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Autore: Nat_Matryoshka    06/11/2019    2 recensioni
"La casa era immersa nel silenzio, tranne che per lo sfrigolio impercettibile delle candele che si consumavano.
Rey si strinse nel suo scialle di lana, scossa da un nuovo brivido."
[Reylo AU gotica || scritta per la Reylo Fanfiction Anthology 2019, "Amid Secrets and Monsters"]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ben Solo/Kylo Ren, Generale Hux, Rey
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 4
 
 

“Qui va tutto bene. Scrivimi presto, aspetto tue notizie.”


Dopo la scoperta nello studio, Rey cercò il più possibile di mantenere intatta la propria routine, per non destare ulteriori sospetti: si svegliava, lavorava, usciva, una volta a settimana imbucava le sue lettere per Finn, serviva i pasti, andava a letto. Non si rivolgeva mai direttamente ad Hux, aspettava che fosse lui a farle domande, e in ogni caso evitava di farsi trovare dove non avrebbe dovuto essere… tranne che di notte. Le sue visite a Ben continuavano e, per quanto sapesse perfettamente di rischiare il posto di lavoro e forse anche di peggio, sentiva che quella era la cosa giusta da fare.  

Da quel che aveva capito leggendo il diario, il ragazzo era vittima di un piano più grande di lui, di cui Hux era solo una delle tante pedine: avevano intenzione di creare armi umane obbedienti o qualcosa di simile, e non si preoccupavano di farlo di nascosto, o il padrone non avrebbe mai assunto del personale di servizio. Il Conte Dooku forniva loro denaro e protezione, Snoke si procurava le cavie, e probabilmente anche la donna bionda che aveva visto in precedenza era coinvolta in quel progetto, chissà con quale ruolo. Non aveva idea di cosa significassero i calcoli che aveva trovato, né quelle strane formule, ma di una cosa era certa: Hux non si sarebbe fermato di fronte a nulla. Poteva anche aver fallito in passato, ma la sua determinazione era rimasta intatta, e andava di pari passo con la sua ambizione.

Quando scendeva lo faceva con estrema attenzione: strisciava giù dal letto, indossava i calzini prima di uscire dalla porta, scendeva per le scale senza nemmeno portare la candela. Ormai aveva imparato a memoria la pianta della casa e riusciva a farsi strada fino al seminterrato senza urtare contro gli ostacoli. Una volta arrivata alla porta, si sfilava una forcina dai capelli e la usava per forzare la serratura. Le porte erano antiche, bastava poco per far scattare il meccanismo e permetterle di entrare. Hux ormai la chiudeva a chiave, ma non aveva fatto i conti con il suo passato da rivenditrice di rottami abituata a cavarsela anche nelle situazioni più difficili.
 
 
*
 

“Usciamo” le aveva detto Ben una notte, senza aggiungere altro. La pioggia era caduta per giorni, ma finalmente il cielo aveva scacciato le nuvole e ora si godeva la prima notte serena dopo quelli che sembravano secoli. Dicembre era alle porte, lo dicevano gli alberi spogli e il profumo pungente d’inverno che impregnava le mattine.

“Usciamo.” Lo aveva ripetuto due volte, e tra tutte le risposte sensate che avrebbe potuto dargli – ci scopriranno, non dobbiamo dare nell’occhio, è troppo pericoloso – Rey scelse di annuire: non riusciva a dirgli di no. Gli occhi di Ben erano limpidi, pieni del luccichio brillante delle stelle. Non lo aveva mai visto così… felice? Si strinse addosso lo scialle e lo seguì, mentre percorreva la stanza con passo malfermo e usciva, diretto verso la terza porta del seminterrato e poi attraverso uno stretto cunicolo, che sembrava essere stato scavato direttamente nella terra e conduceva all’esterno. L’erba indurita dal freddo quasi scricchiolava sotto ai calzini.

“Quella porta è sempre aperta” le spiegò lui, una volta giunti sul retro della casa. Il giardino si apriva davanti a loro in tutta la sua bellezza notturna, immerso in una nebbiolina sottile e gelida.  Davanti a loro, in lontananza, si stagliava la fontana dei corvi e, più avanti ancora, il viale d’ingresso ghiaioso con i suoi alberi, ma Ben evitò quella direzione: costeggiando la villa senza esporsi alla vista delle finestre, la condusse verso il laghetto, nella zona più remota del parco. “La usano per uscire senza essere visti dalla servitù, in caso debbano nascondere qualcosa di compromettente. Da quando mi trovo qui, non è mai stata chiusa.”

Non erano molto distanti dalla distesa di pietre tombali. Rey le osservò, bagnate dai raggi di luna argentei, ma questa volta non la intimorirono: le trovò solo tristi, testimonianze malinconiche di qualcuno che non c’era più. Gli arbusti bassi attorno al laghetto si muovevano alla brezza fredda della notte, una danza privata a cui si erano trovati ad assistere per caso. All’improvviso, Ben la prese per mano perché lo seguisse più in fretta e lei lo seguì di corsa, mentre l’erba umida le accarezzava le caviglie nude e le ombre li inghiottivano, nascondendoli alla vista del mondo. Dovevano sembrare due fantasmi, pensò sorridendo, lei tutta vestita di bianco e lui alto e imponente, vestito solo di una camicia e dei soliti pantaloni neri… quel giorno indossava anche le scarpe, ma dal modo in cui scuoteva i piedi di tanto in tanto si capiva chiaramente quanto non fosse abituato a farlo.

Si fermarono poco dopo, accanto ad uno degli alberi della radura. Ben si sedette allungando le gambe e Rey lo imitò. Lontana dalla casa, immersa nella quiete della notte, le sembrò di respirare con più facilità. Faceva freddo, era buio e il rischio che Hux li trovasse era concreto, ma la presenza di Ben riusciva in qualche modo a darle forza. Lui sembrava perso nei suoi pensieri, lo sguardo che vagava dalle pietre tombali al laghetto, fino al muro che, in lontananza, recintava Brendol Hall.

“Non sei sempre stato così” tentò Rey, prendendo coraggio, e un attimo dopo si pentì di aver parlato. Ma Ben non sembrava affatto offeso: annuì piano e si voltò a guardarla. Forse era lieto che lo avesse capito anche lei.

“No, non sono sempre stato così. Mi chiamavo Ben… ed è ancora il mio nome, anche se loro hanno cercato di strapparmelo. Kylo Ren, così mi chiamano. I primi tempi rispondevo ai loro ordini come se la mia vita dipendesse da loro… ma non è più così. C’è altro, ci deve essere altro.”

I rami degli alberi frusciavano piano, producendo quella musica particolare che tanto la affascinava. Un giorno, l’uomo che gestiva l’orfanotrofio aveva deciso di portare i bambini in gita in un paese di nome Takodana: un luogo selvaggio, meraviglioso, che ospitava una foresta lussureggiante. Non avrebbe mai dimenticato la sensazione del vento sulla pelle, e la vista di quei giganti verdi che cantavano le loro canzoni al cielo. Mentre i suoi compagni correvano schiamazzando, lei si era seduta ad ascoltarli, gli occhi socchiusi e il cuore pieno di gioia. Dopo quel pomeriggio, tornare alla desolazione di Jakku era stato incredibilmente difficile.

“Avevi una famiglia?” chiese, spezzando nuovamente il silenzio.
“Non ricordo molto del passato. Solo… una donna. Capelli scuri, il viso segnato dagli eventi. ‘Principessa Leia’, così la chiamavano. E un uomo, sempre lontano. ‘Non puoi ignorare ancora tuo figlio’, ho sentito la donna urlargli contro, ma potrebbe essere solo ricordi che mi sono stati impiantati.” La voce di Ben, sempre profonda e sicura, si era incrinata appena. “Non so più dove inizi Ben, e dove finisca Kylo Ren.”

Rey si voltò per guardarlo negli occhi e gli appoggiò il palmo della mano sul viso, un gesto tremante ma deciso. “Tu sei Ben. Kylo Ren è solo la creatura che stanno cercando di plasmare, ma sei più forte di loro. Lo so.”

Lui sorrise. Le dita di Rey gli coprivano una parte delle labbra, il resto del viso veniva dipinto dalla luna. “Vorrei avere il tuo ottimismo. La verità è che siamo tutti mostri, Rey… io e tutti gli altri, i Cavalieri di Ren. Ci hanno strappato ogni affetto, tutto quel che ci rendeva umani. Ci hanno tagliato a pezzi… innestato pelle, organi, arti che non erano i nostri, tutto questo per trasformarci nelle loro macchine perfette. Anche loro sono mostri, i nostri creatori. Ma camminano per la strada tronfi, orgogliosi di poter contribuire alla grandezza della loro patria, mentre io vivo nascosto, e tanti altri sono morti. Li puoi vedere lì, sotto alle pietre.”

Indicò le lapidi. Ecco il perché di quelle croci accanto ai nomi, pensò Rey. Chissà chi erano i giovani sepolti lì, da dove venivano... le si strinse il cuore al pensiero.
 
“Hux e Snoke avevano una scelta” sussurrò Rey. “Voi no. È questa la differenza… quello che ti hanno costretto a fare non ti rende un mostro, Ben.” E in fondo, non era sempre così? Erano le scelte a definire le persone, non le loro origini. Unkar Plutt e i suoi genitori avrebbero potuto fare del bene, ma avevano scelto altrimenti. Anche lei e Ben avevano fatto la loro scelta, e le loro vite erano cambiate. In meglio.

Ben lasciò andare un lungo sospiro. “A volte qualche frammento sparso della mia infanzia torna a trovarmi. Una casa tra le montagne, persone che sorridono… ma subito dopo arrivano le urla, e il sangue. Grida di dolore, intense come nemmeno puoi immaginare. La mia pelle viene strappata e cucita, e poi il fuoco, il dolore… Snoke che opera, Hux che guarda. I miei compagni, quello che abbiamo fatto, quello che ancora abbiamo da fare. ‘Sei la nostra arma perfetta’, questo mi ripetono. E sapere che sono stato io a provocare la sofferenza, che la loro creatura gli ha obbedito…” si strinse la testa tra le mani, scuotendola piano, a destra e a sinistra. Sembrava così tanto un ragazzino spaventato, con le dita affondate nelle onde scure dei capelli e gli occhi chiusi, che Rey non riuscì a trattenersi: gli gettò le braccia al collo e lo strinse in un abbraccio goffo sulle prime, poi sempre più dolce e disperato, finché non lo sentì cedere tra le sue braccia e rilassarsi. La brezza aveva smesso di soffiare, le foglie restavano immobili e anche per loro il tempo sembrava essersi fermato.

Il respiro del ragazzo divenne così regolare che, per un attimo, Rey pensò si fosse addormentato. Era così vicina al suo viso da poterne percepire il profumo: non avrebbe saputo dire cosa le ricordasse con esattezza, ma la faceva sentire a casa. Nonostante il freddo dell’aria attorno a loro, la sua pelle era tiepida e morbida, i ricci neri le sfioravano la fronte, mantenevano una traccia di quel calore che le aveva regalato ogni notte. Era bello come lo erano i fiori che aspettavano in silenzio la primavera per sbocciare, nascosti tra le fessure delle pietre.

Quando alzò la testa, posò le labbra sulla sua guancia con gli occhi socchiusi, e gli diede un bacio.
Lui trattenne il respiro, e lo sguardo che le rivolse un attimo dopo era pieno di tutte le parole che non riusciva ad esprimere.

La notte restava silenziosa. L’acqua del laghetto era diventata d’argento.

Durante i giorni successivi, Rey si accorse di non ricordare molto di quanto era venuto in seguito: sapeva solo di aver appoggiato la testa sulla spalla di Ben e di essere rimasta seduta sull’erba fredda, cullata dalla musica degli alberi, fino a che non le si erano chiusi gli occhi per il sonno e aveva ceduto al suo abbraccio. Com’era rientrata, allora? Non sulle sue gambe, perché ricordava di aver visto il giardino muoversi attorno a lei, mentre il corpo restava dolcemente disteso in preda al torpore, tra due braccia forti che la sorreggevano. Piano piano, senza far rumore, si muovevano tra le ombre come se fossero nate per farlo.
Poi si era ritrovata nel suo letto e, quando si era sollevata a sedere, insonnolita, la figura di Ben era sparita attraverso la porta. Era accaduto davvero, o aveva sognato tutto? Non avrebbe mai potuto dirlo con sicurezza: il sonno l’aveva riafferrata di colpo, confondendo forme e colori in un dipinto indistinto.
 

*
 

“Anche io ho dei ricordi sparsi del mio passato. Voci, carezze. Eppure i miei genitori se ne sono andati quando ero solo una bambina, e non sono più tornati.”
Lui annuì. “Ogni tanto sento anche io delle voci. Ben, Ben, sussurrano il mio nome. Sono state loro a farmelo venire in mente. In qualche modo, penso abbiano voluto salvarmi.”

La camicia bianca era aperta sul petto: sulla pelle chiara appariva un intrico di cicatrici sbiadite intorno alla più grande, una rossastra dai bordi irregolari. Sembra recente, rifletté la ragazza. Intorno al braccio destro si intravedeva il segno di una cucitura, punti scuri che mordevano la pelle trattenendola a forza, come se potesse fuggire via.

Rey appoggiò il palmo della mano sul suo petto, sopra il cuore, e capì che Ben non si era mai esposto in quel modo prima di allora: le stava offrendo la sua parte più fragile senza esitare, sicuro che non l’avrebbe mai rifiutata.

Qualcosa dentro di lei si spezzò. Sentì che le tremavano le labbra, le parole si facevano strada correndo con forza e lei non poteva far altro che lasciarle uscire, affidargliele, come lui le stava affidando il proprio passato.

“Da bambina, sono sempre stata da sola. All’epoca non ci pensavo, mi sembrava normale: all’orfanotrofio si resta in gruppo per avere meno paura del buio, ma alla fine della giornata, l’unica cosa che resta con te è la solitudine. Anche se hai degli amici… una volta aperte le porte, ognuno vive per sé.” Pensò a Finn, a quanto fosse allegro, estroverso: lui non si sarebbe mai sentito solo. Un po’ lo invidiava. “Mi sono talmente abituata a vivere per me stessa da considerarlo un bene… meno preoccupazioni, meno sofferenza. Non puoi soffrire per qualcosa che non hai più da tempo, no? Notte dopo notte, sognavo solo di andarmene da Jakku e di ricominciare una nuova vita. Finché non è arrivato il Generale Kenobi, e mi ha insegnato cosa significasse sentirsi a casa. Mi ha fatto capire che anche io meritavo di essere trattata con gentilezza, e che mi avrebbe sempre accolta con quella stessa gentilezza, ovunque fosse andato. Poi è partito, ma mi ha lasciato un indirizzo. Mi ha teso una mano, ed era più di quanto potessi desiderare.”

Ben non rispose, ma dal suo sguardo capì che la stava ascoltando. Non riusciva a capire se si trattasse di uno scherzo della luce o meno, ma dalle sue ciglia sembravano stillare delle gocce. Lacrime.

“Non chiedevo molto. Solo… che non mi dimenticassero. Che non decidessero di andarsene di punto in bianco lasciandomi indietro, perché avrebbe significato che la mia esistenza non aveva alcun posto nelle loro vite.” Emise un sospiro e inghiottì la saliva, cercando di trattenere il pianto: si sentiva patetica, non poteva lasciare che la tristezza le impedisse di spiegarsi. “Ma se ne andavano comunque. Ogni volta che mi abituavo all’idea di non essere più sola, bastava che distogliessi lo sguardo perché sparissero di nuovo. Così ricominciavo a contare su me stessa, a vivere come se nulla fosse accaduto, cercando di dimenticare quel che avevamo vissuto insieme.”
Finché non ti ho incontrato, avrebbe voluto dire, ma le mancava il coraggio. “Alla fine, ‘casa’ ero solo io. Sono sempre stata solo io.”

Non aveva mai staccato la mano dal petto di Ben. Il peso che portava nel cuore restava lì, ma in qualche modo le sembrava di respirare con più facilità. Se non altro, non si sentiva più schiacciata dall’idea che nessuno potesse comprendere il suo dolore.

Le frasi successive le scapparono nuovamente dalle labbra, prima che potesse ripensarci.

“Andiamocene di qui, Ben. Fuggiamo via.”

Lui le sorrise con tristezza, spostandole dagli occhi una ciocca sfuggita agli chignon.
 
“No, Rey. Non c’è posto per quelli come me, là fuori… non saprei dove andare, né cosa fare. Ma tu meriti una vita migliore di questa. Meriti di essere felice.”

“Anche tu!” Non era tipo da arrendersi. Quando qualcuno subiva un’ingiustizia, anche quando Plutt minacciava di picchiarla se non fosse stata zitta, non era mai riuscita a tacere. Tieni a freno la lingua, ragazzina. E lei aveva sempre l’ultima parola, perché restare in silenzio significava consegnare la propria resa e non aveva alcuna intenzione di dargliela vinta con tanta facilità. Ben era lì davanti a lei, era come lei, e non lo avrebbe mai lasciato lì da solo, a distruggere se stesso.  “Pensi davvero di meritare di restare qui? Quale crimine avresti commesso, a parte -”

“Rey” sussurrò lui, e il suo tono somigliava così tanto ad una preghiera da bloccarle quel fiume di parole sul nascere. “Ascoltami. Tu sei buona, te lo leggo negli occhi. Da quando sei entrata in questa stanza, sei riuscita a portare nella mia esistenza qualcosa che non avevo mai provato. Sei coraggiosa, sei gentile… hai guardato oltre le apparenze, vedi del bello persino in me.” Sorrise tristemente. “Per questo dovresti andartene. Scappa via finché puoi, mentre Hux è impegnato con me, e lasciati Coruscant alle spalle. Non vale la pena che rischi tutto per me. Mi hai dato più di quanto meritassi… ora è giusto che sia io a fare qualcosa per te.”

Quando appoggiò le labbra sulle sue, per restituirle il bacio che gli aveva dato tempo prima, Rey non riuscì a trattenere le lacrime. Scivolavano sulle sue guance e cadevano a terra, offuscandole la vista e confondendole le idee, mentre Ben le appoggiava i palmi delle mani sul viso, ed erano caldi come sempre, morbidi nonostante le ferite che li coprivano. Poteva anche aver ucciso per Hux, ne portava ancora i segni addosso, ma non le avrebbe mai fatto del male di sua volontà.
Continuarono a scorrere anche mentre lo ricambiava, mentre cercava di trasmettergli cosa provava per lui, perché desiderasse portarlo via di lì. Pianse alzandosi in piedi, per tornare nella sua stanza come faceva al termine di ogni incontro, scavando affannosamente nei suoi pensieri per cercare parole che l’avrebbero convinto a cambiare idea.

Non aveva nessuna aveva intenzione di lasciarsi tutto alle spalle.
Non ora che aveva finalmente trovato la propria casa. 
 
 

*
 

Furono di nuovo le urla a svegliarla, qualche notte dopo. Urla non più sofferenti ma rabbiose, violente, il ruggito di un animale messo all’angolo che si ribellava con tutte le proprie forze.

Ben.

Non c’era tempo per la paura: Rey si alzò di scatto dal letto e corse verso la porta, i muscoli tesi. Qualcosa le diceva che fosse meglio restare ferma dove si trovava, per cui aprì solo un minuscolo spiraglio, trattenendo il respiro nel timore di venire udita. Il corridoio, solitamente buio e silenzioso, era illuminato da una luce fioca di cui non riusciva a capire l’origine, che danzava sul muro e sembrava sospesa in alto, sopra la sua testa. Un odore penetrante, dolciastro e disgustoso e le riempì immediatamente le narici: non le servì investigare ancora per capire che, fuori dalla sua porta, c’era Snoke in persona.

L’uomo pattugliava il corridoio e non sembrava essersi accorto della sua presenza, ma Rey richiuse l’uscio. Probabilmente Hux gli aveva chiesto manforte per assicurarsi che nessuno interrompesse qualunque attività in cui fosse impegnato… qualcosa che riguardava Ben, poco ma sicuro. Quanto avrebbe desiderato buttare giù la porta e lanciarsi di corsa verso il seminterrato! Eppure, se anche fosse riuscita a mettere al tappeto il Dottore, sapeva bene che non avrebbe potuto far nulla contro il padrone, probabilmente armato e determinato a portare avanti il proprio compito. Strinse i pugni. Se c’era una cosa che detestava, era sentirsi impotente in situazioni come quella.

Un forte schianto risuonò dal piano di sotto, come di qualcosa di pesante che venisse lanciato a terra. I passi strascicati di Snoke percorsero il corridoio e poi la scala, un gradino alla volta, finché il loro suono non si perse in lontananza.  Rey appoggiò l’orecchio contro la porta.

Silenzio. Le grida erano cessate, ma aguzzando l’orecchio le parve di udire delle voci che confabulavano, troppo distanti perché potesse distinguere le parole con chiarezza. Il cuore prese a batterle con violenza, così forte che temette davvero le schizzasse via dalla cassa toracica.

Poi, un nuovo schianto. Chiuse gli occhi e strinse ancora i pugni, sentendo le unghie premere nella carne. Una serie di immagini prese ad invadere la sua mente: Ben che respingeva i propri aguzzini con una furia cieca, fiero come il suo sguardo. Snoke a terra, Hux che cercava di bloccarlo, le braccia pallide del ragazzo tese, le vene come piccole strade blu in rilievo, impegnate nello sforzo di tenerlo lontano. Snoke che si rialzava e lo colpiva con qualcosa, una siringa piena di liquido forse, o magari un oggetto contundente. I due uomini che lo afferravano di nuovo, cercando di renderlo inerme, Ben che si stancava di combattere, come se, in fondo, pensasse davvero di essere Kylo Ren. Sono un mostro. Non c’è posto per quelli come me, là fuori.

Quando il silenzio avvolse di nuovo la casa, Rey trattenne il respiro, cercando di resistere alla tentazione prepotente di correre nel seminterrato. Si infilò nel letto con le orecchie piene dell’urlo di Ben e si cullò a lungo, avvolgendosi le spalle con le braccia, come faceva a Jakku quando non riusciva a prendere sonno. Inspirò, espirò. Si sfiorò le labbra, cercando di riportare indietro le sensazioni che il bacio di Ben le aveva lasciato, per trarre forza da quell’attimo.
 
Qualunque cosa fosse accaduta, promise a se stessa, lo avrebbe portato via da quella casa.
 
 
 
   
 
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