«Io me ne vado.»
Arturo, seduto al bancone in cucina, si fermò a una spanna dall’addentare la sua pastafrolla alla crema e guardò con occhi sbarrati l’amico e convivente, Michele.
«In che senso?» gli chiese poggiando lentamente la pasta e raddrizzandosi sull’alto sgabello che usava sempre come trono.
Michele stringeva con determinazione la maniglia della porta di casa, così forte da sbiancarsi le nocche, il vecchio cappotto polveroso gli pendeva pesante dalle spalle curve.
«Io me ne vado. Esco a prendere un po’ d’aria.»
«Ma è successo qualcosa?»
«Sì. Ho bisogno di cambiare aria. Io… devo andarmene. Addio.»
Arturo non si mosse di un millimetro, immobile sul suo trono. Dall’altra parte del muro arrivò ovattato il fischio di un treno e con esso il suo rapido sferragliare, un tremito basso, lieve, ma sufficiente a far vibrare impercettibilmente la parete.
«È qualcosa che ti abbiamo fatto noi? Michele, guarda-mi.»
«Io…»
«Michele, ti va di parlarne?»