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Autore: Saelde_und_Ehre    17/11/2019    6 recensioni
Polonia, settembre 1939.
L'offensiva tedesca è appena iniziata: i bombardieri sorvolano il cielo come oscuri presagi di morte, le truppe terrestri avanzano mietendo un successo dopo l'altro. Assediata su due fronti, dopo una strenua resistenza, la Polonia è costretta a capitolare.
Il tenente Friedrich von Kleist e il maggiore Hans Bühler sono due ufficiali di fanteria della Wehrmacht che prestano servizio nell'operazione. Il primo è un idealista, la cui condotta cavalleresca spesso si scontra con la ferrea disciplina dell'esercito; il secondo è un giovanissimo comandante di battaglione che si è fatto rapidamente strada nei ranghi dello Heer. Sono partiti per la guerra animati dai migliori propositi, ma presto entrambi dovranno scontrarsi duramente con un dilemma all'apparenza irrisolvibile: fino a che punto è lecito sfidare la ferrea disciplina dell'esercito, in nome di ciò che si reputa giusto?
Una storia di cameratismo e di guerra, con molta azione e una buona dose di angst, in cui Eros e Thanatos s'intrecciano, ancora una volta, indissolubilmente.
Genere: Angst, Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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XVI.
Wenn alle untreu werden...

A quelle altezze, il chiarore dell’alba era un tripudio di sfumature color pesca e pervinca; la gloria del sole virava dal rosso verso l’oro, offuscando le pallide stelle della notte e soffondendo le nubi di un bagliore aureo.
Mentre saliva, sempre più su, accompagnato dal ronzio del motore, il tenente Manfred von Kleist si beò di quella sublime visione, senza perdere di vista l’orizzonte che, per quanto veloce fosse il suo aereo, rimaneva sempre distante e irraggiungibile. Dietro di lui, i Messerschmitt dei suoi camerati erano uno stormo compatto.
Infine, li vide. Simili a enormi gabbiani neri, i P.11 avanzavano in formazione serrata verso i caccia tedeschi, più numerosi di quanti von Kleist si fosse aspettato: l’alto comando polacco doveva aver dispiegato tutto ciò che restava delle sue forze aeree per contrastarli, in un’ultima disperata difesa.
“Pauke! Pauke!” annunciò in frequenza, segnalando la loro presenza.
Subito dopo diede manetta e si mise in posizione d’attacco, puntando il più avanzato dei polacchi. Forte della sintonia che s’instaurava tra capopattuglia e gregario, il sottotenente Weber lo seguì per coprirgli le spalle, pronto a intervenire per difenderlo.
Manfred fu il primo a ingaggiare lo scontro; il polacco scartò, evitando di stretta misura i suoi proiettili, poi virò bruscamente e si sottrasse al suo tiro. Con la sicurezza rafforzata dall’istinto, il tenente manovrò per metterglisi in coda, lo prese di mira, azionò le mitragliatrici e fece fuoco. Di nuovo, il P.11 derapò guizzando via, richiamò incurante dei pezzi di rivestimento che si staccavano dal suo timone e, disimpegnato il suo principale avversario, si lanciò addosso al gregario che lo proteggeva.
“Franz!” urlò von Kleist allarmato.
“Ce la faccio!” gli rispose la voce di Weber attraverso il segnale radio.
I polacchi, nel frattempo, si erano fatti più aggressivi: come un uccello trafitto da un dardo, uno dei Messerschmitt si rovesciò e precipitò in vite di fronte allo sguardo impotente del capopattuglia.
Manfred strinse i denti: Franz aveva subito risposto al fuoco del polacco, ma era così impegnato nello scontro da non accorgersi che un altro P.11 gli stava piombando alle spalle. Senza indugio, il tenente virò e gli fu subito alle calcagna: lo incalzò, costringendolo a una manovra disperata, gli scaricò addosso una raffica di traccianti, quindi si sganciò con un movimento fluido e cabrò, mentre l’aereo nemico perdeva quota lasciando dietro di sé una scia nera.
“Grazie, Manfred!” esclamò Weber.
Von Kleist borbottò in frequenza qualcosa che suonava come un ‘dovere’, schivò un’altra salva di proietti e si lanciò in picchiata verso la preda successiva, fendendo le nubi con le sue ali d’acciaio.
La luminescenza dorata aveva ormai abbandonato il cielo, gli aerei ricamavano scie bianche su una tela d’azzurro; il vento fischiava e i motori ruggivano facendo ribollire l’aria.
Un polacco comparve nel suo campo visivo, il muso puntato verso di lui. Manfred scartò, si allontanò dalla mischia, compì un Immelmann per riassicurarsi il vantaggio sull’avversario. A quel punto dovette reprimere un’imprecazione: era accerchiato, circondato da almeno quattro caccia che come uno stormo di rapaci si contendevano l’ambito bottino. Ne crivellò uno, schizzò via dalla sua traiettoria, inseguito da una tempesta di traccianti. “Scheiße!” ringhiò.
Uno dei P.11 precipitò, probabilmente abbattuto da Weber.
“Attento, Manfred!”
Von Kleist si guardò intorno sentendosi un uccello in gabbia, privato di ogni via di fuga. Nugoli di pallottole fischiavano e tintinnavano cercando di tarpargli le ali, il motore fuori giri muggiva in preda a un parossismo angosciante. Soffocò un’imprecazione tra le labbra, mentre i battiti del suo cuore acceleravano e la fronte s’imperlava di sudore freddo.
Prima ancora che il suo sguardo potesse intercettare la raffica, su un lato del parabrezza si disegnò un fitto reticolo di crepe. Pezzi di rivestimento si staccarono come carta velina; l’aereo scivolò d’ala con un movimento brusco e il giovane dovette accanirsi sui comandi per ridargli un assetto stabile, mentre i nemici continuavano a sciamargli intorno.
“Signor tenente!” gridò uno dei suoi compagni.
“Manfred!”
Von Kleist, con le mani che gli tremavano, tentò una manovra disperata, ma la ragnatela sul vetro era così fitta che la vista dei nemici alla sua destra era ridotta a confuse macchie verde oliva. Proferì mentalmente una sequela di improperi; cercò con lo sguardo il suo gregario ma non riuscì a vederlo. “Franz!”
In quel momento, dal muso del Me 109 si levò un fumo nero e denso, un lampo arancione lo abbagliò e un odore acre lo avvolse facendolo tossire. Ebbe appena il tempo per vedere un’ala del caccia di Franz che si spaccava in due e il fungo bianco del paracadute che si apriva, poi il motore emise un gemito straziante e il suo aereo dilaniato iniziò a perdere quota.

Come in una sequenza accelerata, dai contorni dinamici e indistinti, la terraferma si avvicinava al muso del suo aereo in una caduta vertiginosa. Intorno a lui una matassa confusa di nuvole che si torcevano con indifferenza intorno alle sue ali; sotto di lui una distesa di città tagliata a metà dal corso placido della Vistola.
Cercando di arginare il tremito alle mani, Manfred annaspò con la barra in modo da stabilizzare la quota e, individuata una striscia di terra adatta all’atterraggio, si portò in sottovento: si trovava ormai troppo basso per potersi paracadutare, e quella era l’unica possibilità che gli restava per toccare il suolo indenne prima che il serbatoio, che sprigionava minacciose zaffate di fumo, esplodesse.
La discesa verso la terraferma fu come una lenta discesa verso gli inferi, un’agonia per l’aereo e un incubo per il suo pilota. Fu quasi con un sospiro di sollievo che Manfred virò finalmente in base, ridusse la velocità e assunse un assetto cabrato preparandosi all’atterraggio.
Il Messerschmitt rovinò per terra scivolando sulla pancia, le ali si fracassarono col rumore di un enorme rottame accartocciato, l’impatto mandò i vetri della capottina in mille pezzi. Quando la caduta si arrestò, il pilota si accasciò senza fiato sul sedile, trattenuto dalle cinghie di sicurezza, e sulla scena calò un silenzio tombale.
Dolorante, ridestato dal calore dell’olio che bruciava, Manfred si riscosse dal suo stordimento. Come un sonnambulo sollevò il tettuccio, si lasciò scivolare giù dall’ala e, abbandonati il casco e gli occhiali, si trascinò via correndo e incespicando nell’erba alta. Giunto all’ombra di un albero, esausto, cadde lungo disteso sul prato mentre l’aereo si estingueva in un lampo accecante.

“Dite che li ritroviamo prima che… Bismarck!”
Krause dovette tirare con forza il guinzaglio nel tentativo di richiamarlo all’ordine: il cane aveva drizzato le orecchie, puntando il muso verso la corona d’alberi che delimitava il prato.
“Otto!”
“Sempre che non siano finiti in un campo minato”, sentenziò tetro il maresciallo Eichmann, la mano alla pistola, “qui siamo al confine con la zona controllata dal nemico.”
A nulla valsero gli sforzi di Krause: il cane iniziò a scuotere la coda con più veemenza e a tirare irrequieto, quasi trascinandolo in avanti. “Andiamo a vedere, signor maresciallo: raramente il suo fiuto si sbaglia”, lo assecondò infine, sciogliendo il guinzaglio. “Deve aver trovato qualcosa.”
Otto scattò deciso verso la boscaglia, di tanto in tanto voltandosi indietro per assicurarsi che il gruppo di ricognizione gli tenesse dietro.
Sbucarono in un campo di spighe selvatiche ingiallite dal sole e alla loro vista si palesò il relitto carbonizzato di un aereo da caccia tedesco: per quel poco che non era stato brunito delle fiamme, riuscirono a intravedere ancora il giallo del muso e l’elica dipinta di bianco e di nero. Precipitando per terra aveva scavato un solco che si apriva come una profonda ferita; l’erba circostante era bruciata nell’esplosione del motore. Quando si avvicinarono per esaminarlo, si accorsero che la capottina era spalancata e all’interno non c’era traccia del pilota, segno che doveva essersi paracadutato o che probabilmente aveva abbandonato l’aereo prima che il fuoco lo divorasse.
“C’è un uomo a terra!” esclamò Schreiber, che aveva seguito il cane fino ai margini della macchia d’alberi.
Accortosi della loro presenza, l’uomo si riscosse come un animale spaventato e abbassò la pistola solo quando riconobbe in loro altri tedeschi. Sopra l’uniforme grigioblu, sporca di erba e terra, portava un giubbotto di pelle da aviatore. “Oh, ma è un uccellino caduto dal cielo,” osservò Eichmann.
L’aviatore – un tenente, riconobbero – si avvicinò con passo claudicante: il volto coperto di sangue era quello di un ragazzo poco più che ventenne, e sul petto spiccavano la medaglia della guerra civile spagnola e il distintivo di pilota.
“Serve aiuto, signore?” chiese allora il maresciallo.
Sempre reggendosi su piedi malfermi, il tenente fece per dire qualcosa, ma dalla sua bocca riarsa non uscì alcun suono. Con le mani mimò il gesto di bere e Schreiber, solerte, gli passò la sua borraccia.
Quando si fu dissetato, il giovane emise un sospiro affranto. “Sono stato abbattuto in volo. La radio è andata, non riesco più a mettermi in contatto con gli altri membri dello Staffel. Quello è il mio aereo…” disse, indicando la carcassa di ferro alle sue spalle. “O meglio, lo era.”
Tra Eichmann, Krause e Schreiber ci fu un fugace gioco di sguardi, poi il primo disse, a nome di tutti: “Può venire con noi, tenente. Non è sicuro stare qui, siamo troppo scoperti: ci penserà il nostro comandante di battaglione a trovare un modo per avvertire il suo stormo.”
“La ringrazio, maresciallo.”
Prima di rimettersi in cammino, Schreiber richiamò il cane, e l’aviatore, sempre zoppicando, si accodò al gruppo.
“Secondo lei, signor maresciallo, che penserà il Vecchio?” chiese Krause in un sussurro, dopo un po’ che procedevano in silenzio affondando i piedi nell’erba alta.
“Bühler, in questi giorni?” Eichmann roteò gli occhi, alludendo implicitamente allo strano comportamento del maggiore. “L’ultima cosa che si aspetta è vedersi arrivare un uccellino da rispedire al mittente…”
A quelle parole, di cui doveva aver captato solo qualche stralcio, il pilota parve animarsi tutto d’un tratto. “Scusate… Bühler, avete detto? Il maggiore Hans Bühler?”
“Sì, signor tenente, proprio lui.” Eichmann e Krause si scambiarono un’occhiata interrogativa; il primo sollevò un sopracciglio e si voltò verso il giovane ufficiale. “Per caso lo conosce?”
“Il suo aiutante di campo, il capitano von Kleist, è mio fratello.”
“E qual è il suo nome, tenente?”
“Manfred von Kleist.”

“Manfred! Manfred!” gridò una voce.
Otto emise un ringhio, il maresciallo e i due soldati si guardarono perplessi, il tenente von Kleist dilatò gli occhi. “Weber!” esclamò poi, agitando una mano. “Weber, sono qui!”
Qualche istante dopo, dalla boscaglia emerse la figura allampanata di un altro giovane pilota, il volto pallido adombrato dagli occhiali sistemati sulla fronte. All’apparenza illeso, avvolto nell’imbragatura, aveva il paracadute negligentemente accartocciato sulla spalla e una pistola nella destra.
“Sottotenente Franz Weber, gregario del tenente von Kleist,” si presentò.
Spiegò in breve di aver dovuto abbandonare il suo aereo distrutto e di essersi paracadutato nella prima striscia di terra disponibile, senza poter dare alcuna indicazione sull’atterraggio alla base operativa del suo stormo.
“Non si preoccupi, signor sottotenente,” disse allora Eichmann, “il nostro battaglione è accampato in un casolare poco distante da qui. Potete venire con noi, abbiamo la radio e un medico da campo.”
Weber ringraziò timidamente, poi passò un braccio sotto l’ascella di von Kleist per aiutarlo a camminare ed entrambi si apprestarono a seguirli senza dire una parola.
“Rettifico: due uccellini, di cui uno ferito,” borbottò il maresciallo, rivolto a Krause.

Il maggiore Bühler si trovava in un locale angusto adibito a base operativa, dietro un tavolino sbilenco sul quale erano poggiate cataste di fogli e cartelle, una tazza vuota e una macchina da scrivere. Dalla porta aperta i furieri entravano, gli riferivano brevi comunicazioni e poi tornavano indietro.
L’unica luce, una lampadina che penzolava dal soffitto appesa a un filo sottile, illuminava il suo volto facendolo apparire ancora più pallido.
Manfred colse nella sua espressione qualcosa che stonava con la consueta imperturbabilità che lo contraddistingueva, ma giudicò che fosse meglio astenersi dal fargli domande inopportune. “Il nostro aeroporto si trova quasi al confine con la Prussia Orientale, signore,” spiegò invece.
Hans corrugò appena la fronte, poi si avvicinò alla postazione di fortuna, ricavata da due sedie allineate, su cui era stata installata la radio da campo, e si rivolse all’operatore. “Hirsch, mi metta in contatto col comandante dello stormo Pik As.”
Il sottufficiale trafficò con le manopole dell’apparecchio, quindi cedette il posto al maggiore, che indossò le cuffie e scambiò un paio di rapide, concise comunicazioni con l’interlocutore che si trovava all’altro capo. Quando ebbe riagganciato, si volse di nuovo verso Manfred scuotendo la testa. “Al momento non posso rimandarvi indietro, ma prometto che farò tutto il possibile. Intanto lei e il suo gregario potete restare qui con noi e riposarvi.”
“La ringrazio, signor maggiore.”
Hans annuì. “Qui le sistemazioni sono un po’ spartane, ma c’è posto anche per voialtri due”, soggiunse poi, lasciandosi andare a un contegno leggermente più informale. “Dormiamo e mangiamo a pochi passi dal luogo in cui si spara, ma la baracca è ben difesa.”
“E mio fratello dov’è?”
Manfred si avvide che, non appena lui ebbe finito di pronunciare quell’innocente domanda, il maggiore increspò le labbra e i suoi occhi furono attraversati da una sfumatura fosca. Prima ancora che lui potesse domandarsene il motivo, tuttavia, tornò ad assumere un contegno impenetrabile. “È uscito due ore fa con un plotone… si è offerto per andare a tagliare la ritirata dei nemici,” rispose, fissando dritto di fronte a sé. “Abbiamo combattuto tutta la notte.”

Conclusa la missione senza risultati degni di nota, il capitano von Kleist rientrò alla base senza rivolgere la parola a nessuno. Erich lo vide scomparire al piano di sopra per fare rapporto al comandante di battaglione, per poi ridiscendere le scale, una decina di minuti dopo, accompagnato da un tenente della Luftwaffe che, fatta eccezione per i capelli di un biondo leggermente più scuro, gli somigliava in tutto e per tutto.
Solo allora si accorse che gli aviatori presenti erano ben due: l’altro stava su una sedia in un angolo, con le gambe accavallate e un gomito appoggiato al davanzale della finestra, lo sguardo rivolto fuori. Zoppicando, il tenente lo raggiunse e von Kleist andò a sedersi al pianoforte che un gruppo di soldati, durante un giro d’esplorazione, aveva trovato nella soffitta di uno degli edifici occupati.
Erich prese posto sugli scalini per consumare il suo pasto, e il cane del plotone, senza che egli lo richiamasse, tornò fedelmente ad accucciarsi ai suoi piedi. La sala comune era gremita di soldati che bivaccavano per terra, chi giocando a carte, chi mangiando e chi parlando della spedizione che li aveva tenuti occupati l’intera mattinata; ma quando il capitano iniziò a suonare, il chiacchiericcio s’interruppe lasciando libero spazio alle note del pianoforte. Era un pezzo a lui sconosciuto, che però lo rapì subito grazie alla sua potenza evocativa, generando nella sua mente celestiali visioni di magia ed eroismo. Forse non sarebbe mai stato in grado di trovare le parole per descriverle o rievocarle in seguito, ma in quel momento si trovò a pensare che quello fosse uno dei brani più belli che avesse mai ascoltato, e tanto gli bastò per lasciarsi trasportare dalle sue armonie.
“Parsifal,” disse una voce alle sue spalle. “Suona bene il capitano, non crede, signore?”
Kühn, voltatosi, si trovò di fronte il soldato Schreiber, che si era seduto poco distante da lui, e con un cenno lo invitò ad avvicinarsi. A lui era capitato rare volte di udire un pianista suonare dal vivo, e doveva la sua scarna conoscenza di Wagner, Bach, Mozart e Beethoven all’insegnante di tedesco della sua scuola, grande appassionata di musica, che talvolta portava i suoi allievi alla Konzerthaus di Berlino. “È molto bravo,” convenne.
“Quando ero ancora nella Hitlerjugend, mia madre mandava me e mia sorella a lezione di pianoforte,” ammise l’altro con una punta di rammarico, “ma non ero granché capace – si può dire che non sapevo andare oltre il livello da principiante – e alla fine decise di ritirarmi dalla scuola di musica. Però mi piaceva, e quando mi capita l’occasione mi diverto ancora a strimpellare qualche ballata.”
Erich sorrise. “Perché, allora, non suoni qualcosa anche tu?”
“Oh…” Schreiber arrossì fino alla punta delle orecchie. “Oh, no, è meglio di no.”
Nel frattempo, il capitano aveva terminato l’esecuzione e i soldati facevano scrosciare gli applausi.
“Complimenti, signore!” esclamò qualcuno.
Von Kleist, nonostante la tiepida accoglienza, si schermì e rivolse loro un rigido inchino del capo. A quel punto, l’aviatore biondo scattò in piedi e si avvicinò a lui; si scambiarono due rapide frasi e il capitano gli cedette il posto senza dire altro. Mentre il pilota attaccava a suonare la Cavalcata delle Valchirie, Erich seguì il capitano con lo sguardo mentre si accostava alla finestra con le braccia allacciate dietro la schiena: non riusciva ancora a capire perché, per quanto lui si fosse sforzato di agire in linea coi suoi insegnamenti, l’altro lo avesse richiamato all’ordine e redarguito con tanta durezza per aver tentato di volgere a vantaggio del plotone un inaspettato errore tattico dei nemici.
“Signor capitano, faccio rispettosamente notare che, se avessimo sfruttato quella falla, l’operazione si sarebbe potuta concludere con una nostra vittoria,” aveva ribattuto lui. “Avremmo potuto proseguire l’avanzata e…”
Von Kleist lo aveva indotto a tacere con un gesto perentorio. “La guerra non si fa con i se e con i ma, in assenza di certezze a cui appigliarsi. Se ci fossimo esposti troppo, sottotenente, quella mossa ci avrebbe portato altre perdite. Richiami subito i suoi soldati: arretriamo in posizione difensiva.”
Erich finì di mangiare e mise da parte la gavetta, imponendosi di smettere di rimuginarci su.
Tornò a rivolgere l’attenzione al pianoforte: l’ufficiale pilota, che apprese essere fratello del capitano von Kleist, aveva finito di suonare e si stava godendo le acclamazioni.
“Magistrale, signor tenente!” esclamavano gli uomini riuniti a semicerchio intorno a lui, quasi spellandosi le mani a forza di applaudire. “Bravo!”
“Cosa volete ascoltare, adesso?” domandò il giovane in tono affabile.
“Qualcosa di Schlager, signore!”
Visto che i soldati non riuscivano a trovarsi d’accordo sul titolo della canzone prescelta, il tenente sorrise sotto i baffi e chiamò a sé l’altro aviatore, invitandolo a sedersi sul panchetto accanto a lui. “Allora decidiamo noi”, decretò alla fine. “Conoscete Hans Albers?”
“Ottima scelta, signor tenente!”
“Quale canzone preferite?”
“La Paloma!”
“Auf der Reeperbahn nachts um halb eins!”
“Hamburg an der Elbe!”
Di nuovo piovvero le richieste più disparate dal repertorio del cantante, senza che si giungesse a una decisione unanime e, nel momento esatto in cui le dita di von Kleist si posarono sui tasti del pianoforte, i due iniziarono a cantare Flieger, grüß mir die Sonne. 1
La canzone celebrava la libertà incondizionata del volo, l’assenza di confini che permetteva di raggiungere altezze e distanze impensabili, fino quasi a toccare gli astri del cielo, ma i fanti la presero come una questione personale e la situazione degenerò rapidamente in una zuffa amichevole ma chiassosa tra le due fazioni, che costrinse il capitano von Kleist a richiamarli all’ordine.

Stava calando il buio, ma i tonfi sordi dell’artiglieria continuavano a riecheggiare incessanti, dando l’impressione che la terra stessa tremasse fino a spaccarsi sotto il loro impatto. Asserragliati in quella porzione di villaggio, gli uomini di Bühler continuavano a difendere la loro postazione, costantemente sul chi va là, talvolta costretti a interrompere le loro attività per riprendere le armi in mano, e con altrettanta rapidità gli scontri si esaurivano facendo ripiombare tra loro un silenzio interrotto solo dai lamenti dei feriti.
Per chi era abituato a combattere nei cieli, la guerra terrestre assumeva connotati raccapriccianti e, come un uccello con le ali tarpate si sentiva goffo a zampettare per terra, così Manfred si sentiva fuori luogo tra le barricate, il fango e il filo spinato.
Appoggiato allo stipite della porta, guardò il cielo grigio e immaginò di trovarsi lassù a bordo del suo Messerschmitt: più volte al giorno i caccia salivano a perlustrare lo spazio aereo; non sempre riuscivano a intercettare unità nemiche prima che il carburante si esaurisse, allora tornavano alla base, rifornivano i serbatoi e ripartivano.
Quella era stata la sua quotidianità fin dal primo di settembre, anche se le battaglie combattute erano poche, contro nemici inferiori per numero e per prestazioni, ma manovrati da piloti non meno abili – fino a quando il suo aeroplano, veterano di molte missioni, si era schiantato al suolo esplodendo in una nube di fiamme.
Un rumore di passi lo riportò al presente. “Manfred.”
“Franz?”
Weber comparve nel suo campo visivo accennando un mezzo sorriso. “Ti stavo cercando.”
“Riflettevo.” Manfred scorse uno stormo di rondini che migrava verso sud, la stessa direzione in cui volavano loro ogni volta che decollavano dall’aeroporto. “Oggi è stata una giornata strana… non mi aspettavo né di combattere di prima mattina, né di finire in un campo e venire soccorso dagli uomini di mio fratello.”
“Nemmeno io. E pensare che il capitano Möller diceva che quella dell’altro giorno, secondo lui, sarebbe stata l’ultima battaglia…”
“Di sicuro lo sarà per noi due.”
“Vedila così, poteva andare peggio: potevano prelevarci i polacchi,” disse Franz. “E non era neanche una prospettiva così improbabile: pochi metri più in là e adesso saremmo in qualche centro di smistamento.”
“A quel punto avresti dovuto correre a gambe levate prima ancora di capire dove ti trovavi.” Manfred fece una smorfia. “È la prima volta che ti abbattono in volo?”
“Sì, se non contiamo l’atterraggio dietro le nostre linee dell’altra settimana…”
“A me è successo un’altra volta, in Spagna, un paio d’anni fa, con un biplano. Da allora ho pilotato sempre lo stesso aereo… quello che mi ha abbandonato stamattina.” Sospirò, lasciando libero sfogo ai pensieri che fluivano incontrollati. “Tu sei mai andato a cavallo, Franz?”
Weber, figlio di falegname, scosse la testa con un’espressione interrogativa. “No, perché?”
“Io amo andare a cavallo quasi quanto amo volare,” spiegò von Kleist. “E l’aereo era per me ciò che il cavallo è per un cavaliere: a forza di manovrarlo ci entri in sintonia, impari a sentire le correnti d’aria insieme a esso e a conoscere ogni segreto del suo funzionamento, così come cavalcando diventi un tutt’uno col tuo destriero. Mi fa uno strano effetto pensare che adesso non ne rimane altro che un povero rottame abbandonato in mezzo a un campo.”
“Sì, credo che sia lo stesso per me. Noi però ce la siamo cavata con ferite lievi, riprenderemo presto a volare,” disse Franz dopo una breve pausa. “Meglio rimetterci l’aereo che la pelle.”
“Dulce et decorum est pro patria mori”, replicò laconico l’altro, alzando le spalle. Tuttavia, non fu capace di nascondere il brivido che gli aveva percorso la spina dorsale: vista da lassù, la morte assumeva i connotati di una simbolica caduta, un lampo accecante o uno schianto improvviso – qualcosa che riconduceva inesorabilmente alle viscere della terra – ma ciò non la rendeva più remota o meno spaventosa. Forse intuendo i suoi pensieri, Franz gli poggiò una mano sulla spalla e non disse nient’altro.

Stipati su sacchi a pelo e materassi allineati per terra, i soldati trascorrevano una notte inquieta temendo l’ennesimo attacco a sorpresa. Alcuni si rigiravano nel sonno, altri grugnivano o russavano, altri ancora chiacchieravano a bassa voce, incapaci di addormentarsi. Il sottotenente Erich Kühn, disteso su un materasso accanto a Krause e Schreiber, il cane acciambellato ai suoi piedi, fissava le travi del soffitto rincorrendo frammenti di ricordi sfuggenti che si susseguivano senza posa.
“Ma non dorme mai?” udì bisbigliare.
“Chi?” biascicò Schneider con voce impastata.
“Come, chi? Il Vecchio! Guarda.”
Anche se non dicevano a lui, il sottotenente si voltò comunque verso l’angolo più remoto della stanza: Bühler era seduto su un materasso con l’espressione accigliata, le braccia incrociate sul petto e la schiena appoggiata al muro. Anche von Kleist era sveglio: stava leggendo un libro dalla copertina blu, di cui Erich da quella distanza non riuscì a leggere il titolo, mentre i due ufficiali della Luftwaffe accanto a loro dormivano indisturbati.
“Il Pervitin fa quell’effetto”, intervenne una terza voce, con l’aria di uno che volesse mostrare di saperla lunga.
“O magari è un vampiro”, riprese Schneider. “Ecco perché non invecchia.”
Krause scosse la testa. “Non ti credere, è più giovane sia di me che di Hanke.”
Il primo soldato, ignorando la precisazione, ridacchiò. “Un vampiro? Quindi se gli sventoli l’aglio sotto il naso…”
Non fece in tempo a terminare la frase: il silenzio all’esterno fu squarciato da una lunga serie di tonfi sordi e tuoni ravvicinati. Erich scattò come un veltro aizzato; i soldati iniziarono a svegliarsi, pronunciando frasi concitate tra gli sbadigli, chi allarmato dalle vibrazioni della terra e chi tirato giù dal letto dai camerati. Trascorsero tutta la notte in allerta, nascosti nei rifugi, in attesa di un attacco che non arrivò.

Per l’ennesima volta in quasi ventiquattr’ore, Manfred vide scomparire Friedrich al piano di sopra, verso la postazione di comando del maggiore, senza riuscire a scambiare con lui più di un saluto circostanziato. Dovette ammettere che suo fratello, che pure non era mai stato un tipo particolarmente loquace, in quei giorni sembrava quasi volerlo evitare di proposito, ma non riusciva a spiegarsi le ragioni di un simile comportamento.
Anche Hans, la persona più consistente che avesse mai conosciuto, sembrava essersi arroccato nel suo rifugio inviolabile. Per Manfred era quasi come uno di famiglia, vista l’amicizia intima che lo legava a suo fratello – Friedrich lo invitava spesso alla tenuta per trascorrere le vacanze con lui, oppure approfittava dei periodi di licenza per trascinarlo su e giù per la Germania, dalle Alpi al Mare del Nord; una volta, addirittura, erano stati per quasi un mese in giro per l’Italia, una sorta di pellegrinaggio laico alla maniera di Goethe, verso meraviglie artistiche e paesaggistiche di cui avevano conservato un pacchetto di fotografie alto quanto un libro – ma lo si vedeva scendere di rado tra i soldati, solo per trasmettere disposizioni o accertarsi che la situazione fosse ancora sotto controllo.
Solo verso mezzogiorno Manfred, seduto al pianoforte insieme a Franz a strimpellare una sonata di Schumann, riuscì a scorgere suo fratello ai piedi della scalinata. Si congedò in fretta e furia e gli andò incontro, notando per prima cosa la sua aria cupa. Tuttavia, Friedrich non gli negò la sua compagnia e lo guidò fuori dal casolare, verso il cortiletto occupato dai camion e dagli altri veicoli per il trasporto dei militari.
Prima di azzardare la domanda, Manfred rimase per qualche istante a guardarlo in silenzio. “Come procedono le operazioni, Friedrich?”
L’altro esalò un profondo sospiro. “Siamo ancora bloccati qui, senza sapere per quanto tempo ancora riusciremo a reggere gli assalti del nemico che cerca con tutti i mezzi di ricacciarci indietro.” Voltò appena la testa, forse per non mostrare la sua espressione contrita. “Gli effettivi della compagnia, al momento, non arrivano a centoventi: se ci arrischiassimo in campo aperto rischieremmo soltanto un’altra inutile strage. Adesso, l’unica cosa che possiamo fare è resistere a oltranza in attesa che arrivino i rinforzi: solo a quel punto potremo procedere con l’offensiva, dritti verso l’obiettivo.” Friedrich si appoggiò con le mani a un muretto mezzo crollato, sempre avendo cura di evitare il suo sguardo. “E anche a quel punto, dubito fortemente che l’avanzata verso Varsavia sarà lineare e indolore. Se c’è una cosa di cui sono sicuro – una sola cosa – è che farò di tutto affinché questa battaglia non sia vana.”
Manfred rimase di nuovo in silenzio: le parole di suo fratello, unite al tono grave in cui erano state pronunciate, avevano insinuato in lui un presentimento come di nubi temporalesche. “Ho fiducia in te, Friedrich,” disse alla fine. “Una vittoria senza onore non serve a nulla.”

Di nuovo da solo, una cappa di nuvole presaghe di pioggia che gravava sul suo capo, Friedrich continuava a rimuginare sulle parole di suo fratello.
La vittoria, l’onore… l’occasione per riparare alla sua colpa tardava a presentarsi, tenendolo incatenato in un limbo sospeso tra l’attesa angosciosa, scandita dal timore di perdere l’unico attimo favorevole, e l’urgenza di agire che portava cattivo consiglio, forzando la mano per indurla ad azioni avventate.
Ogni cosa rimaneva ai suoi occhi incerta, velata di dubbio. Come avrebbe potuto riconoscere l’attimo quando esso si presentava? E se fosse caduto preda di un’illusione ancora peggiore, destinata ad agevolare la sua disfatta?
Strinse i denti: aveva notato più volte occhiate ammiccanti al passaggio suo o di Hans, sguardi che gli si posavano addosso o sussurri che si spegnevano con ostentata indifferenza se lui osava avvicinarsi troppo. Non gli era dato di conoscere il contenuto di quelle conversazioni furtive, né poteva indagarvi, ma era ormai chiaro che la voce si stava diffondendo fin troppo in fretta.
Una gocciolina di pioggia gli si posò sul naso, ma il capitano si limitò a infilare le mani in tasca e a calarsi la visiera del berretto sugli occhi, per poi rimanere ostinatamente fermo lì dov’era mentre la spruzzata d’acqua s’infittiva: le gocce ricoprivano le mattonelle di puntini bagnati e gli inzuppavano la giubba dell’uniforme.
“Signor capitano!” sentì chiamare. Sussultò quando riconobbe la voce del sottotenente Kühn, ma decise di non destare ulteriori sospetti e rientrò, senza neanche alzare lo sguardo sul ragazzo.
“Una vittoria senza onore non serve a nulla.”
Se il battaglione era destinato a difendere quella postazione fino all’ultimo uomo, se proprio non c’era possibilità di redenzione e l’unica alternativa al disonore era la morte, allora sarebbe morto combattendo.

Hans abbassò il binocolo e si allontanò dalla finestra. La pioggia stava riempiendo di fango le trincee difensive, ma non sarebbe bastato quello a frenare un eventuale assalto da parte del nemico, che in una sola giornata si era riassicurato gran parte del controllo sulla zona.
Si versò una tazzina di caffè riscaldato e vi lasciò cadere una mezza zolletta di zucchero, quel tanto che bastava a darle un sapore accettabile. Lo sorseggiò lentamente, appoggiato alla scrivania con lo sguardo ancora rivolto verso la campagna sferzata dalla pioggia.
Dal piano inferiore giungevano le note di un brano nel quale idillio e dramma si fondevano, un brano che conosceva ormai quasi a memoria.
Il viaggio sul Reno di Sigfrido…
Avrebbe riconosciuto tra mille la mano del pianista, e quella musica fece risalire alla sua mente prepotenti ondate di ricordi, che fino ad allora erano rimasti al sicuro tra le quattro mura dell’appartamento di Potsdam. Anche se non aveva mai ricevuto un’educazione musicale, trascorreva ore intere ad ascoltarlo mentre le sue dita si muovevano agili sulla tastiera, producendo note che rendevano superflua ogni parola. Era attraverso la musica che Friedrich si esprimeva, lasciando che parlasse per loro, e le note che gli giungevano all’orecchio in quel momento erano l’espressione di uno spirito eroico, tormentato da un destino implacabile che lo avrebbe presto condotto alla rovina.
Per un attimo fu tentato di scendere, di raggiungerlo e sedersi accanto a lui, ma subito dopo scosse la testa imponendosi di rimanere concentrato sull’operazione in corso: col compito delicato che gli spettava, col peso delle responsabilità che gli erano piombate tra capo e collo, non poteva lasciarsi sopraffare dal sentimentalismo.
Eppure, dovette ammettere, si sarebbe perfino strappato la croce di ferro dal petto se ciò fosse servito a salvare il capitano dal disonore.


  1. Aviatore, salutami il sole↩︎

  
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