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Autore: NIKELMANN    15/11/2019    0 recensioni
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Dioscuri è la storia di due fratelli, Sterling e Elior, che gestiscono la Starlight inc., una compagnia che si occupa di entrare nella testa delle persone tramite l'ipnosi. La mente delle persone si manifesta come un luogo che il "viaggiatore" deve esplorare per correggere qualcosa che è sbagliato, con l'ausilio del "legame"
Genere: Avventura, Mistero, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’unico compagno di Sterling era il cigolio della sedia a dondolo. Il salotto della baita era decorato con motivi nautici, completamente estranei al resto dell’arredamento. La riproduzione di un timone sovrastava il camino, sulla cui mensola era appoggiato il modellino di una nave. Con la coda dell’occhio poteva vederne le vele gonfiarsi e tendersi, sforzandosi di muovere il minuscolo vascello su un piccolo oceano di granito. Naturalmente, fissandolo, il movimento cessava perché la sua razionalità prendeva il sopravvento. A livello conscio sapeva che non c’era vento nella camera e questo era sufficiente per scuotersi di dosso il suggerimento. Una coppia di sciabole dall’ampia guardia riempiva l’angolo della parete, poco prima della porta che dava sulla camera da letto. Delle rozze botti fungevano da tavolini, rendendo dubbio il gusto del locale, specie considerate le tre croci disegnate sulla pancia. Sterling era sicuro che non fossero piene di rum, quindi erano unicamente un fastidio senza utilità. Avrebbe avuto senso bere, in questo posto?! Era una delle tante cose che non sapeva. In tutta franchezza, non era colpa di Elior: suo fratello sarebbe stato disposto a spiegargli tutto per filo e per segno svariate volte, ma Sterling non riusciva a mantenere l’attenzione sufficientemente alta per capire tutti i discorsi complicati. Non era stupido, semplicemente preferiva imparare facendo. Inoltre non gli sarebbe servito, se solo fosse stato possibile comunicare con Elior.

Il che lo portava al problema principale: la baita non aveva telefoni, televisioni o computer. Era persino sprovvista di buche per le lettere. Dondolandosi sulla sedia, rifletteva sul da farsi. Non poteva passare troppo tempo lì. Istintivamente lanciò uno sguardo all’orologio a pendolo. Era fermo. Tanto per fare qualcosa, si alzò e si avvicinò a fissarlo. Era di legno scuro, cerato come il resto della mobilia, in modo che facesse contrasto con il parquet, le pareti e il soffitto. L’intera parte superiore era strutturata come il fianco di un vascello pirata, da cui sbucava il quadrante. Un unico grosso boccaporto era probabilmente riservato al cucù. Doveva essere a forma di cannone, per forza di cose. Il fianco sinistro ospitava la prua del vascello, decorata con una minuscola sirena. Per simmetria, il capitano della nave stava a poppa, un minuscolo figuro truce al timone, con quella che poteva essere una gamba di legno, al timone del veliero. L’ultimo intaglio era sulla vedetta, in cima, che fissava l’orizzonte. Il quadrante aveva tre lancette che sembravano arpioni e, invece delle ore, presentava i punti cardinali. A Sterling sembrava decisamente esagerato e si immaginò di rispondere a qualcuno che chiedeva l’ora con “manca un quarto alle sudest”. Aprì lo stretto sportellino per vedere il pendolo e, magari, rimetterlo in moto. Con suo stupore, invece di un braccio terminante in un peso di ottone, trovò la lunga catena di un’ancora, che si allungava fino alla base. Se avesse avuto un senso, ci sarebbe dovuto essere un meccanismo per accorciarla, come per “levare l’ancora” e permettere all’orologio di riprendere la propria funzione. Gli venne in mente Peter Pan e ci mise un attimo a capire di aver connesso la nave pirata al tempo fermo. Probabilmente non era quello che passava per la testa a chi aveva creato l’orologio. A ben pensarci, era lo stesso orologio a essere passato per la testa di chi l’aveva creato, in effetti!

Finito di esaminare lo strano orologio, valutò le proprie opzioni. Delle strette scale portavano al piano di sopra, terminando in uno stentato pianerottolo che dava su una porta chiusa a chiave. Il legno della porta era tanto scuro da essere quasi nero e tanto duro e robusto che avrebbe potuto essere pietra. Non che importasse, se c’era una cosa sulla quale Elior era stato chiaro, era che rompere qualsiasi cosa poteva avere effetti atroci sul cliente, cioè la sesta regola. L’unica alternativa pratica era la porta principale della baita. Gettò uno sguardo fuori dalla finestra, osservando il timido sole che sfiorava la neve più che scioglierla e nuvole di cotone all’orizzonte.

Quando aprì la porta della casetta, di fronte a sé, non trovò che il buio più cupo.

«Beh, per stare in tema, avrebbe potuto bloccare la porta con la neve!» disse solo a se stesso, tanto per ricordarsi il tono della propria voce. Era importantissimo non perdere la concentrazione su di sé, per non rischiare di essere assorbiti dall’ambiente. Quella era la seconda regola.  Richiuse la porta e sospirò. Se non poteva andare fuori o in alto, non gli restava che andare in basso: doveva esserci una botola o un altro tipo di accesso alla cantina. Si guardò attorno e, dopo una breve riflessione, diresse il proprio passo sicuro verso una delle due botti, per poi spingerla di lato. Con proprio stupore, l’altra botte si mosse simmetricamente, come se fossero collegate da un meccanismo invisibile o nascosto. Effettivamente fu il movimento dell’altra botte a rivelare una botola dotata di anello per aprirla. Non aspettò di essere invitato e l’aprì facendo perno sull’anca. Una scala a scomparsa si aprì di conseguenza, svolgendosi fino a sbattere rumorosamente contro il pavimento della cantina, sollevando un dito di polvere, illuminato dalla luce proveniente dalle spalle di Sterling. La stanza non era altrimenti illuminata e, da quello che aveva trovato, non aveva candele per migliorare la situazione. Tuttavia non sembrava essere necessario: nel cono di luce proveniente dall’alto, su un tavolino dalla forma ottagonale -che sarebbe stato un arredo assai più gradevole al posto delle botti- era appoggiata una singola chiave. Sterling le lanciò un’occhiata interrogativa e questa scintillò in risposta. Scese le scale in guardinga, cercando di scrutare l’oscurità tutto attorno a sé. Arrivò fino a un passo dalla chiave, chiedendosi se fosse solo la propria soggezione o l’ostilità dell’ambiente a rendere l’aria più pesante. Allungò la mano per prendere la chiave, ma esitò notando qualcosa pinzato sotto alla gamba del tavolino.

Era un semplice bollino di colore rosa-violaceo. Aveva la forma rettangolare, a meno di tondi tagliati dagli angoli e al centro dei lati più lunghi, con le proporzioni familiari in cui fanno le tessere e le carte di credito, ma appena più piccolo. Il suo cuore perse un battito e lo afferrò senza esitare. Non c’erano dubbi: la palette di colori era completamente estranea al resto dell’ambiente, dai toni marroncini e vagamente cupi, mentre il bollino spiccava con le sue tinte quasi elettriche, reminiscente degli anni 50. Al centro esatto del coupon c’era una breve serie numerica:
 
26267208486

«Santa merda, Elior ha ragione!» esclamò tra sé e sé. Infilò repentinamente il pezzetto di carta in tasca. Doveva uscire da lì e dire al fratello che cosa aveva scoperto e cominciò a ripetersi la sequenza di numeri per tentare di memorizzarla. A dirla tutta, non era il solo motivo per cui tentava di affaccendarsi in qualcos’altro: sentiva su di sé la costante minaccia di qualcosa che lo fissava, facendogli rabbrividire i peli sulla nuca. Inspirò a fondo -ventisei, ventisei, settantadue- e valutò a spanne quanto sarebbe stato veloce risalire la scala da cui era disceso. Scrutò l’oscurità e gli sembrò di vedere -zero, ottantaquattro, ottantasei- qualcosa che si muoveva strisciando. Deglutì, si preparò psicologicamente e fece per tornare sui propri passi.
Prima di mettere il piede sul gradino, si allungò oscillando all’indietro e afferrò rapidamente la chiave, per poi scattare verso l’entrata. Un tentacolo nero, come se fosse il proseguimento della stessa oscurità della stanza, saettò verso il suo polso, ma Sterling era veloce e, prima che potesse prenderlo, era già a metà delle scale. Non aveva il tempo di osservare che cosa lo stesse inseguendo, specie quando sentì le scale sotto ai suoi piedi tremare e venire strappate dalla botola. Come proseguendo la propria corsa, Sterling saltò verso la luce, afferrando con entrambe le mani il bordo -la chiave che ruzzolava dentro la stanza sopra di sé-, mentre il meccanismo che faceva svolgere la scala e le schegge di legno rimaste dal primo gradino gli si piantavano dolorosamente nei polsi. Sterling strinse i denti e sfruttò il resto dell’impulso per tirarsi su fino al petto, per poi dondolare nel vuoto le gambe e il bacino e darsi lo slancio per finire di issarsi dentro la stanza. Un tentacolo nero gli afferrò il piede destro prima che fosse al sicuro e Sterling si afferrò contro la botte per tentare di non venire tirato nuovamente dentro la cantina. Era troppo larga per essere circondata con forza, ma alcune dita riuscirono ad entrare nel solco tra le assi che la formavano, mentre le unghie delle altre si facevano strada nel legno, spinte dall’adrenalina. Tuttavia era stata una mossa istintiva e, in un lampo di razionalità, Sterling si vide trascinato insieme alla botte, che non era poi troppo pesante. Con propria sorpresa, invece, la botte non vacillò nemmeno ed ebbe il tempo di sfilarsi la scarpa, usando l’altro piede.

Prima ancora di mettersi in piedi, Sterling richiuse la botola con entrambe le mani, per poi tirare un sospiro di sollievo, brutalmente interrotto da un forte colpo proveniente dal basso. Quella cosa poteva salire senza usare le scale?! Tenne chiusa la botola con il proprio peso, ma era una situazione di impasse: forse non era in grado di uscire fintanto che lui fosse rimasto a tenere chiusa la botola, ma non poteva andare da nessuna parte senza liberarlo. Poteva aspettare che si stancasse? -ventisei, ventisei… ottantaquattro?!- Scosse la testa per rimproverarsi di aver già dimenticato il numero. Il suo sguardo cadde sul vecchio orologio a pendolo, proprio di fronte a lui e, quindi, all’uscita della botola. Era un rischio, ma poteva funzionare.
Attese un altro colpo sotto di sé -avevano una certa frequenza-, per poi scagliarsi verso l’orologio, lasciando libero il passaggio. In modo frenetico aprì lo sportello e afferrò con la mano destra la catenina dell’ancora, per poi cominciare a muoverla freneticamente a destra e a sinistra. Con un boato -ventisei, settantadue! Non ottantaquattro!- una massa informe di tentacoli proruppe fuori dalla botola, per poi ammassarsi in due pilastri di un nero violaceo, come liquami petroliferi. Sterling lanciò una rapidissima occhiata al quadrante, ma non fece in tempo a realizzare la posizione delle lancette e il panico gli impediva di smettere di fissare quella cosa. Senza sforzo apparente, la creatura si issò fuori dalla cantina, torreggiando sopra di lui. Aveva l’aspetto generale di un gorilla coperto di pece, con due occhi vacui e vagamente rettiliani che perforavano le orbite incavate, ma, come se fosse un incubo lovecraftiano, al posto della bocca e delle quattro zampe, aveva dei sottili tentacoli di un nero lucente. Fissò Sterling inclinando la testa, per poi scrollarsi come un cane bagnato, gesto al quale Sterling si aspettò erroneamente di vederlo schizzare inchiostro in giro per la stanza. La sua mano destra continuava a sbattere tra le vicine pareti dell’orologio, facendo muovere le lancette. Quanto velocemente? Tra quanto sarebbe scattato il cucù? Sterling non ne aveva idea. Senza fretta, la creatura si avvicinò all’uomo, il cui battito frenetico del cuore riempiva la testa e le orecchie. Mano a mano che si avvicinava, i tentacoli sulla testa -se così si poteva chiamare- si torcevano e si sollevavano verso l’alto. Immaginate di sollevare il labbro superiore di una persona, ma, invece di essere tenuto attaccato alla mascella sotto al naso, continui fino a rivelare prima i denti e quindi, superati gli zigomi, l’intero teschio: questo era l’effetto complessivo del fenomeno che si manifestava sotto gli occhi atterriti di Sterling, con la sola differenza che, invece di essere una persona, era un mostro diverse volte più grande di lui e, invece di rivelare un teschio umano, mostrava una fila di denti affilati che si andavano separando in due file contrapposte, pronte a penetrare nelle sue carni e accompagnarlo dentro alla profonda oscurità all’interno del ventre
della bestia.

E, quando il mostro era tanto vicino che Sterling poteva notare la trama vagamente marmorea dei suoi denti, l’orologio scattò il proprio cucù, aprendo il boccaporto della nave e sparando una minuscola, ma potente, palla di cannone proprio al centro del cranio mostruoso.

L’orrore vacillò, ferito gravemente, emettendo uno strano verso che sembrava più quello di una caffettiera con troppa acqua che qualcosa che potesse emettere un animale. Non c’era tempo per pensare e Sterling scattò in piedi e, con un calcio, lo spinse nuovamente dentro alla botola. In un primo momento sembrò vano, mentre i tentacoli della creatura la facevano sembrare troppo grossa per rientrare nel buco da cui era uscita, ma scivolarono giù come inchiostro nello scarico del lavandino. Prima che Sterling potesse richiudere la botola, sentì il tonfo umido emesso dalla caduta del mostro. Sapeva che non era morto e che avrebbe dovuto coprire l’uscita con una delle due botti e che non avrebbe avuto molto tempo. Esitò fissando la prima botte, quella che aveva spostato, ma gli venne in mente come sembrasse impossibile riportarla sui propri passi, così passò alla seconda. Il meccanismo che le faceva muovere insieme sembrava funzionare adeguatamente per riportare la prima nella posizione originaria, coprendo la botola e mettendo il ragazzo finalmente al sicuro.

Sterling si appoggiò ansante sulla seconda botte, cercando di calmare il respiro e il battito frenetico del cuore. Rabbrividì sentendo i colpi provenienti dalla cantina quando la bestia riprese a tentare di uscire, ma si tranquillizzò vedendo che la botte sembrava inamovibile. Ringraziò il cattivo gusto nell’arredamento che tanto lo aveva infastidito e, dopo aver ripassato il codice scritto sul biglietto -ventisei, ventisei, settantadue, zero, ottantaquattro, ottantasei-, si avviò verso il primo piano della baita. Inserì la chiave nella serratura e si sentì leggermente stupito quando vide l’intera porta ruotare attorno alla serratura, entrando nel pavimento un po’ di più a ogni mandata. Quando la porta fu interamente sparita, eccetto la piccola sezione che comprendeva la serratura, quest’ultima venne risucchiata lentamente dall’intercapedine nella parete. Un forte sole quasi lo ferì agli occhi e si ritrovò sul ponte di un vascello, dolcemente cullato dalle onde. Pacifici gabbiani solcavano la brezza marina che gonfiava le vele dell’albero maestro.
Dalla calma e la serenità che la nave portava con sé, capì che il proprio lavoro era finito. Recuperò un grosso cannocchiale e si arrampicò sulla vedetta. A tribordo vide un’isola in lontananza e, senza buttare l’ancora, calò una scialuppa e si diresse verso terra. A ogni vogata di remi, la luce del sole divenne più intensa, finché Sterling non riprese conoscenza, la mano di Elior ancora sulla spalla. Si schiarì la voce e sentì un cenno di sorpresa nel contatto del fratello.

«Ster, ci sei?»
«Sì, sì, sono fuori.»

Il fratello esitò ancora un attimo prima di ritrarre la mano «E… com’è andata?»
Sterling si strinse nelle spalle, finalmente rompendo il contatto «Direi bene. Il mostro era brutto, stavolta»
«Eh, il subconscio è una brutta bestia»
«In questo caso alla lettera. Tipo una specie di gorilla-piovra. Però credo di aver risolto qualche problema, era tipo bloccato in una stanza.»
«Brutta?»
«No, più… scomoda. Tranquilla, ma un mortorio, nessun posto dove andare.»
«Una zona di confort, quindi. Direi che ce lo si poteva aspettare dal suo profilo»
«Oh, ma non è quello il punto: avevi ragione, Illy! Ho trovato qualcosa!»
Dopo una leggera smorfia di dissenso per il soprannome, il fratello si illuminò in volto «Qualco… aspetta, sei sicuro?!»
«Sì, tipo un biglietto con dei numeri… ventisei, ventisei… settantadue, zero, ottantaquattro… ottantadue?»
«Non ti sforzare adesso, devi riprenderti dal viaggio.» Nonostante stesse razionalizzando, Elior sembrava visibilmente emozionato «Per ora vatti a riposare, io mi occupo del cliente.»
Lusine si intromise timidamente: «Elior, se vuoi ci penso io. Anche tu hai l’aria stanca»
Suo fratello le lanciò un’occhiata, mentre parve pensarci. Poteva immaginare che cosa gli stesse passando per la testa: se non fosse rimasto con il cliente, avrebbe irresistibilmente riempito Sterling di domande. Così scosse la testa: «No, Lou, ti ringrazio. È stato rapido e fare da legame è meno stancante che fare il viaggiatore. Piuttosto, se puoi, prepara i documenti, io faccio una visita al cliente quando si risveglia.»

Sterling avrebbe voluto contraddirlo, ma si sentiva la testa pesante e non desiderava che andare a riposare e una tazza di caffè, per quanto fosse indeciso sull’ordine delle cose. Mentre si alzava fissò l’uomo di fronte a sé. Era nella quarantina e manteneva un’aria impassibile. Nelle visite passate aveva mostrato una tendenza all’apatia e lamentava di essere depresso e insoddisfatto dalla vita. Aveva raccontato loro di essere un contabile bancario e di avere uno stabile matrimonio senza figli. Sterling aveva scoperto che aveva un’amante a cui pareva tenere più che alla moglie e, forse, aveva fatto qualche favore a persone dalle attività poco chiare. Normalmente non avrebbero accettato il suo caso, ma erano quasi tredici anni che lavorava per la filiale in cui la sua famiglia aveva il conto e non potevano lasciarsi scappare un’occasione del genere. Era un rischio che era disposto a correre.

Non che avesse scelta, in fin dei conti.
   
 
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