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Autore: GladiaDelmarre    07/11/2019    12 recensioni
Era una danza, ed era sempre stata una danza tra loro.
Crowley chiedeva, Aziraphale rifiutava. Crowley riformulava la domanda, chiedeva scusa, argomentava, e immancabilemnte l’angelo cedeva. Una storia vecchia come il mondo.
Ma cosa succede quando l'angelo si rifiuta davvero? Quando il sogno di un demone si spezza?
Qualcuno dovrà porvi rimedio, con l'aiuto di qualche amico...
p.s. cercherò di aggiungere una vignetta per ogni capitolo... spero tanto vi piacciano! Sono brevi schizzi di un'oretta di lavoro al massimo.
Genere: Angst, Erotico, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Aziraphale/Azraphel, Crowley
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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NB: Questo Interludio si colloca all'interno del Capitolo 2 - Swing, poco dopo il disastroso Picnic.
Sono ricordi di Crowley, di un tempo passato, e legati alla poesia Lamia che Aziraphale gli ha letto durante il picnic. Mi sono presa la libertà di associare Crowley alla figura di Joseph Severn, grande amico di John Keats. Non me ne vogliate.





Dopo aver salutato Aziraphale, Crowley corse a casa, andando alla massima velocità consentita dalla Bentley.

Quando arrivò all’appartamento, dopo nemmeno una quindicina di minuti, si chiuse dietro le spalle la porta, sbattendola.

Gli ci era voluto tutto l’autocontrollo possibile per non esplodere durante quella giornata. Quel picnic che Aziraphale gli aveva promesso dagli anni ‘60 aveva finito per trasformarsi nella più assurda delle giornate, e per lui un vero inferno. Non che non lo conoscesse, l’inferno, ma gli era sembrata cento volte peggio.

Aveva ancora il sangue che gli pulsava nelle tempie.

Quel dannato angelo aveva avuto la sfrontatezza di suggerire che la loro relazione potesse cambiare, adesso che l’Apocalisse era stata sventata. Come si era permesso? Crowley era furibondo. LUI aveva avuto il coraggio di chiederglielo prima, quando ancora rischiavano tutto, quando la loro vita era in ballo. LUI non aveva avuto timore di dirgli quanto gli era sempre stato caro, mentre l’angelo aveva sempre negato tutto. E ORA VOLEVA CHE LUI CADESSE AI SUOI PIEDI? Poteva scordarselo. Non avrebbe mai ceduto, mai, nemmeno in un miliardo di anni.

 

Crowley non si era curato di accendere la luce in casa - ci vedeva perfettamente anche al buio - e camminava nervosamente nella penombra, pieno di una rabbia che premeva per uscire, come una piena da una diga.

Le piante erano visibilmente terrorizzate e tremavano piano, nella speranza di non avere nemmeno una macchia sulla più piccola delle loro foglie, e che il loro personalissimo dio, nel caso, non la notasse.

 

Crowley quella giornata aveva ostentato stanchezza più che rabbia, per non dare ad Aziraphale la soddifazione di vedere quanto soffrisse (si, aveva urlato un poco, ma non si era esposto troppo). Soprattutto aveva cercato di trasmettere disinteresse, come se fosse già andato oltre la cosa, in modo da umiliarlo per quello che gli aveva proposto: umiliarlo almeno quanto si era sentito umiliato lui quando l’angelo si era rifiutato di scappare con lui su Alpha Centauri.

Quella stupida stella, che Crowley aveva fatto sì che fosse chiamata con le loro iniziali. Oh, sì, era stato uno stupido. Un demone innamorato, di un angelo per giunta.

 

E come se non bastasse, Aziraphale aveva deciso di leggergli proprio QUELLA poesia.

Forse, se la scelta fosse caduta su qualasiasi altro brano non sarebbe andata così, ma il caso aveva voluto che Aziraphale non conoscesse il retroscena, nè che Keats, quasi duecento anni prima, l’avesse scritta per lui.

 

Si ritrovò senza nemmeno rendersene conto di fronte al quadro che copriva la sua cassaforte.

L’aprì, spinto da un impulso irresistibile. Conteneva tra le varie cose, una cartelletta di pelle invecchiata e annerita per essere stata toccata innumerevoli volte. La tirò fuori, senza curarsi di richiudere lo sportello dietro di sè, e sprofondò sull'immenso divano del suo soggiorno, su di cui appena qualche giorno prima anche Aziraphale si era seduto.

 

Aprì la cartella.

Al suo interno, alcune lettere scritte con una calligrafia elegante ed antiquata, obliqua. Erano chiaramente scritte da una mano fine, ma maschile. Infine, c’era anche un piccolo diario, anche questo rilegato in una pelle che probabilmente un tempo era stata di un bel rosso fiammante.

Crowley lo rigirò tra le mani, indeciso se aprirlo.

Lo scorse, dopo qualche minuto, andando a cercare una data in particolare.

 

 

Londra, 13 Giugno 1816

Sembra sciocco che un uomo della mia età scriva un diario, ma scrivere è la mia vita. Tutta la mia vita. Naturalmente completerò i miei studi in medicina, ma non eserciterò mai. No, il mio cuore vola altrove, tra le nubi alte nel cielo, tra i cespugli carichi di bacche, e corre insieme alle muse.

Alla Solitudine” è stata pubblicata e lodata, e il mio cuore si è gonfiato di gioia e orgoglio, quando finalmente qualche altro essere umano ha amato quello che io stesso ho amato. Quando qualcuno ha compreso che la solitudine e la sofferenza di un poeta è quella del mondo intero, perchè sente che a chiunque è offerta e imposta, in egual misura.

Si, qualcuno mi ha capito, ed io mi sento meno solo.

Al circolo letterario che sto frequentando, quando non sono a fare pratica al Guy’s Hospital, ho conosciuto molte anime affini. Ci sono giovani poeti, come me, e pittori. Oh le meraviglie che riescono a creare sulle loro tele! Ho parlato con molti di loro. Quasi tutti.

Solo uno mi sfugge: un uomo dai capelli fulvi, molto alto – molto più di me – magro e slanciato. Non gli ho visto gli occhi, indossa delle lenti scure che non permettono di vederlo chiaramente, ma mi è sembrato di intravedere un barlume castano molto chiaro. Come se avesse gli occhi d’oro. Quest’uomo mi affascina, e vorrei essere anche io un pittore, per poterne dipingere la bellezza.

 

 

Crowley sbuffò. Ricordava quando quel ragazzo lo aveva guardato per la prima volta. Era piccolo di statura, con dei riccioli bruni e soffici, giovane e ardente, e per un attimo la purezza del suo sguardo gli aveva ricordato quella di Aziraphale.

Andò oltre, a cercare un’altra data, risalente all’anno successivo.

 

 

Hampsted, 28 Marzo 1817

Ci siamo finalmente trasferiti in questo piccolo borgo. Questa zona è di certo insolitamente bella, e credo che andando avanti con la primavera diverrà incantevole.

La casa è adeguata alle nostre esigenze, e ho una piccola camera che si affaccia sulle colline retrostanti. Una scrivania, sotto la finestra, che mi permette di osservarle e di vagare con la mente, prima ancora che sia il mio stesso corpo, per queste lande così pittoresche. Sono certo che troverò gioia e ispirazione in questi luoghi, molto più che nella caotica Londra.

 

Hampsted, 2 Aprile 1817

Lui è qui! Coi suoi capelli che paiono di rame, che ricadono sulle sue spalle a dispetto della moda che li vorrebbe acconciati in corti riccioli. E’ di certo un eccentrico, un sognatore, visto che non si cura di quello che dicono gli altri di lui. Si vocifera che sia strano, che viaggi molto e che si accompagni spesso a un altro uomo, biondo e più robusto, che credo di aver intravisto appena giunto qui.

E’ venuto a presentarsi, ieri, mentre ci occupavamo di disfare i nostri bagagli, e l’ho riconosciuto immediatamente: i suoi capelli sono inconfondibili. Ha una voce cortese e ben modulata, ma cammina in modo strano. Sinuoso e dondolante, quasi come una donna. Ogni cosa mi attrae in lui, sono felice di vivere solo a pochi passi da questo affascinante uomo misterioso.

Il suo nome, così si è presentato, è Joseph Severn. Spero di vedere presto qualcuno dei suoi dipinti.

 

Hampsted, 18 Aprile 1817

Ogni giorno Joseph passa a trovarmi, e con un sorriso appena accennato mi chiede delle mie poesie. Parliamo a lungo, anche fino a tarda notte, e quando prende commiato per tornare verso la sua residenza sono sempre triste che la notte debba venire, a un certo punto. Come vorrei non dover dormire mai, e passare la mia vita parlando con questo meraviglioso essere. Sembra senza tempo, sa così tante cose, tante che pendo dalle sue labbra quando racconta dei tempi andati. Deve essere un grandissimo cultore della storia, perchè ne parla come se fosse vissuto nelle epoche passate. Mi ha parlato dell’antica Grecia con una tale passione e trasporto che le immagini che ha evocato in me rimarranno per sempre impresse nel mio cuore.

L’unico mio cruccio è non aver ancora visto i suoi occhi. Mi ha confessato di avere un disturbo che non gli permette di andare in giro senza lenti scure: anche la più fioca luce lo ferisce. E’ un peccato, perchè sono certo abbia degli occhi bellissimi.

Mi ha promesso che mi dipingerà, oggi ha fatto qualche breve schizzo di me sul suo blocco.

Conto le ore che mi separano dal domani, per vederlo nuovamente.

 

Crowley sprofondò nel divano ancora di più.

Era moltissimo tempo che non leggeva quel diario. Ricordava come fosse rimasto affascinato da quel giovane, poco più che un ragazzo, ma con una innata, immensa capacità di creare immagini con le sue parole.  In John Keats aveva riconosciuto la stessa gioia e la stessa capacità di meravigliarsi della bellezza di quelle che aveva osservato in Aziraphale in quei primi giorni, nell’Eden. Si, li aveva spiati entrambi, prima uno e poi l'altro, mentre immersi nella natura si beavano della sua essenza.

Gli angeli erano stati creati direttamente nella loro forma e con la loro sapienza, e non erano mai stati veramente bambini (o anche solo giovani). Eppure Aziraphale e John sembravano avere lo stesso talento, la stessa predisposizione alla meraviglia e all'amore per quello che li circondava.

Per quello si era tanto affezionato a quel ragazzo: aveva avuto l'impressione di potersi prendere cura, in qualche modo, di un Aziraphale più giovane, altrettanto puro ma meno indottrinato, meno legato alle convenzioni stringenti della sua natura angelica.

Con un sospiro, andò avanti nella lettura.

 

 

Hampsted, 22 Maggio 1817

Questo mio legame si fa sempre più stretto. Quello che sento per Joseph è, contro ogni convenzione, la cosa più vicina all'amore che io abbia mai provato. Nessuno è come lui, nessuno mai gli sarà pari. Credo che siamo spiriti affini. Lui si preoccupa per me, è sempre presente, tranne quando il suo amico dai capelli dorati lo viene a trovare. Joseph ha con quest'uomo un'amicizia di lunga data, posso vederlo da come si guardano. Oh io l'ho conosciuto, qualche giorno fa, perchè ero impaziente di vedere il mio Joseph, ma ho trovato al suo posto il Signor Fell, così si chiama. Lui mi conosceva già. Ha una libreria, e dice di aver acquistato numerose copie della rivista su cui è stata pubblicata la mia ode. Mi ha lodato e incoraggiato a scrivere ancora. Un'aura serafica, quasi angelica lo circonda: tanto bianca e benevolente quanto quella del mio Joseph è cupa e malinconica a volte. Come possano essere così lontani e così amici non me lo spiego. Eppure, a ben guardare, entrambi sembrano esseri senza tempo, appena coscienti dello scorrere delle cose intorno a loro. Ma mentre il signor Fell è davvero distaccato, Joseph sembra avere radici profondissime, che scavano fin nelle più grandi oscurità della terra.

Eppure, in qualche modo, mi sento geloso di questo amico, perchè vorrei Joseph tutto per me. Credo che questo amore che provo stia per uscirmi dal cuore, ed io dovrò confessarlo.

 

Hampsted, 6 Giugno 1817

Troppo forte il dolore che provo, non posso scrivere stanotte.

Vorrei non svegliarmi più.

 

Hampsted, 30 Giugno 1817

Joseph, o forse dovrei chiamarlo col suo vero nome, Crowley, è partito. Ho cercato di trattenerlo, nonostante tutto, ma ha deciso di andare via. Non so per quanto, non so se per sempre.

Poco meno di un mese fa, in una notte serena di inizio Giugno, eravamo seduti sulla panchina, sotto a quello che per me sarà sempre il nostro albero, e lui mi parlava di un luogo lontano che aveva visitato, credo fosse qualche posto in medio Oriente. Lo ascoltavo poco, per una volta, perchè mi sentivo rapito dall'amore che sentivo nei suoi confronti. In quel momento, riuscivo a guardare solo le sue labbra. Lo baciai. Lui rimase immobile, come pietrificato. Il sapore della sua bocca era inebriante, ma con uno sforzo terribile me ne distaccai. Avevo commesso un terribile errore. Non mi voleva.

Scappai.

Il giorno successivo cercai di fingere di essere indisposto, ma non è un uomo che accetta un no come risposta. Mi convinse a uscire di casa, non so nemmeno come, e facemmo una lunga passeggiata. Rimase a lungo in silenzio. Poi, dandomi le spalle, si tolse gli occhiali. Era tardo pomeriggio, e il tramonto arrossava le nubi di un colore sanguigno, quasi osceno per la sua violenza. Controluce, non vidi bene dal principio. Poi lo vidi. I suoi occhi! Mi stava mostrando I suoi occhi. Aveva iridi gialle ed enormi, punteggiate di scaglie dorate, e le pupille verticali come quelle di una serpe. Aveva gli occhi più belli che io abbia mai visto in tutta la mia vita. Distolse lo sguardo, come disgustato da se stesso, e si rimise le lenti scure, nascondendoli. Gli andai incontro, così vicino da toccarlo, ma non osai. Mi disse che quello che vedevo era un demone, non un umano. Gli risposi che non mi importava, e che lo amavo. Vidi la sua espressione triste anche dietro agli occhiali. Lui non mi amava. Mi disse che non c'era spazio per nessuno nel suo cuore, perchè era secco ed avvizzito, perchè I demoni non sanno amare. Ma io so che non è vero. Lui ama questo mondo, ama gli alberi e le pietre, il vento che gli sfiora la pelle e il sole che lo scalda. E so che ama quel suo amico, chiaro e splendente. Un angelo, perchè se il mio Joseph – Crowley – è un demone, l'altro non può essere che quello. Un amore impossibile, ancor più del mio. Ed io piango, pieno di dolore, per me e per lui. La mia vita è effimera, ma la sua durerà per sempre, così come il suo tormento.

 

 

Crowley deglutì. Quello era stato un momento davvero difficile. Aveva permesso a se stesso pochissime volte di avvicinarsi tanto ad un umano, e in quel caso il risultato era stato terribile. Aveva creduto di poter fare del bene a quel giovane, anche se spinto in parte dalla sua somiglianza con Aziraphale, e lo aveva ferito oltre ogni dire. Anche confessandogli la sua vera natura John non era fuggito, lo aveva guardato solo con infinita tristezza, e aveva pianto per lui.

Chiuse il diario, e si massaggiò le tempie. Quanto aveva avuto ragione quel ragazzo.


 

Quando era partito aveva deciso di tagliare i ponti, ma aveva comunque cercato di mantenere un un minimo di legame con le persone che conoscevano John, per non perderlo del tutto.

Era venuto a sapere, l'anno successivo, che aveva conosciuto una ragazza di nome Fanny Brawne, e che infine si erano fidanzati ufficialmente. Aveva continuato a scrivere, e Crowley ne era stato felice. Aveva un talento incredibile. Sfortunatamente non era stato apprezzato. Il demone era convinto che quella era stata una delle cause che lo avevano fatto ammalare: era un ragazzo fin troppo etereo e delicato, e la sofferenza lo aveva portato a contrarre un male molto grave. Fu solo a quel punto che Crowley aveva deciso di tornare da lui.

Il medico che lo curava gli aveva ordinato di andare in Italia, dove il clima era più mite e favorevole.

Crowley si offrì di andare con lui. Sapeva che non lo avrebbe mai riportato indietro: aveva visto la morte troppe volte per non riconoscerla nel pallore di John Keats, nelle sue labbra bianche che si macchiavano di sangue dopo gli attacchi di tosse, nelle occhiaie che si disegnavano scure sotto I suoi begli occhi.

Non ricordava molto del viaggio in nave, nè di quello che da Calais in Francia li aveva portati verso sud, fino a Roma. Ricordava però che John era sempre più esile e debole, e che quando erano giunti nel piccolo appartamento che si affacciava su Piazza di Spagna, lui pesava poco più di un uccello dalle ali spezzate. Roma non li aveva accolti con il caldo che avevano sperato: era piovosa e triste, quasi a piangere il destino di John.

Nei pochi mesi che passarono lì, in quel piccolo appartamento carico di libri, il demone passò tutto il tempo che John era sveglio a leggere per lui, e tutto il tempo che lui dormiva, spossato dalla tosse che non lo abbandonava mai, a tracciare schizzi del suo viso sul blocco da cui non si separava mai.

 

John gli aveva dato un manoscritto, in una di quelle rare sere in cui era cosciente e lucido, della sua ode “Lamia”. Lo conservava gelosamente nella cartella di pelle, come una reliquia. Quando Keats gli disse che l'aveva scritta per lui, che non lo aveva mai dimenticato, Crowley aveva urlato la sua rabbia contro Dio, che permetteva delle morti così inutili, così terribili.

 

Non avrebbe mai dimenticato il 23 febbraio 1821. In quel giorno, la bella anima di John Keats si spense. Le sue ultime parole sono rivolte a lui, che lo aveva assistito fino all'ultimo: "Crowley, Joseph, sollevami perché sto morendo - morirò facilmente - non spaventarti - grazie a Dio è arrivata".

 

Si era occupato lui della sepoltura. Non si era curato del popolo di Roma che guardava sbalordito un gentiluomo con delle lenti scure che portava in braccio un ragazzo morto, per le strade della città. Aveva camminato fino al Cimitero Acattolico, e lo aveva deposto in una tomba all'ombra della piramide. John non era mai riuscito a vederla dal vivo, si era detto in un pensiero fugace. Aveva fatto comparire una lapide con l'epitaffio che lo stesso John Keats aveva chiesto “Qui giace un uomo il cui nome è scritto nell'acqua”.

Poi era andato via, e non era mai più tornato indietro. In quei duecento anni, non era mai tornato a Roma.

 

Se il viaggio di andata era poco presente nei suoi ricordi, quello di ritorno era del tutto assente. Aveva vagato a lungo, senza sapere dove si trovasse, fintanto che a un certo punto il desiderio di tornare in luoghi familiari lo aveva fatto comparire a Londra, davanti alla libreria di Aziraphale. L'unico luogo che per lui aveva significato “casa”, da quando viveva su quella Terra.

 

Era entrato scarmigliato, sporco dopo oltre un mese di peregrinazioni senza meta. Aziraphale non aveva detto nulla. Lo aveva aiutato a lavare I capelli e glieli aveva districati con cura, pettinandoli per sciogliere ogni nodo, e li aveva spazzolati fino a farli diventare un fiume ramato, di nuovo lucente. Gli aveva scaldato dell'acqua e gli aveva preparato una vasca antiquata per fare un bagno. Quando Crowley era uscito, di nuovo vestito e pulito, gli aveva preparato un the bollente e gli aveva detto solo “Bentornato a casa, caro”.



Crowley sbattè gli occhi più volte, quasi a voler scacciare quelle immagini e quei ricordi. Aziraphale, nonostante tutto, c'era stato.
Forse doveva solo inghiottire di nuovo la rabbia.
Andò a dormire, per annegare nell'oblio.

   
 
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