuola strampalata col sorriso sulle labbra, entravo qua dentro e mi prendevo qualche minuto per immaginarmelo buttare tutto per aria com’era solito fare… E le cose non sono cambiate.”
Agatha tirò su col naso e, con grande sorpresa di John, Sherlock le strinse saldamente un braccio, rivolgendole un’occhiata di sostegno. La donna gli regalò un debole sorriso prima di voltarsi, comunicando loro che potevano fare con calma e che lei, nel frattempo, avrebbe preparato del tè.
I due ragazzi rimasero alcuni secondi immobili a fissare la camera intonsa dalla partenza di Victor dell’anno prima, come sospesi in un’ulteriore dimensione. Infine, Sherlock si riscosse. “Mettiamoci al lavoro.” John annuì.
Stando a quanto diceva Agatha, gli oggetti che Victor aveva portato con sé ad Hogwarts erano tutti racchiusi nel grande baule accanto al letto – anche quello intoccato ed inviolato in un muto rispetto nei confronti di un figlio perduto. John si sentì quasi un miserabile nel momento in cui si apprestò a distruggere quel precario equilibrio assemblato insieme da una povera donna, ancora ferma al giorno in cui suo figlio era morto.
“Non ci pensare.” gli sussurrò il Corvonero, accanto a lui, mentre girava la chiave ancora infilata nel lucchetto del baule, sollevandone il coperchio e alzando una consistente nube polverosa. John tossicchiò appena mentre Sherlock si sporgeva per poter studiare l’interno della cassa. Con una delicatezza ed un’amarezza così stonate nella sua figura altera e saccente, il moro prese a svuotare con estrema lentezza il baule, rivolgendo ad ogni singolo oggetto, persino alla penna d’oca e all’alambicco con l’inchiostro una dolce carezza.
John si perse nel fissare quel suo muto dolore che si era assopito ma non completamente svanito. E per l’ennesima volta, si diede dello stupido per aver giudicato affrettatamente quel ragazzino dagli spettinati ricci neri e l’aria arrogante.
E’ più fragile di quanto pensi… °
Chi era, realmente, Sherlock Holmes? Quante anime gli abitavano in quel corpo armonioso e dannatamente bello?
Lui ha bisogno di essere amato.
Amato. Se era quello di cui aveva bisogno, solo quello… Allora John ci sarebbe stato. Come amico, s’intende, ma l’avrebbe amato a modo suo, finché non fosse arrivato qualcun altro a scaldargli il cuore come solo Victor aveva saputo fare.
“E questo?” sentì dire a Sherlock.
“Cosa?”
“Guarda.”
Il biondo accettò con un sopracciglio incantato il pezzo di pergamena completamente bianco. “Non capisco.”
“Dovresti metterlo su una maglietta.” osservò sprezzante il moro.
“Cosa dovrei guardare, Sherlock? E’ bianco!”
“Appunto. Bianco. Che ci fa un pezzo di pergamena bianco nel baule di Victor? Tra l’altro, guarda queste pieghe… E’ come se fosse stato piegato…”
In breve, Sherlock, seguendo le piegature del foglio, fu in grado di ricostruire in maniera pressoché perfetta un uccellino di carta. John glielo prese di mano con delicatezza studiandolo con la fronte aggrottata, come se qualcosa stonasse in tutto quello.
Il Corvonero si scompigliò nervosamente i ricci. “Perché avrebbe dovuto tenere nel suo baule un fottuto uccello di carta? Aveva una passione per gli origami e non ne sapevo nulla?”
Quelle parole accesero un lumino nella mente del Grifondoro. “Non è suo.” Il moro gli rivolse un’occhiata inquisitrice. “Non è suo.” ripeté allora il biondo. “Victor non ha la minima idea di come si facciano gli origami. E’ sempre stato una frana, nonostante tutte le lezioni che gli ho dato.”
“L’hai fatto tu?” John scosse la testa. “E allora chi? Chi gliel’ha regalato?”
“Potrebbe non essere un regalo. Victor potrebbe averlo trovato e… che so, prenderlo?”
“Non dire assurdità. Perché Victor avrebbe dovuto conservare una simile… Che cos’è?”
John inarcò un sopracciglio. “Che cos’è cosa?”
Sherlock prese ad annusare la carta, gli occhi che si muovevano come impazziti, catturati da chissà quale indizio, infine infilò la mano nella tasca del mantello, estraendone la bacchetta. “Rivelo.”
L’amico contemplò allibito l’uccello di carta aprirsi, tornando allo stato di un semplice foglio, ma stavolta la sua superficie cominciò quasi a pulsare, come se fosse stata dominata di vita proprio.
Rivelo!” ripeté Sherlock stavolta a voce più alta e corrugando la fronte in una smorfia affaticata.
Sulla pergamena, cominciò lentamente a comparire un’immagine. La figura di un teschio nero, dalle cui orbite fuoriusciva un gigantesco ragno. John ebbe appena il tempo di registrare quell’icona che il braccio di Sherlock prese a tremare vistosamente e in breve una forza invisibile lo sbalzò contro una delle pareti della stanza di Victor, il foglio di carta, per terra, che tornava intonso.
John si precipitò sull’amico, invocando il suo nome con voce intrisa di preoccupazione, ma il moro lo scansò con gesto fermo, rimettendosi in piedi in pochi secondi.
“L’hai visto?” gli chiese con voce grave, gli occhi fissi sulla carta completamente bianca.
“Certo che l’ho visto.” rispose il Grifondoro. “Ma non capisco cosa-”
“Il Marchio Nero.” lo interruppe l’altro. “Era… era il Marchio Nero.”
 
Si svegliò come avvolto da uno stato catatonico. Un brivido gli percorse la schiena. Erano notti che l’immagine di quell’incomprensibile simbolo – così simile al tatuaggio di Justin, il figlio dei suoi vicini babbani – lo tormentava, comparendo e scomparendo in un cielo di tenebre, sempre alle spalle di quell’unicorno dagli occhi tristi. Tristi e mutevoli. Erano notti che si svegliava con l’angoscia ad attanagliargli le viscere… eppure quel giorno il suo intero essere era impregnato di una calma quasi surreale. Robotica.
Si alzò e con gesti meccanici si vestì lentamente, quasi solennemente. Mike e Greg non si accorsero del suo risveglio alle prime luci dell’alba, intenti a rigirarsi nei loro letti ancora addormentati. Una volta indossata la divisa, scese le scale con sguardo vacuo, percorrendo prima la Sala Comune e poi i corridoi completamente vuoti. Si lasciò trasportare dalle proprie gambe, dal proprio subconscio: sgattaiolò fuori dal castello, mentre l’aria gelida di Novembre lo pugnalava efferatamente. Il Lago Nero si spiegò sotto i suoi occhi nella sua tetra cupezza, eppure nella sua ingiusta bellezza. Il sole non era ancora sorto del tutto, appena un’aureola giallognola tra i versanti delle montagne che lo cingevano. Il cielo era chiaro, stranamente terso, fatta eccezione per qualche nuvola coraggiosa, contornata dagli accennati raggi solari.
John prese un respiro profondo, gli occhi chiusi, la testa reclinata all’indietro. Quella sensazione che gli abitava il petto, non avrebbe saputo descriverla. Pace? Tranquillità? Inquietudine? Solitudine? Abbandono?
“A quanto pare continuo a commettere sempre lo stesso identico errore.”
Non si sorprese di quella voce come la prima volta che l’aveva udita quell’anno, proprio su quella riva del lago, accanto a quella maestosa quercia. Non si scomodò neanche a girarsi: rimase immobile e della propria placidità si nutrì beatamente. “Quale? Se posso chiedere.”
I passi di Sherlock sull’erba gli giunsero a malapena alle orecchie, tanto era felpati e leggeri. Teneva le mani nelle tasche dei pantaloni, nel suo solito atteggiamento sprezzante. Quando era solito erigere una di quelle stupide facciate che calava per protezione. Come facesse, John, ad esserne così sicuro non lo sapeva… Però era come se si fossero conosciuti da sempre e non solo da un mese. “
“Quello di sottovalutarti. E sottovalutare il tuo sentimento per Victor.”
“Era il mio migliore amico.” sospirò John chinando lo sguardo. “E il minimo che posso fare è… venire qui il giorno del suo compleanno. Ricordarlo.”
Un sorriso amaro sfilò sulle labbra del Corvonero. “Io non ho avuto l’occasione di festeggiarlo neanche una volta.” sussurrò con quella che sembrava una voce incrinata. “Com’è… Com’era?”
“Bello. Molto bello. In realtà non facevamo mai niente di così speciale o di… diverso dal solito. Giocavamo a quidditch dopo colazione, andavamo a lezione… Trascorrevamo la giornata come al solito… L’unica differenza stava nel rimpinzarci di cioccorane e di altre schifezze… e la mattina: ci alzavamo prestissimo, ancor prima che il sole fosse sorto, e ci fermavamo a guardarlo salire in cielo… A Victor ricordava quando suo padre lo chiamava dall’Afghanistan la mattina prestissimo per fargli gli auguri e… tornare a combattere. E’ stato così per tre anni.”
Sherlock, accanto a lui, rabbrividì visibilmente, tanto che il biondo dovette voltarsi per squadrarlo. Lo trovò con le labbra serrate e gli occhi tristi, lontani. Una risata mesta e stonata gli sfuggì da quella barricata di denti e bocca che aveva creato. “Ecco un’altra cosa che non sapevo di lui… Un’altra cosa che non ho avuto il tempo di scoprire.”
John si mordicchiò nervosamente il labbro inferiore. Era consapevole che una volta avrebbe gioito di quella rivelazione, del sapere che lui e solo lui aveva conosciuto alcuni lati di Victor, ma ora… Ora si sentiva quasi in colpa. Gli sembrava sbagliato che lui avesse avuto maggiori diritti su Trevor di quanti ne avesse avuto Sherlock – il suo fidanzato!
“E’ per questo… è per questo che ti ho sempre odiato, sai?” Il Grifondoro spalancò appena gli occhi, ma non proferì verbo. “Come ti dissi già in precedenza… non amo condividere con altri ciò che è mio. E Victor… Victor era quanto di più prezioso avessi mai avuto in tutta la mia vita. Eppure c’eri sempre tu. Il banale e ordinario John Watson, così insignificante e stupido… eppure l’unico che avrebbe avuto il potere di portarmi via tutto.” Tacque nuovamente e ancora John non riuscì a spiccicare parola, stavolta per lo stupore e la ferita che il discorso dell’altro aveva provocato. “Tu gli eri… così vicino anche quando eravate lontani. Quando cominciaste a litigare di brutto lui… lui correva da me, mi si rannicchiava tra le braccia e continuava a ripetere vorrei che tutto tornasse come prima. E sapevo che era per te. Capisci che intendeva? Lui avrebbe preferito non incontrarmi piuttosto che guardarti allontanarti da lui!”
“T-ti sbagli, ci deve essere un errore…”
“E invece no!” continuò Sherlock, la voce sempre più alta. “Per lui c’eri tu! Ci sei stato sempre e solo tu! E non importava quanto tenesse a me, io… io sarei sempre venuto dopo. E sai che c’è? Probabilmente se qualcuno non l’avesse ammazzato… sarebbe venuto da me nel giro di pochi giorni a dirmi che tra di noi era finita e sarebbe corso da te, per chiederti perdono per averti abbandonato e giurarti fedeltà eterna!”
John rimase immobile mentre Sherlock gesticolava furiosamente, dimenando le braccia a destra e a sinistra, il petto che si alzava rapidamente, il fiato caldo che gli sbatteva sul viso. Infine, reagì. Si mosse completamente dominato dall’istinto. Gli prese il viso tra le mani e bastò quel tocco, quell’unico, sconvolgente tocco, per farlo calmare. Il Corvonero lo fissava con occhi sgranati e velati di smarrimento e… lacrime?
A quel pensiero, il Grifondoro rafforzò ancora di più la stretta. “Sherlock… Lui ti amava.”
“No, invece…”
“Ero il suo migliore amico, nonostante negli ultimi tempi mi fossi allontanato… E ti giuro che non l’avevo mai visto così felice… Tu lo rendevi felice, mentre io… io ero buono solo a farlo soffrire e a-a rovinargli il tempo trascorso con te. Sherlock, tu eri tutto per lui e ti amava… Dio, se ti amava.”
Un’espressione dolente velò il viso del moro. “Chi potrebbe mai amare uno come me?”
“Victor. Victor poteva. E… E anche altri. Molti altri. E chi crede che tu sia solo uno psicopatico, strambo, senza cuore… Allora è un coglione.”
“Ti ricordo che lo pensavi anche tu…”
John si concesse un sorriso. “Appunto. Ero un coglione.”
Si fissarono per alcuni istanti, trattenendo il fiato, i riflessi dei loro occhi negli occhi dell’altro. John avvertiva qualcosa… Qualcosa di profondamente radicato attanagliargli lo stomaco, il cuore, i polmoni… Non avrebbe neanche saputo collocarlo. Forse era la sua intera anima ad essere imprigionata da catene invisibili. Aveva bisogno di liberarsi di quei ferri infuocati che gli marchiavano la coscienza e il suo essere dal giorno della morte di Victor. Aveva bisogno di tornare a respirare, finalmente dopo tanto tempo.
“Ero un coglione…” ripeté, a voce flebile. “Ero proprio un coglione… La verità, Sherlock, è che… che ero una merda. Una merda gelosa del suo migliore amico. Io… io-” Un groppo di lacrime gli spezzò la frase sul nascere, ma lui scosse rabbiosamente il capo, imponendosi di non sfuggire a quel mea culpa. Aveva rimandato anche troppo. “Io… io tenevo a lui… tenevo a lui così tanto che non volevo, non potevo accettare di essere messo in secondo piano… E invece che stargli accanto e guadagnarmi ogni giorno la sua amicizia così preziosa… gli ho voltato le spalle. Quella notte… Quella notte ha cercato di dirmelo, Sherlock… Lui… Lui stava cercando di farmelo capire, sapeva a che cosa stava andando incontro… Ed io non ho fatto altro che urlargli contro…” Un singhiozzo liberatorio lo costrinse al silenzio e lui si staccò finalmente dal viso dell’altro portando la mano sinistra di fronte agli occhi, in un infantilmente orgoglioso gesto di schermarsi dalla vista dell’altro. “Lo vedo ancora… Lì, fermo di fronte al mio letto, con… con gli occhi tristi per colpa mia… Avrebbe potuto mandarmi affanculo, augurarmi tutto il male del mondo, e invece sai che ha detto? Ti voglio bene, John. Ti voglio bene… Capisci? Lui mi ha voluto bene fino alla fine e io… Lui… Lui è morto senza che io abbia avuto… Abbia avuto il… Le palle di…”
Il suo febbrile e disperato farneticare venne interrotto dalla sensazione delle braccia di Sherlock attorno al suo corpo. Inspiegabilmente, non si vergognò della propria debolezza. Si lasciò cullare dal respiro dell’altro, si abbandonò alla percezione del mento del Corvonero poggiato sulla sua nuca, si concentrò sul battito cardiaco dell’amico appena accelerato.
“Dimmelo.” singhiozzò.
“Che cosa?”
“Dimmi che sono una merda.”
Una delle grandi mani di Sherlock scivolò tra i suoi capelli, le dita lunghe che presero a muoversi in ripetute e decise carezze. Non dolci come quelle che gli riservavano le ragazze con cui usciva, no… Erano autentiche… più vere delle stesse mani che gliele stavano regalando. “Non posso.”
“Perché?”
“Perché la persona che mi hai descritto… non è la stessa che ho imparato a conoscere io.”
I singulti di John si arrestarono improvvisamente a quelle parole. Contro il petto del Corvonero, il biondo sorrise mestamente. “E che persona hai conosciuto tu?”
“Una persona che è riuscita ad andare oltre i pregiudizi comuni… ma soprattutto i suoi. Una persona che è riuscita a trasformare l’odio in amicizia. Una persona che ha accettato di assecondare un sociopatico in questa folle indagine che non sappiamo se ci porterà mai da qualche parte solo perché vuole riscattarsi e fare giustizia per il suo migliore amico. Ma soprattutto… è la persona con cui ho condiviso il cuore del ragazzo che amavo e perciò… Non può essere così male, in fondo… No?”
Il Grifondoro ridacchiò, scuotendo la testa in risposta a quella domanda retorica. “Forse no…”
Non seppero dopo quanto sciolsero il loro abbraccio e si persero a contemplare il sole che ormai stava proseguendo il suo cammino verso la cima dei monti. Fu un riflesso avvicinare le loro mani a tal punto che si sfiorarono inaspettatamente. O almeno, inaspettatamente per Sherlock, il quale si volse con sguardo interrogativo in direzione dell’amico.
“John-”
“E’ per Victor.” si affrettò a dire il biondo. “Io credo… credo che se in questo momento ci stesse guardando, vorrebbe questo. Vederci uniti. Per lui.”
Il moro sembrò rifletterci su per un po’, ma alla fine si limitò ad annuire e a lasciare che le dita del Grifondoro si intrecciassero con le sue. John provò un istintivo calore all’altezza del petto, la stessa sensazione che percepiva ogni volta Victor lo guardava e sorrideva o semplicemente stavano insieme. Vicini… Uniti… Come non avrebbero più potuto esserlo.
Quel pensiero gli inumidì nuovamente gli occhi, ma stavolta non cedette al bisogno di piangere. Si limitò a tirare su col naso e a sfregarsi via i principi di lacrime con la mano libera. Infine, rimase immobile, la mano in quella di Sherlock, gli occhi rivolti verso quel pallido sole.
“Buon compleanno, Victor.”


SPAZIO AUTRICE
Eccomi qua, a poche ore dalla partenza per Manchester, ma ce l'ho fatta!!! Stavo provando a dormire per raccimolare un po' di forza prima di una splendida notte in bianco su pulmann e traghetto e ho pensato "o porca miseria, il capitolo!" E quindi, ta daaaan! Domani probabilmente dormirò in piedi, ma non importa, è per una giusta causa. Grazie mille a voi che, dopo questi difficili anni per la serie, ancora siete qui e ancora leggete queste ff per colmare la vostra vita con un pizzico di Johnlock nella speranza di una quinta stagione. E niente, grazie ancora amici, vi saluto con un bacione grande.

*kiss kiss*
Alicat_Barbix
   
 
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