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Autore: Nat_Matryoshka    12/10/2019    0 recensioni
"La casa era immersa nel silenzio, tranne che per lo sfrigolio impercettibile delle candele che si consumavano.
Rey si strinse nel suo scialle di lana, scossa da un nuovo brivido."
[Reylo AU gotica || scritta per la Reylo Fanfiction Anthology 2019, "Amid Secrets and Monsters"]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ben Solo/Kylo Ren, Generale Hux, Rey
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 2
 



Con il trascorrere dei giorni, Rey si abituò alla routine che governava Brendol Hall.

Si svegliava al mattino, al canto degli uccelli, e iniziava servendo la colazione ad Hux. Durante il resto della giornata puliva la casa, riordinava e – quando glielo chiedeva miss Netal – si spingeva fino al quartiere più vicino, ad acquistare ciò che serviva per preparare pranzo e cena. Alcune stanze venivano usate molto spesso e non necessitavano di grandi attenzioni, altre sembravano essere state trascurate per anni, per cui fu parecchio impegnata fin dal primo giorno di lavoro.

Armitage Hux trascorreva praticamente tutta la giornata nel proprio studio al secondo piano; all’ora di pranzo si faceva portare da mangiare su un vassoio, chiamava la ragazza per farglielo ritirare, poi lavorava fino a sera. Nessuno sapeva bene in quali compiti fosse impegnato, e i domestici non parevano interessati a fare domande al riguardo. Rey si era avventurata nello studio un paio di volte, per spolverare e lavare i vetri: era una stanza arredata con la stessa austerità del padrone di casa, con mobili alti e scuri dalle linee severe e una grande finestra che dava sullo stagno del giardino. Sul lungo schedario accanto alla porta torreggiava una serie di alti barattoli e campane di vetro, pieni di ossa e resti animali di vario genere su cui la ragazza aveva preferito non indagare. La scrivania era sempre coperta di carte, documenti di viaggio, pagine e pagine di resoconti scritti in una calligrafia pomposa. Il primo giorno in cui si era trovata lì dentro aveva subito distolto lo sguardo, cercando di frenare la curiosità e di non sollevare nessuno di quei fogli per dargli un’occhiata, ma alla visita successiva le carte erano rimaste lì in bella mostra. Probabilmente, aveva riflettuto Rey, Hux era convinto che la nuova cameriera fosse una ragazzina sì in grado di leggere, ma incapace di comprendere a fondo argomenti complessi.

Si parlava di medicina, in quei documenti. Di esperimenti, di dissezione dei cadaveri, di ipnosi. Parole che le riportavano alla mente libri che sembravano appartenere ad un’altra vita, che aveva sfogliato quando era in compagnia del Generale Kenobi. A Rey leggere piaceva moltissimo, ma non si era mai azzardata a chiedere di poter prendere in prestito uno dei volumi sistemati ordinatamente nella libreria: in qualche modo, sentiva che fosse meglio mantenere un basso profilo e non svelarsi del tutto.

Era abituata a non fidarsi fin da quando era bambina, e il suo carattere schivo e riservato l’aveva aiutata a cavarsela in parecchie situazioni. Non poteva fare a meno, però, di ridere sotto i baffi: il suo padrone non avrebbe mai potuto immaginare che una ragazzina dall’aria tanto umile avesse ricevuto un’educazione degna delle migliori famiglie della Capitale.

Ogni giorno, all’incirca verso le tre del pomeriggio, riceveva la visita di un uomo alto e incredibilmente magro dall’aria arcigna, a cui tutti si riferivano con il nome di professor Snoke. A differenza di Hux, indossava sempre stravaganti completi dorati e si rivolgeva al personale con un tono untuoso che le ricordava terribilmente quello di Unkar. Arrivava, saliva al piano di sopra e restava assieme al collega per ore, fino a che miss Netal non spediva Rey ad avvisarli che la cena era pronta. Cosa facesse dopo, però, era un mistero. Probabilmente tornava nello studio di Hux e poi a casa propria, perché lo rivedevano solo il giorno successivo.

Aveva un giorno libero alla settimana, e in quell’occasione amava esplorare il giardino della villa. Dietro la casa si estendeva un vasto prato punteggiato da alberi, che Mitaka curava e potava costantemente. Erano ovunque: ai lati del viale che l’aveva condotta verso l’ingresso, sparsi in piccoli gruppi al centro del giardino, accanto allo stagno circondato da sassi piatti, in cui nuotavano alcune coppie di pesci. La prima volta che l’aveva percorso si era meravigliata di come una città industrializzata come Coruscant potesse nascondere tanto verde e, inspirando l’aria fresca a pieni polmoni, si era diretta verso una piccola fontana di pietra non lontana dalla facciata della casa.

Un corvo beveva con le zampe immerse nell’acqua, le sue penne nere scintillavano sotto ai pigri raggi autunnali. Rey gli si era avvicinata piena di curiosità e lui era volato via gracchiando, lasciandosi dietro una piuma. Un alto muro di pietra separava la villa dal resto dei caseggiati vicini, e la sua parte ad ovest era coperta da una siepe di rose che il giardiniere curava con molta attenzione. Rose bianco rosate, delicate, che l’autunno non era riuscito a far appassire del tutto. L’aria sapeva di foglie morte, di muschio e del fumo dei comignoli accesi.

Aveva camminato a lungo, accompagnata solo dai propri pensieri. Dietro la casa, lontana rispetto al laghetto, si trovava una piccola radura di alberi e bassi arbusti, al centro della quale biancheggiavano delle forme di pietra che non era riuscita a distinguere. Si era avvicinata a piccoli passi cauti e, ad un esame più approfondito, aveva scoperto che si trattava di pietre tombali. “Qui giacciono le spoglie mortali di Brendol Hux, marito devoto e servitore della Patria, e di sua moglie Portia. Possano riposare in pace, uniti quanto lo erano in vita”, riportava la lapide più grande. Le più piccole sembravano decisamente più antiche, le scritte di alcune erano illeggibili, le ultime due in fondo erano addirittura spezzate, crollate di lato come se fossero stanche. Quella zona del giardino doveva essere la più trascurata, perché i licheni crescevano rigogliosi sulla pietra e le tombe erano circondate da erbacce e rami secchi. Rey era rimasta lì a guardarle per un lasso di tempo che le era parso interminabile, finché un fremito non l’aveva scossa da capo a piedi. Forse era colpa dell’umidità, - in fondo era novembre inoltrato – eppure nessuna altra zona del giardino le aveva trasmesso quel senso di inquietante oppressione… quasi ci fosse qualcosa di vivo, sotto a quel terreno. Qualcosa che covava una disperazione antica, pronta a venir fuori senza preavviso.

Da quel momento in poi, era rimasta sempre vicina alla casa. Le sue uniche escursioni in città si limitavano alla spesa, e durante una di quelle passeggiate aveva scoperto che l’emporio vendeva anche libri di ogni genere: l’idea di acquistarne uno con i soldi del primo stipendio, e di leggerlo seduta accanto al laghetto, bastava da sola a riempire di entusiasmo le sue giornate.
Non aveva mai dimenticato quello che Hux le aveva detto riguardo al seminterrato. La sé stessa di qualche anno prima non avrebbe esitato ad avventurarsi lì sotto, estasiata all’idea di vivere un’avventura proibita, ma la Rey più coscienziosa si rendeva conto di quanto fosse stupido rischiare tutto solo per curiosare. La stanza era comoda, il letto anche, e stava finalmente mangiando come si doveva. Avrebbe potuto trascorrere un inverno intero senza preoccuparsi del freddo. Valeva la pena rischiare tutto per un mucchio di cianfrusaglie nel migliore dei casi, e solo una porta chiusa a chiave nel peggiore? Aveva scacciato quel pensiero ed era andata avanti, anche se il seminterrato e i suoi segreti avevano continuato a punzecchiarla, nascosti nell’angolo più remoto della sua mente.

Un pomeriggio, non appena aveva udito la porta dello studio di Hux chiudersi di scatto, era sgattaiolata al piano di sotto in punta di piedi. Aveva già una scusa pronta in caso l’avessero intercettata - le era caduto il ciondolo dal collo ed era rotolato giù per le scale del seminterrato prima che potesse recuperarlo - ma né Bazine né Mitaka sembravano essere nei paraggi. Percorrendo i gradini con il cuore in gola, era scesa per un’altra rampa di scale fino ad un corridoio su cui si allineavano tre porte chiuse: la prima era bloccata sui cardini arrugginiti, l’ultima era solo socchiusa, ma quella di mezzo sembrava venire usata di frequente, perché la maniglia di ottone appariva lucida. Il cuore aveva continuato a batterle in gola. Cosa nascondeva quella porta? Perché Hux le aveva consigliato di non avventurarsi là sotto, se tutto quel che aveva da nascondere erano solo tre porte dall’aria assolutamente comune?
Una serie di colpi di tosse provenienti dal piano di sopra l’aveva spaventata, costringendola ad una ritirata silenziosa, prima che potesse anche solo appoggiare l’orecchio sulla porta di mezzo e cogliere un segno di vita qualsiasi.
 


*
 
Il giorno dopo, un urlo la svegliò nel bel mezzo della notte.

Aveva preso sonno da poco, dopo aver pulito la cucina e risposto alla lettera di Finn. Sulle prime, aveva creduto di sognare, ma dopo un istante di silenzio si era ripetuto ancora, lacerante, violento. Qualcuno gridava a pieni polmoni, un urlo così pieno di dolore che era possibile sentirlo anche a due piani di distanza.
Il cuore prese a martellarle nella cassa toracica, con tanta forza da toglierle il fiato. Tenendo la testa premuta sul materasso, l’orecchio che sprofondava nel tessuto ruvido del lenzuolo, pregò che quel suono cessasse. Le strade di Jakku di notte pullulavano di cani inselvatichiti, non era raro sentirli ululare nel bel mezzo della notte… ma quello non sembrava il grido di un animale. Era troppo umano, troppo rabbioso. L’aveva raggelata fin nelle ossa.

Rey prese un respiro profondo, stringendo un lembo della coperta di lana con le dita sudate. Al secondo grido era seguito un suono di passi lungo il corridoio, poi lo sbattere di una porta, quella dello studio di Hux, l’avrebbe riconosciuta tra mille. I passi si erano allontanati giù per le scale, concitati, finché il loro suono non si era affievolito. Alzandosi di scatto, la ragazza tese l’orecchio per tentare di captarne la posizione. Il suo principale, o chiunque si fosse alzato di corsa per controllare la situazione, doveva essersi diretto nel seminterrato senza fermarsi un attimo, e soprattutto senza chiamare miss Netal, che dormiva nella stanza all’altra estremità del corridoio.  Ma perché tutta quella fretta? E soprattutto, a chi apparteneva la voce che aveva gridato?
Armeggiò con il candelabro sopra al mobile da toletta, cercando di controllare il tremito delle mani. Riuscì ad accendere una candela e rimase immobile al centro della stanza, sperando ancora che la situazione tornasse alla normalità. Forse non era successo nulla. Magari si era davvero immaginata tutto, aveva fatto un sogno troppo vivido e la confusione del risveglio si era sommata ai movimenti di qualcuno uscito per una passeggiata notturna. Forse miss Netal aveva sete ed era andata in cucina a bere dell’acqua. La cosa migliore che avrebbe potuto fare era tornarsene a letto e dormire.

Eppure…

In piedi con i nervi tesi, le sembrò che ogni minimo suono si amplificasse, per diventare fragoroso. Uno sgocciolare ritmico proveniente dal bagno, lo scricchiolio impercettibile delle assi del pavimento sotto il suo peso. Un rumore non ben identificato sopra di lei, nella soffitta inagibile da anni, e un nuovo rumore di passi. La stessa persona che prima era scesa ora risaliva le scale, arrivava sull’ultimo gradino, si fermava, poi girava a sinistra. Ad un certo punto, poté quasi giurare che si fosse fermata esattamente davanti alla sua porta.

Chiunque altro avrebbe abbandonato di corsa il candelabro per rifugiarsi nel letto, ma l’adrenalina impedì a Rey di ritirarsi. Trattenne il respiro più che poteva, ferma come una statua, finché la misteriosa presenza non si ritirò nella direzione opposta, verso lo studio e le altre stanze, lasciandola libera di muoversi. Solo quando sentì la porta di Hux richiudersi, si permise di tirare un sospiro di sollievo.

Un attimo dopo si gettò lo scialle di lana sulla camicia da notte bianca e socchiuse piano la porta per uscire nel corridoio. Nemmeno lei sapeva perché stesse scendendo le scale in punta di piedi, scalza, l’orecchio teso verso la stanza di Hux: le urla l’avevano terrorizzata, vero, ma era come se l’istinto la spronasse a tornare verso il luogo della sua ultima esplorazione, e lei si fidava troppo del suo istinto per fare domande.

Continuò a scendere piano, un gradino per volta, nella casa immersa nell’oscurità. La luce fioca del candelabro illuminava la mobilia scura, dipingendo ombre inquietanti sul muro. Silenziosa come un piccolo fantasma, camminava con il passo felpato che aveva imparato a padroneggiare nel corso della sua esistenza da topolino di Jakku, attenta a non calpestare le assi più sconnesse del pavimento. Imboccò il corridoio che portava alle cucine, si fermò ad ascoltare se qualcuno l’avesse seguita. Il grido di un gufo ruppe il silenzio assordante, ma Rey non trasalì: non erano gli animali, le creature che avrebbe dovuto temere in quel momento. Si strinse con più forza nello scialle e scese piano le scale del seminterrato, trattenendo il respiro, pregando che ad Hux non venisse voglia di ripetere la perlustrazione di poco prima.

Una volta giunta di fronte alle tre porte, si accorse che quella centrale era stata lasciata aperta. Un piccolo spiraglio di cui il principale non doveva essersi accorto, impegnato com’era a far cessare la fonte del rumore. L’urlo era nato lì dentro, ne era più che certa. Se non altro perché riusciva chiaramente a udire qualcuno lamentarsi a bassa voce, una serie di gemiti spezzati intervallati a respiri affannosi. Una voce profonda, rauca. Qualcuno che si riprendeva dopo aver provato dolore fisico.

Per l’ennesima volta nel corso di quella nottata, Rey trattenne il respiro. Non tremava più, ma era nervosa, incapace di restare ferma. Una domestica per bene avrebbe dovuto dimenticare ogni cosa e tornarsene al piano di sopra, nel proprio letto, come se non avesse sentito nulla, non scendere nel seminterrato a curiosare. E se, tra le ombre della stanza, fosse nascosto qualcosa di pericoloso? Se Hux l’aveva avvisata, magari aveva solo a cuore il benessere della servitù. Eppure, la stessa voce dell’istinto che l’aveva guidata fin lì la incoraggiava ad aprire la porta. Quel respiro affannoso la attendeva. La attirava a sé, quasi fosse sotto l’effetto di un incantesimo.
La paura di poco prima era svanita, lasciando posto ad una curiosità inarrestabile.

Chiuse gli occhi e spinse la porta.

Quella che si trovò davanti era una stanza dai soffitti alti, molto simile allo studio di Hux, ma almeno due volte più grande, nonostante i due tavoli da lavoro e la mole di libri e strumenti che la occupavano. Era buia, dopotutto non c’erano finestre nel seminterrato, ma il suo candelabro non era comunque l’unica fonte di luce: dal fondo proveniva un baluginio verdastro, una luminosità innaturale e lattiginosa che sembrava impregnare il muro. Mosse un altro passo, l’orecchio sempre teso. Il respiro che aveva percepito poco prima si era fatto meno intenso, ma la creatura a cui appartenevano quei polmoni era nascosta da qualche parte, dietro ai tavoli ingombri di carte, e non sembrava esattamente piccola.

Non ci volle molto, prima di scoprire di cosa si trattasse.

Il pavimento di pietra umida era gelato, tanto che presto non riuscì a sentire più le dita. Proseguì piano, un passo dopo l’altro, il candelabro stretto tra le dita sudate, fino a giungere alla fonte di quella strana luce: un enorme contenitore di vetro, il più alto e ampio che le fosse mai capitato di vedere in vita sua, si stagliava nell’angolo più buio della stanza. Era quello a brillare di verde, un lucore tremulo che sembrava sul punto di spegnersi da un momento all’altro. Rey lo fissò a bocca aperta, affascinata e intimorita, finché il suo piede non incontrò qualcosa di bagnato: acqua. Il pavimento era coperto di acqua, mista ad una sostanza collosa che aveva tutta l’aria di essere gelatina, e che veniva fuori da un buco nella struttura di vetro.

Fu in quel momento che lo vide.

Chi aveva emesso quelle urla disperate era disteso poco lontano dal suo piede destro, raggomitolato a terra in posizione fetale, un groviglio di gambe e braccia pallide, innaturalmente lunghe. Se non l’aveva notato prima era perché, probabilmente, i suoi occhi erano rimasti talmente affascinati dallo strano marchingegno in vetro da non mostrarle nient’altro, ma era impossibile non accorgersi della sua presenza, ora che aveva ripreso a lamentarsi. Bloccata sul posto, Rey riuscì solamente a fissarlo mentre tentava di alzarsi, goffo e tremante, come se fosse rimasto per tanto tempo immerso in quel liquido da dimenticare come si camminava.

Era un ragazzo. Un umano dai capelli neri e il viso di un bambino cresciuto troppo in fretta. Era incredibilmente alto, eppure i suoi occhi sembravano tremendamente giovani, quasi indifesi. Il corpo era nudo, tranne che per uno straccio chiaro avvolto attorno ai fianchi, e le braccia presentavano una serie di segni rossi e ferite dall’aria recente.

Si scambiarono un’occhiata. Solo uno sguardo, in un attimo infinitesimale che le parve durare un’eternità. Il ragazzo la fissò, ancora accucciato a terra, troppo debole per chiedere aiuto. Rey lo osservava, in allerta, anche se non sembrava intenzionato a farle del male. Ma quando tese una mano verso di lei, indietreggiò e fuggì via.

Corse a perdifiato verso il piano di sopra, senza curarsi di essere scoperta, né dell’acqua che le inzuppava l’orlo della camicia da notte, rischiando di farla scivolare.
Corse fino a che non raggiunse la porta della sua stanza, le candele spente dalla foga della corsa. Una volta all’interno, chiuse la porta a chiave e si rannicchiò nel letto, senza fiato, tirandosi la coperta fin sopra la testa. L’immagine di quel ragazzo continuò a tormentarla per tutto il resto della notte, sia durante le scarse ore di sonno agitato che in quelle di veglia.

Se fosse stata più attenta, avrebbe evitato di calpestare il pavimento con i piedi bagnati per non lasciare tracce. Hux si sarebbe accorto di quelle macchie sulla guida rossa che copriva le scale e avrebbe iniziato a tenerla d’occhio, ma in quel momento la discrezione era l’ultimo dei suoi pensieri.

 
 
 
 
   
 
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