Immagine dal film “Schindler’s List”
Dal capitolo 3:
Campo di Fossoli, febbraio 1944
Afferrandola per il braccio, il tenente la sollevò bruscamente dal
pavimento.
“Tu farai quello che voglio io!” le disse, stringendole forte il braccio
fino a quasi imprimere le dita nelle sue ossa.
Sarah sapeva benissimo di non avere alcun scampo, di non poter nulla contro
tanta violenta forza ma era decisa a sfidarla, a combattere per proteggere la
sua integrità. Tra lacrime e gemiti, tentò di svincolarsi dalla presa ma il
tenente l’afferrò da dietro e la strinse forte contro il suo petto. Quasi le
mancò il respiro e credette di morire. Una mano entrò nella camicetta, alla
ricerca smaniosa delle sue nudità mentre l’altra le tappava la bocca per
zittirne le flebili urla. Poi il tenente le strappò di dosso il vestito,
graffiandole la pelle, lacerandole l’anima e, come se pesasse poco più di una
piuma, la gettò sul letto, schiacciandola con il proprio corpo. Sarah tentò
ancora di resistergli scalciando e colpendolo al petto con pugni ma dovette
arrendersi dopo due forti schiaffi che la stordirono. Mentre il dolore
accresceva, chiuse gli occhi per evitare il suo sguardo bramoso e si tappò le
orecchie per non sentire i suoi spasimi di piacere. Tra le sue mani era come
una bambolina di pezza da girare e rigirare, da scuotere e fare a pezzi, fino a
quando non fu stanco di giocarci.
Capitolo
15
Bianco
è il colore dei miei sogni infranti
“A volte due
persone, per combaciare, devono prima rompersi in mille pezzi.”
Fabrizio
Caramagna
Immagine dal film “Il club del libro e della torta
di bucce di patata di Guernsey”
17
febbraio 1944
Era
quello il prototipo geneticamente perfetto di razza ariana? Dormiva ancora la
belva umana che non aveva disdegnato di approfittarsi di una ragazza ebrea.
Perché lo aveva fatto, se i nazisti consideravano quelli come lei “vermi che si
annidavano nei cadaveri in dissoluzione”, “coloro che avvelenavano tutto il
mondo”, nemici pericolosi e ripugnanti? Trovò la risposta nella domanda stessa
e si diede della ingenua per non averlo compreso prima: se l’obiettivo dei
nazisti era quello di strappare agli ebrei ogni dignità, con lei vi erano
riusciti alla grande.
Sarah
ruzzolò dal letto e, strisciando lentamente per terra, tremante per il dolore, raggiunse
una parete. Non c’era parte del corpo che non le facesse male,
un angolo della propria anima che non bruciasse per le ferite. Sedette sul
pavimento freddo, appoggiando le spalle al muro e, chiudendo forte gli occhi in
una smorfia di dolore, si strinse la sottoveste fra le intimità. Non era così
che aveva immaginato la sua prima volta.
Schiaffi,
invece di baci. Ingiurie, invece di dolci parole. Sangue e lacrime, al posto di
carezze e sospiri. La violenza, al posto dell’amore. Come sigillo, un vile
compromesso, anziché una promessa, per diventare la concubina di un nazista,
anziché una sposa virtuosa.
Ferita
nell’innocenza, si sentiva sporca, umiliata, oltraggiata nel corpo e
nell’anima, squarciata e trafitta fin dentro le viscere. Senza più lacrime da
versare, sgranò gli occhi in un’espressione di vuoto e iniziò a vedere la belva
nazista, sdraiato mezzo nudo sul letto, i mobili e tutt’attorno nella stanza come
ombre sfocate. Poi vide tutto bianco.
Bianco,
come le lenzuola che sua madre ricamava per lei da vent’anni, ovvero dalla sua
nascita.
“Arriverà
l’amore e sarà speciale e la tua attesa non sarà stata vana”, le aveva detto un
giorno sua madre, mentre ripiegava il corredo nella cassapanca, notando la
malinconia sul suo viso adolescente.
Bianco,
come l’abito che non avrebbe mai indossato. Bianco, come i confetti che, alle
sue amiche del quartiere, già sposate, non avrebbe mai potuto ricambiare. Bianco,
come il riso che nessuno le avrebbe mai lanciato, fuori a una chiesa le cui
porte per lei non si sarebbero mai più riaperte, neanche per accogliere il suo
feretro. Sarebbe morta, o forse lo era già, schiacciata, soffocata dal peso di
quell’uomo infame, e il suo corpo sarebbe stato gettato in una fossa comune, in
un posto sperduto d’Italia.
Pensieri
di morte si rincorrevano veloci nella sua mente, fino a quando, ritornata in
sé, non si accorse di trovarsi in una vasca da bagno, con due occhi scuri puntati
addosso che la guardavano impietositi.
“Pòra
fia, anim”[1],
le disse la donna, mentre, con una spugna in mano, si apprestava ad aiutarla a
lavarsi, “quando ci avrai fatto l’abitudine, non farà così male.”
Sarah
scoppiò in lacrime, mentre un senso di nausea le attanagliò lo stomaco. Meglio
essere morta, pensò.
Sorrento,
settembre 1946
Con il permesso e la benedizione del
signor Gennaro, Sarah e Matteo avevano ricominciato a vedersi e uscire insieme.
La loro relazione poteva già essere definita un fidanzamento ufficiale.
Quel giorno, Matteo aveva mantenuto la promessa
fatta a Sarah di portarla a visitare “la terra delle sirene” e, adesso,
passeggiavano mano nella mano tra i caratteristici vicoli della città, pieni
di negozietti e botteghe artigiane. Sospinta dall’aria frizzante di fine
estate, che danzava sugli orli del suo vestito color cielo, Sarah si sentiva
leggera, viva, libera, felice e non riusciva a smettere di sorridere. Di tanto
in tanto, si fermavano a qualche bancarella, per assaggiare caramelle al gusto
di limoncello e provare cappelli di paglia, facendo espressioni buffe e poi
riderne. Sarah ne scelse uno e Matteo insisté per regalarglielo.
Camminando lungo stradine in discesa, giunsero in una piccola insenatura che lasciò Sarah a bocca aperta: il porto di Sorrento era un quadro variopinto. Le casette dei pescatori, con i loro colori e panni stesi alle finestre, si affacciavano sul mare che luccicava polvere d’oro, mentre la spiaggetta di sabbia vulcanica sembrava brillare d’argento sotto i raggi del sole di mezzogiorno. All’ombra di una chiesa lì vicina, a pochi passi dal mare, mangiarono il pane appena sfornato e poi, sempre mano nella mano, risalirono verso le strade della città.
Un senso di pace accarezzava il cuore di
Sarah, i cui occhi erano spalancati in uno sguardo luminoso e sognante e,
dentro di sé, sentì vibrare la spensieratezza di una ragazzina al primo amore,
quando, risalendo un vicoletto incorniciato da piante di limoni, Matteo
improvvisamente la strinse in un abbraccio e le diede un bacio sonoro sulle
labbra. Ma, in fondo, era Matteo il suo primo, vero amore. Matteo le sorrise
con aria vispa e Sarah, ricambiando il sorriso, arrossì sulle gote. Lo amò, tra
i profumi di zagare e ginestre.
Dopo non molto, giunsero in una villetta,
che altro non era che una suggestiva terrazza a picco sul mare circondata da
fiori e piante e con una stradina che conduceva al mare, e si appoggiarono alla
ringhiera ad ammirare il panorama mozzafiato del Vesuvio, delle isole e della
spiaggia sottostante. Qualcuno faceva ancora il bagno.
Estasiata da così tanta bellezza, Sarah
alzò gli occhi verso la tela azzurra del cielo e, per un attimo, si sorprese a
ricordare Hermann con un senso di gratitudine. Intanto, Matteo cercò la sua
mano sulla balaustra e lei gli sorrise, intrecciando le dita alle sue. Era
grazie a Hermann se adesso si trovava lì, in quel posto meraviglioso, accanto a
un giovane uomo dolcemente innamorato, e non tra le fuligginose nuvole del
cielo grigio di Auschwitz.
“Sarah”, proruppe Matteo con espressione
tenera e seria, prendendole anche l’altra mano, “io ti amo e voglio trascorrere
il resto della mia vita con te, che sei unica e straordinaria, la ragazza più
bella, dolce e gentile che abbia mai conosciuto.”
Gli occhi di Sarah luccicarono,
divenendo come cristalli dorati e il cuore iniziò a batterle forte, mentre
Matteo proseguì più serio: “Vedi, Sarah, io non ho molto da offrirti. Ho solo
queste mani”, le strinse fortemente alle sue, “per lavorare in un mare spesso
ostile e che, a volte, non dà nulla. E ho questo cuore per amarti.”
Matteo avvicinò le mani di Sarah al
proprio cuore e subito gliele lasciò, per poi inginocchiarsi e suscitarle
stupore. Frugò nelle tasche dei pantaloni e Sarah, intuendo la sua intenzione,
già portò le mani alla bocca per trattenere l’esplosione di emozioni.
Quel momento valeva tutti gli anni di
attesa, tutte le lacrime versate a Fossoli per il caro prezzo della sua
sopravvivenza, tutti i giorni e le notti spesi a credere in ciò che in realtà
amore non era.
E Matteo tirò fuori dalla tasca un
anello, un antico gioiello di famiglia e, con voce spezzata, pronunciò quelle
parole che Sarah sognava sin da bambina: “Sarah, vuoi sposarmi?”
Sarah scoppiò in pianto, in singhiozzi
di gioia. Lo abbracciò, si abbracciarono. Lacrime incontenibili bagnavano il
suo viso e la guancia di Matteo, incollata alla sua.
“Sì! Sì! Sì!” ripeté Sarah con
entusiasmo e un bacio appassionato sigillò quel momento, in cui il tempo e lo
spazio sembrarono fermarsi, annullarsi attorno a loro, per loro.
Non c’era più nessuno, né persone con il
loro brusio né panorama con i suoi profumi, suoni e sensazioni, né terra né
mare. Poi un’improvvisa folata di vento tiepido rubò il cappello di Sarah,
riportandoli alla realtà. Con goffi movimenti di braccia, tentarono invano di
afferrare il cappello che finì giù, nella stradina che conduceva in spiaggia e
Matteo, con uno scatto, si mosse a recuperarlo.
“Lascia perdere, Matteo!” fece Sarah
apprensiva, mentre, tra riso e pianto, lo guardava rincorrere il cappello lungo
la stradina.
Quando fu a metà strada, Matteo riuscì
finalmente ad afferrare il cappello e, da lontano, lo sventolò vittorioso.
Appoggiata alla ringhiera, Sarah rise più forte e alzò gli occhi al cielo,
mentre tutto in lei traboccava di felicità. Un gabbiano spiccò il volo.
Arriverà
l’amore e sarà speciale e la tua attesa non sarà stata vana.
“Ma
si sveglierà il tuo cuore
in
un giorno d’estate rovente
in
cui il sole sarà.
E
cambierai
la
tristezza dei pianti in sorrisi lucenti,
tu
sorriderai.
E
arriverà
il
sapore del bacio più dolce
e
un abbraccio che ti scalderà.”
Emma
Marrone & Modà, Arriverà