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Autore: yonoi    20/11/2019    6 recensioni
Un'antica villa abbandonata, attorno a cui ruotano inquietanti leggende.
Una campagna avvolta, per molti mesi all'anno, da una fitta coltre di nebbia.
Un pomeriggio d'estate e tre ragazzini in cerca di emozioni forti.
Un agente immobiliare alle prese con un difficile incarico: concludere la vendita della Cà D'Anime e affrontare i propri incubi del passato.
Prima classificata al contest "Tattoo Studio" indetto da Wurags e valutato da Juriaka sul Forum di EFP. Terza classificata al contest "Siglaaa..." indetto da Milla4 sempre sul Forum di EFP.
Genere: Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Il coraggio non mi manca.
È la paura che mi frega.”
(Totò)
 

4. Al pázz di melcuntànt[1]

 
Dopo l’incontro col Passerini alla Cà D’Anime, quella stessa sera Gianluigi Balotti il cui soprannome non era due ante bensì duecento libbre, in considerazione del peso massimo che era in grado di sollevare col bilanciere, aveva fatto un giro di telefonate, tra cui una al Draghetti che continuava a svernare felicemente in Thailandia.
“Allora Gianni, ho contattato quel pirla del tuo agente immobiliare, quel tale Passerotti. Dopo di che ho parlato col nostro amico in filiale, per il mutuo non c’è problema. Pensavo a un pagamento in più soluzioni, direi ventimila al rogito e il resto rateale.”
“Mi pare una buona idea. Non è il caso di dare troppo nell’occhio.” All’altro capo del mondo, la voce del Draghetti tradiva una lievissima punta d’ansia. “Biancheria da lavare, qua, ce n’è parecchia” rise con imbarazzo. “Puoi mandare a ritirarla quando vuoi.”
Un attimo di silenzio, tanto per far capire a quell’imbecille del Draghetti che non era il caso di fare lo spiritoso né di lasciarsi sfuggire troppe cose. Il Gianni afferrò al volo e riprese: “Sto trascorrendo un’ottima vacanza. Per qualsiasi necessità, rivolgiti al mio agente.”
Sbrigate le chiamate, duecento libbre raggiunse il paese vicino, non lontano dalla piazzola dove andava in scena lo spettacolo Fasulèn e musica di viulèn. Le viuzze laterali pullulavano di venditori di caldarroste, vasetti di miele e propoli, assaggi di formaggi di fossa della Romagna. Borse di stoffa e altri straccetti colorati erano esposti sul banchetto di un gruppo di fricchettoni, seduti in cerchio a cantare attorno a una chitarra.
Col suo incedere lento, che avrebbe fatto morire di crepacuore il pandino del Passerini, il Suv scivolò fino a una porta a vetri con il logo Fitness e Benessere
Pochi minuti dopo, duecento libbre era impegnato in una sessione di allenamenti pesanti, l’ideale per scaricare la tensione che quell’ennesimo investimento gli stava procurando. Per principio e per esperienza non si fidava di nessuno e tra tutti i tirapiedi di cui era costretto bene o male a servirsi, il meno affidabile era proprio il Gianni Draghetti, che considerava la Thailandia un paradiso di donnine più che una cassaforte dove il denaro – la biancheria, per intenderci – doveva riposare ben custodito come un uccelletto nel nido, nell’attesa di essere onestamente reinvestito.
Dopo i primi viaggi pagati in cui s’era divertito come un cinno alle giostre, stavolta c’era voluto del bello e del buono per convincere il Gianni ad accettare quella breve vacanza a Phuket. Duecento libbre gli aveva promesso che sarebbe stata l’ultima volta. Ma non sapeva, il Gianni, che quando si hanno le mani in pasta in certi affari, non ci si può licenziare da un giorno l’altro, perché nel frattempo si sono imparate troppe cose e l’unica bocca che tace è ovviamente quella del morto.
Disteso sulla panca, tutti i muscoli impegnati nello sforzo fino agli alluci, in quel momento Gianluigi Balotti era impegnato a sollevare proprio quel peso per cui era famoso in tutte le palestre della Fitness e dintorni. Attorno a lui solo il brusio della filodiffusione, il fiato grosso di qualcuno che correva sulla pedana e qualche grido di ragazzino entusiasta dalla vicina aula di karate. Non c’era neppure il trainer che avrebbe dovuto accompagnarlo nei movimenti e che il Balotti aveva spedito via con una sola, rapida alzata di sopracciglia.
Fu un attimo: come se accanto a lui si fosse materializzata una mano invisibile, l’attrezzo accusò un colpo, il Balotti perse la presa e circa centoventi chili di bilanciere gli caddero sul volto, con uno scricchiolio di ossa frantumate che precedette l’urlo, disumano e tremendo, del loro legittimo proprietario.
Nel trambusto che seguì e che radunò attorno all’infortunato facce sudate e attonite con l’asciugamano al collo, a stento riuscirono a farsi strada due marcantoni per cavare quel peso dal naso ormai completamente spianato del Balotti.
Ridotto a un mascherone di schegge e di sangue, duecento libbre andava avanti imperterrito a strillare, proprio come la sirena dell’ambulanza che, nel frattempo, a nessuno era venuto in mente di chiamare.
Come apparso dal nulla, si fece avanti a quel punto un tizio in casacca bianca, con la faccia da topolino di campagna. “State lontani,” ripeteva, facendosi strada tra lo sbigottimento della calca. “È tutto sotto controllo.” Forse rassicurato, forse solo stordito, duecento libbre non batté ciglio. Smise addirittura di urlare mentre i presenti, impietriti, assistevano a strane manovre di soccorso. Quel tizio tutto solo fasciò alla meglio il Balotti o meglio ciò che restava della sua faccia, lo caricò con l’aiuto dei due colossi sulla barella in dotazione alla palestra e da lì all’interno di un furgone ugualmente bianco.
Dopo di che il topo, il furgone e il Balotti sparirono silenziosi nella nebbia che era calata nel frattempo, senza altre parole né suono di sirena.
Quando i frequentatori della palestra riuscirono a riaversi, cominciarono anche a porsi delle domande.
“La sanità va sempre peggio,” attaccò un vecchietto del corso di ginnastica, che vantava all’attivo due protesi d’anca e numerosi ricoveri per infarti seriali. “Una volta giravano almeno in due in ambulanza e la barella mica la chiedevano in prestito.”
“Sarà la spending review. Però ai tagli dovrebbe esserci un limite,” osservò un donnone, fascia per il sudore tra i ricci candidi e calzamaglia attillata.
“Ma chi ha chiamato i soccorsi?” chiese il marcantonio più grosso, che poi era uno dei responsabili del posto.  
“Io no,” si tirò indietro il nonnetto plurinfartuato. “A momenti mi pigliava un azidant, e poi ho il telefonino nell’armadietto.”
“Io volevo chiamare, ma nel frattempo quello era già arrivato.”
“Chiunque sia stato, ha fatto bene,” intervenne un altro anziano pettoruto, ex militare in pensione. “Se aspettavamo voi…”
“Certo che qui la sicurezza è scadente. Presenterò un esposto in Comune e le mie rimostranze al proprietario della struttura,” s’intromise uno spilungone cachettico, di professione avvocato e consigliere di minoranza.
“Il proprietario è quello a cui è caduto il bilanciere sul naso,” tagliò corto il marcantonio gestore. “Ed è stato lui stesso a rifiutare il supporto del trainer.”
L’intera palestra sprofondò in un silenzio sgomento e almeno per quella sera venne decisa la chiusura anticipata.
Nel frattempo, a pochi chilometri da lì, una figura bianca si aggirava sull’argine, strascinando un involto che, a vederlo da lontano, dava l’impressione d’esser molto pesante. A quell’ora, nella tenuta del contadino Raggi in località I Grilli, non c’era anima viva a parte la nebbia. Era il periodo in cui i campi e i frutteti si lasciavano a riposo dopo le semine e ci si dedicava alle riparazioni degli attrezzi nei casolari, alle storie di fantèsmi davanti al caminetto per chi ancora ne ricordava qualcuna.
Il tonfo del fagotto che cadeva nel fiume, rompendo per un attimo l’immobilità quieta della caligine, non fu udito apparentemente da nessuno. Dopo di che l’acqua lentamente si richiuse, con una serie di cerchi concentrici e bollicine che furono le prime a scomparire.
 

 
******

 
Sulla riva opposta del fiume, Massimo Passerini brancolava nella nebbia più fitta tentando di ripercorrere a ritroso il sentiero che dalla Cà D’Anime lo aveva condotto al paese vicino, dove era andato in scena lo spettacolo dei buratèn. Il risultato era che i suoi pensieri erano più confusi che mai e che le cavedagne parevano tutte uguali. Decise di orientarsi seguendo il corso del fiume, o meglio quel fruscio appena percettibile che saliva dall’argine. A tratti, la nebbia svaporava svelando l’ombra di un salice, la gobba di un ponticello.
A un bivio, un cartello col grillo parlante di Pinocchio indicava che era sulla via giusta per raggiungere I Grilli, cucina casereccia e chiusura il lunedì. Da lì in poi l’ansa del fiume si allargava, l’acqua ne approfittava per fare una sosta e formava uno stagno coperto di mucillagini e foglie morte. Molti di quelli a cui il misterioso violino della Cà D’Anime aveva fatto saltare le ultime rotelle si erano buttati proprio in quel punto, fatto sta che quando il Ninèn era un cinno e spariva qualcuno, quello era il primo posto dove si andava a cercare.
La gente del paese lo chiamava al pázz di melcuntànt.
Mentre arrancava lungo la cavedagna, il Passerini assaporava con struggimento il tepore dell’abitacolo del pandino, che in realtà puzzava peggio del fiume, di fumo vecchio e del mentolo che un alberello appeso al retrovisore tentava inutilmente di contrastare. Malgrado tutti i suoi limiti, in quel momento il pandino quattro per quattro, possibilmente col riscaldamento sparato a mille, assumeva i contorni mitici di una reggia.
All’andata, il Passerini s’era tolto lo sfizio di andare a curiosare sul luogo in cui la maga Gisella e la sua assistente erano passate a miglior vita, con un biglietto di sola andata per un mondo in cui di sicuro c’erano meno nebbia e meno umidità: ma a parte due giri di un nastro uguale a quello che alla Cà D’Anime impediva l’accesso ai curiosi, non aveva trovato niente. Non un filo d’erba piegato, nessun segno di frenata e tanto meno rotaie spuntate fuori dalle zolle per l’occasione. Pareva che l’Adalgisa Buganè fosse sparita semplicemente dissolvendosi, un colpo sul tasto giusto del telecomando e fine dello spettacolo. Chissà come avrebbe fatto, adesso, la Clotilde di Casteldebole a farsi cavare il malocchio dal materasso.
Gli tornò in mente la frase che aveva notato quella mattina alla Cà D’Anime, proprio sotto allo schizzo che ritraeva la Gisella e la sua assistente con una croce sopra a scanso di equivoci: Gambe in spalla e vola via. E infatti l’Adalgisa Buganè e la moracciona avevano preso il volo, cancellate come pupazzi su una lavagna di scuola.
Ripensando alla scuola, gli tornarono in mente i pomeriggi trascorsi in compagnia del Secchio e dell’Anguilla a divorare pane, Nutella e cartoni animati davanti alla televisiàn di suo nonno. Tra robot dall’aspetto di antichi samurai che salvavano la terra menando botte da orbi, giocatori di calcio e orfanelle piene di scalogna e sentimento, c’era una storia che parlava dell’amicizia tra un bambino e un gruppo di mostriciattoli paciocconi: c’erano l’Uomo Tigre, no, quella era un’altra faccenda, forse era l’Uomo Lupo, poi Frankenstein e il vampiro. C’era soprattutto quella canzone: E chi li vede strilla o mamma mia! Gambe in spalla e vola via!
Bene, abbiamo appurato che anche il Punghèn, o meglio il maniaco pazzoide e serial killer che gira attorno alla villa guardava quel cartone. Detto questo non ho risolto un bel niente, rimuginò il Ninèn, mentre procedeva sforzandosi di tenere il fruscio lento del fiume a portata d’orecchio e la torcia del don ben piantata davanti.
A un tratto gli sembrò di sentire un tonfo sordo, come di qualcosa che cade o è gettato nell’acqua. A giudicare dall’impatto, doveva trattarsi di qualcosa di particolarmente pesante. Sarà mica qualcuno, pensò in un tumulto di agitazione, ricordando le storie di cronaca paesana della sua infanzia. Gente che si buttava senza lasciar neppure le scarpe o due righe di saluto sull’argine. Andiamo, c’è sempre il solito furbo che getta porcherie in acqua, poi la gente si lamenta che il fiume puzza come una fogna. E per lo schifo che c’è anche gli immobili van giù con i prezzi e a rimetterci è ovviamente chi vende.
Camminò per un tempo che gli sembrò eterno, sempre sognando il quieto tepore del pandino, finché si ritrovò di fronte a un altro bivio, o forse era lo stesso di prima. Davanti a lui c’era di nuovo il cartello della trattoria I Grilli. Avvolto nella bruma che saliva dal fiume, il grillo di Pinocchio esibiva un ghigno poco rassicurante al posto della consueta espressione godereccia.
A quel punto, il Passerini impallidì. Gli tornarono in mente tutti i fȏl di fantèsmi che aveva sentito da cinno, storie di gente che aveva udito la musica di viulèn della Cà D’Anime e dopo aveva perso la bussola, non riuscendo più a ritrovare la strada di casa. Si ricordò di quel che raccontava in giro Pinèn dla Marìa: in un giorno di pioggia si era rifugiato sotto ai balconi della villa per poi destarsi fradicio dentro a un fosso, in aperta campagna. Senza neanche sapere come c’era arrivato e con nelle orecchie ancora quel violino malinconico che a sentirlo una volta non lo scordavi più.
Al Pinèn detto la spânga nessuno dava retta perché girava con la Vecchia Romagna nel sacchetto di carta e la sua foto segnaletica era probabilmente esposta in tutte le osterie e i bar della pianura accanto all’avviso listato a lutto “È morto pagherò: ne danno il triste annuncio il figliolo poi passo e la nuora metti in conto”.  
Eppure, in quel momento il Pinèn dla Marìa apparve al Passerini circonfuso da un’aureola di profeta incompreso. In fin dei conti, come diceva sempre suo nonno, la verità la intuiscono soprattutto due categorie di persone, i cinni e i matti duri. Più che matto, però, la spânga era appunto una spugna che avrebbe prosciugato anche il fiume se fosse stato alcool. La sua unica ragione di autorevolezza consisteva nel possedere un fegato che avrebbe meritato la medaglia d’oro per la Resistenza.
Senza contare che lui, Massimo Passerini, quella musica di viulèn non l’aveva mai sentita, né alla Cà D’Anime e neppure nei paraggi tipo dov’era adesso, lungo il viottolo che conduceva ai Grilli e da lì in poi al viale dei cipressi e al pandino. A guardar bene, all’orizzonte s’intravedeva un quadrato di luce. Forse la trattoria non era così lontana.
Allora non mi sono perso del tutto, pensò, passando dall’arrancare stordito al trotto sostenuto.  
Quando la nebbia si stendeva sulla pianura, e quella sera era proprio sbracata a pancia all’aria come il Pinèn nel fosso, i rumori restavano tutti schiacciati sotto e nei campi non ne sentivi neanche uno. C’era però, al di sotto di quella cappa ovattata, un brusio che si udiva solo a tendere l’orecchio e solo ad averlo fino: era una sorta di tintinnio, come l’allarme di un passaggio a livello.
Il Passerini, all’inizio, lo scambiò per il rumore di chincaglieria delle chiavi che aveva in tasca. Poi si voltò a guardare perché d’un tratto aveva la strana sensazione di essere seguito, per di più da qualcuno o qualcosa che arrivava di corsa.
Vide due fari allargarsi nella nebbia, puntando verso di lui e accorciando sempre più le distanze senza fare rumore, come sospesi in aria. 
Dai rami di un alberello un gruppo di cornacchie si levò all’improvviso, pochi richiami rauchi che finirono presto per essere inghiottiti dalla nebbia e dal quel tintinnio così assurdo: perché da quelle parti la ferrovia mica c’era, o meglio c’era stata in tempo di guerra ma poi la linea era stata soppressa e la campagna aveva ricoperto ogni cosa.
 

 
******

 
Quella stessa sera, a bordo del furgoncino della ditta con tanto di grillo parlante in versione autoadesiva sulla fiancata, un certo Amedeo Minguzzi, titolare della trattoria I Grilli, ritornava all’ovile dopo aver accompagnato sette nipoti ad assistere allo spetacuel di buratèn al paese vicino.
Già smaliziati all’età di dieci - dodici anni pur essendo a tutti gli effetti figli della campagna e ancora ben lontani dai tentacoli corruttori della città, allo spettacolo i cinni s’erano annoiati come neanche a scuola. Alla domanda di Fasulèn se credevano ai fantasmi non s’erano neanche presi la briga di rispondere – solo il più grandicello aveva abbozzato a voce bassa sto’ caz – e avevano passato tutto il tempo spolliciando su tablet e smartphone, mentre il loro zio e nonno si era divertito un sacco a seguire quell’ingenua vicenda di spettri e tagliatelle.   
Dopo una sosta ristoratrice alla bocciofila, il furgoncino aveva ripreso a caracollare lungo la cavedagna, avvolto dal silenzio della nebbia e dei nipoti che era come se non ci fossero. Solo il bagliore degli schermi che di tanto in tanto riverberava su una faccia, suggeriva la presenza di qualche forma di vita sul sedile del passeggero e nella penombra del retro.
Vuoi per la sonnolenza indotta dai due grappini che aveva buttato giù alla bocciofila, vuoi perché con la nebbia le cose le noti solo quando stai per passarci sopra, il Minguzzi aveva quasi rischiato di travolgere un tizio che camminava proprio in mezzo al sentiero, con la borsa da ufficio e l’aria del cittadino che si è perso.
Ecco il primo cliente della serata. Direi che non è il caso di stirarlo come una biscia, ragionò tra sé il Minguzzi, sdrucciolando una frenata improvvisa e aprendo lo sportello.
Stavo quasi per metterla sotto,” si scusò con quel tale che gli ricambiò uno sguardo spaurito, neanche avesse di fronte i fantèsmi del teatrino. “Se crede, posso darle un passaggio. Sandrino, lascia il posto al signore e va’ dietro con gli altri.”
Sandrino, uno spilungone di un metro e settantacinque dotato di tablet adeguato alla stazza, scese sbuffando e senza staccare gli occhi cerchiati dallo schermo, quasi in stato di ipnosi.
“Va ai Grilli, non è vero?” riprese il conducente. Prese rapidamente le misure all’estraneo e decise che era meglio far scendere un altro nipote. “Luigén, vai dietro anche tu. Lei venga su, si accomodi,” disse cerimonioso. Un’altra larva di dieci anni munita di tablet si dileguò in silenzio nel retro del furgone.
“Io veramente ho parcheggiato alla Cà D’Anime,” si schermì il Passerini, rincuorato da quell’incontro che proprio non si aspettava. “Se mi fa la cortesia di allungarsi fin lì e lasciarmi all’inizio del viale…”
“È quasi ora di cena,” osservò il Minguzzi con fare da imbonitore. “Perché non si ferma da noi? Stasera abbiamo pappardelle ai funghi porcini, tortelloni burro e salvia, tigelle col tagliere di stracchino e affettati…”
No grazie, dopo lo scherzo delle due pizze per cena, stavolta si va di insalata. Sarà la volta buona che riprendo la dieta.
“Davvero non posso fermarmi,” tenne duro il Passerini che l’acquolina in bocca, in fondo, ce l’aveva. Si strinse nell’abitacolo e il furgoncino ripartì, cigolando le sospensioni per il raddoppio del peso.
“Guardi che lo stracchino lo produciamo noi. La pasta è fatta in casa e per il resto serviamo solo roba della campagna, a chilometro zero.”
“Purtroppo devo correre in ufficio a sistemare delle pratiche. Sono un agente immobiliare, ho in corso una trattativa per la vendita della Cà D’Anime.” 
Mo chi è al mat che vuole comprare quella spelonca?” Ringalluzzito dalla presenza di qualcuno con cui parlare, il Minguzzi saltabeccava col furgoncino riuscendo a centrare tutte le buche. “Le dico la verità,” riprese, in vena di confidenze. “La villa la piglierei io, se potessi. Non mi dispiacerebbe mettere in piedi un agriturismo, ma sa com’è, ci girano attorno troppe brutte storie.”
“E chi ci crede più ai fȏl di fantèsmi? Al giorno d’oggi, è roba che va bene per i teàter di buratèn.” Malgrado i continui sobbalzi, il Passerini si crogiolava al calduccio dell’abitacolo e stava già per cedere a un principio di sonno.
“E la storia di quelle due morte ammazzate?” riprese il Minguzzi. “Ma lo sa che da noi sono venuti pure i Carabinieri? Han fatto delle domande, tipo se avevamo sentito qualcosa, ma era giorno di chiusura, c’era solo mia moglie che tirava la sfoglia perché, come le dicevo, i nostri prodotti son tutti a chilometro zero.”
Il Passerini si sforzava di ascoltare, ma la stanchezza della giornata era come colla da falegname spennellata sulle palpebre. Per un lunghissimo istante, sognò che accanto al pandino lo attendeva la Trifola, il vecchio bracco da guardia che nelle notti in città abbaiava dal quarto piano contro agli autobus.
“Lo sa che mia moglie è andata in televisione? Una volta ha chiamato la maga Gisella e si è fatta fare le carte. È saltato fuori che aveva il malocchio. Ci sono voluti più di duemila euro per cavar via la fattura.”
Bravi fessi, pensò il Passerini nel dormiveglia. A destarlo del tutto, ci pensò il cellulare nel taschino della giacca, che cominciò a fremere le note di Suspiria.
Soccia, che figata!” Sette voci improvvisamente resuscitate dallo stato larvale emersero entusiaste dal retro del furgone.
“Cos’è, una suoneria?”
“Signore, ce la passa anche a noi per favore?
“Massimo, dove sei?” Al telefono c’era la collega Granella, con le penne così arruffate che a momenti spuntavano dal ricevitore. Tra l’altro, quando quell’uccellaccio del malaugurio lo chiamava per nome, era segno di guai in vista.
“Ci son qua i Carabinieri. Vogliono farti delle domande su quella tua cliente, la cartomante. Si può sapere che cosa hai combinato?”
Io? Niente. Mica c’ero io alla guida del camion, del treno o di chissà che altro. Che vadano pure a domandare al Punghèn.   
“Sbrigati un po’ a venire. Tra l’altro, io sono qui col commendator Scanabissi e mi stai facendo fare una pessima figura.”
“Sicuro che non vuole fermarsi per cena?” ritentò l’ineffabile ristoratore Minguzzi. Erano in prossimità del viale dei cipressi. Il pandino emergeva dalla caligine col suo tristo color sabbia, l’adesivo forza Bologna appiccicato sul posteriore e la carrozzeria schizzata di fango.
L’immagine della reggia tiepida e confortevole, preannuncio di una serata in tutta tranquillità, si sgonfiò alla maniera di un palloncino forato per dispetto. 
“Come le dicevo, ho del lavoro che mi attende in ufficio. Un becchino, un’arpia e molto probabilmente una coppia di sbirri. In tutti i film, quelli là girano sempre in due.
Ogni volta che, alla guida del pandino, veniva fermato per semplici controlli, solo a vedere la paletta della Stradale o il gesto di accostare di un vigile urbano, il Passerini era colto da visioni apocalittiche: davanti a sé vedeva manette pronte a scattare, multe d’importo tale da costringerlo a vendere una casa che neppure possedeva e per finire le quattro pareti di una cella di cui, provvidenzialmente, qualcuno aveva buttato via la chiave.
Quella sera, dopo aver chiuso la comunicazione con la collega Granella, sperimentò la stessa sensazione a metà tra la vertigine cosmica e la pesantezza di stomaco di chi ha appena ingoiato un’incudine.
Scese dal furgoncino, non salutò nemmeno e si avviò a testa bassa verso il pandino.  
 

 
******

 
Quando arrivò in ufficio, non solo il titolare della ditta Scanabissi, ma anche i carabinieri se n’erano già andati. Segno evidente che piazzargli un paio di gingilli sui polsi non era tra le loro priorità del momento.
La collega Granella aveva appena terminato di ritoccarsi le sopracciglia dentro a quella sorta di loculo che era il bagno dell’agenzia, in vista di un altro appuntamento che l’attendeva in serata. Sul lavandino, come poté appurare il Passerini entrando di corsa con la vescica sotto pressione, giaceva un’infinità di peluzzi ricurvi. Molto probabilmente, oltre alle sopracciglia la collega s’era fatta anche la barba.
Riguardo alla visita dei due poliziotti – un appuntato e un brigadiere, secondo la Granella che alla tivù seguiva tutti i programmi dedicati ai delitti più efferati – il Passerini non riuscì a estorcerle nessuna informazione.
“Volevano te”, si limitò a dire, evasiva. “A me non han chiesto niente e poi ero impegnata col mio cliente.” Da una borsetta di proporzioni minimali, ma in grado di contenere un intero laboratorio restauri, cavò fuori una spazzola e incominciò a strigliarsi le chiome con energia. Nel frattempo andava avanti e indietro riordinando i fascicoli, riponendo l’agenda, raccattando il soprabito e disseminando ovunque altro pelo. “Sono rimasti qui per più di un’ora. A un certo punto, uno dei due si è persino addormentato.” 
“Non potevi chiamarmi subito?” Il Passerini continuava a starle in mezzo ai piedi, a inseguirla in quel vortice di spostamenti qua e là per l’ufficio.
Io ti ho chiamato subito. Sei tu che ci hai messo una vita. Dove diavolo eri?”
“Anch’io avevo un appuntamento importante.”
“Figurarsi.”
“Ho presentato alla proprietà la proposta di quel cliente di Draghetti. Se non sbaglio, proprio tu gliel’hai fatta sottoscrivere stamattina, ficcando il naso nelle mie carte, se proprio vogliamo dirlo. Si tratta di un affare da cinquantamila euro.” Il Passerini ritenne opportuno tralasciare il no secco che aveva ottenuto dal conte D’Anime.
La Granella, che era in trattativa da mesi con Scanabissi per un misero capannone da quattromila euro, rimase con la spazzola sospesa a mezz’aria e una ciocca elettrizzata dritta sulla testa. Se ne andò via così, con grande soddisfazione del Passerini che a sua volta s’infilò nello sgabuzzino, cavò fuori scopa, paletta e mocio e si dedicò all’opera di ammucchiare tutto quel pelo e ripulire l’ufficio. Siccome in agenzia non c’era più nessuno, ne approfittò per accendersi due sigarette di seguito.
Anche a casa, riordinare lo aiutava a scaricare la tensione e a schiarirsi le idee. Chissà cosa volevano sapere da lui l’appuntato e il brigadiere: certo niente di importante, visto che uno dei due s’era persino concesso una pennichella nell’attesa. Forse stavano ricostruendo gli ultimi spostamenti della maga Gisella prima dell’incidente, del duplice omicidio o di come diavolo avevano rubricato quel fatto.
La sola parola duplice omicidio, di per sé strettamente connessa a tribunale, sentenza ed ergastolo, fu più che sufficiente a togliere il respiro al Passerini e a rapprendergli tutta l’ansia in un nodo in gola. Non è che quelli pensavano che lui c’entrasse qualcosa? Concorso in omicidio plurimo e sicuramente aggravato, dal momento che l’Adalgisa Buganè e la moracciona coi cavatappi erano state ridotte allo stato di spezzatino senza nessun motivo apparente: così avrebbero intitolato i giornali pubblicando la foto della sua faccia, magari proprio quella che aveva sulla patente e in cui esibiva un’aria da perfetto psicopatico.
Gli venne subito in mente che lui l’alibi per quella sera ce l’aveva, e di ferro. Aveva una testimone, quella cornacchia della Granella che s’era trattenuta in ufficio con lui, scartabellando le pratiche del becchino Scanabissi durante tutto quel piovoso pomeriggio. Quando il Passerini era uscito per andare dal kebabbaro, la notizia del fattaccio correva già sull’onda di tutti i tigì nazionali.
Lo squillo del telefono sulla sua scrivania gli fece fare un doppio salto carpiato dal buio dei suoi pensieri al panico manifesto: come se dall’altra parte della cornetta ci fosse il Presidente del Tribunale in persona, pronto a notificargli il mandato d’arresto e ad avvertirlo prima, così, per cortesia. Si metta la maglia della salute, in galera fa freddo.
Forse non era quella l’esatta procedura, ma il terrore che correva nelle vene del Passerini al ritmo di centoventi pulsazioni al minuto, quello sì, era reale. Sollevò la cornetta con cautela.
Dall’altro capo non c’era il Presidente del Tribunale pronto a comminargli l’ergastolo su due piedi, né il Presidente della Repubblica intenzionato a revocargli il diritto di cittadinanza, né tanto meno il preside del suo vecchio liceo deciso ad annullargli l’esame di maturità per comportamento scorretto. C’era invece la voce del conte Filippetto e mai come in quel momento al Passerini sembrò di risentire suo padre che lo aiutava a rimettersi in piedi dopo una caduta in bicicletta, il nonno che gli offriva le prime ciliegie della stagione, la Trifola che abbaiava sull’aia e in sottofondo il canto dei nove cori angelici.
“Signor conte, che sorpresa!”
“Chiamami ben Filippetto. Allora, ragazuòl, ci hai pensato un po’ sopra?”   
“A cosa, signor conte?”
Mo alla mia proposta! Alòra, la prendi te la villa? Loro ne sarebbero molto contenti.”
“Come le dicevo, signor Filippetto, baiocchi non ne ho. Vivo in affitto e faccio già fatica ad arrivare a fine mese, figurarsi se posso permettermi un immobile che tra l’altro necessita di qualche lavoretto. Parliamo piuttosto del mio cliente. Non ho mai visto fare un’offerta come questa da quando lavoro qui.”
“Guardi, giovanotto, anch’io ci ho pensato su un pezzo, e sono arrivato alla conclusione che non si tratta di una questione di baiùc. Io e i miei buratèn un piatto di tagliatelle riusciamo sempre a metterlo in tavola. Demolire la Cà D’Anime, non posso neanche pensarci. È un fatto di ricordi, là ci hanno vissuto in tanti e la villa conserva i segni del loro passaggio, le emozioni, i ricordi. I fantasmi, se vuole. Non possiamo buttar giù tutto come se niente fosse. E poi non sa che quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per loro?”  
Questa l’ho già sentita. Ma io mica posso campare in memoria dell’Anguilla e del Secchio. Chi muore giace, dice il proverbio, e se chi vive non paga le bollette puntualmente gli staccano luce e gas.  
“Quindi cosa devo riferire al cliente?”
“Dietro alla villa son tutti campi liberi. Sono secoli che nessuno se ne occupa. Da’ retta a me, va’ a dare un’occhiata. Magari ti vien voglia di cavar qualche erbaccia e non sarebbe neppure una cattiva idea.”
“Come le ho detto, io lavoro per l’agenzia e il mio compito è trovarle un acquirente. Tra l’altro, io non m’intendo di coltivazioni, non sono un giardiniere e nemmeno un cuntadèn,” si affrettò a dire il Passerini che pure il sogno del campicello ce l’aveva e non gli pareva vera un’offerta del genere. Se il conte era disposto a cedergli un fazzoletto di terra, magari anche a rate… A quel punto, si trattava soltanto di far due conti in banca, in fin dei conti un gruzzolo doveva pur averlo, qualche rimasuglio della vecchia eredità dei suoi. Avrebbe potuto chiedere un mutuo, poi c’era da aprire la partita IVA come imprenditore agricolo, e poi…
Restò a lungo soprappensiero, senza neanche accorgersi che nel frattempo era caduta la linea.
 

 
******

 
Coperti dalla brina della prima mattina, i campi erano un pendio di erba croccante e incolta che al Passerini ricordarono il tempo in cui, insieme all’Anguilla e al Secchio, si buttava giù dai cucuzzoli con lo slittino. Al paese, l’inverno era dominio della nebbia e solo verso febbraio qualche fiocco volteggiava in avanscoperta per poi farsi seguire dal resto della truppa: grossi ciuffi lanosi che ricordavano il manto ricciuto delle pecore e attecchivano subito, portando insieme al bianco la magia del silenzio.
Anche il fiume taceva nei giorni della neve, coprendosi di uno strato immobile di ghiaccio nelle zone in cui era più in secca. Una volta l’Anguilla ebbe la brillante idea di attraversarlo coi pattini, col risultato di sprofondare quasi subito. Per fortuna in quel punto il livello dell’acqua era ai minimi storici, sicché l’Anguilla se la cavò con un febbrone e non gli toccò iniziare la sua carriera di spettro con eccessivo anticipo.
Dall’alto della collina che sorgeva subito dietro, il tetto mezzo sfasciato della Cà D’Anime affiorava celato da un intrico di rami bassi.  
Vista da lì, nella piena luce di una mattina domenicale, col sottofondo di campane che veniva a folate dai borghi vicini, la villa perdeva tutto il suo alone di mistero e appariva per quello che era realmente: una signora d’altri tempi che si reggeva decorosa sulle stampelle e riposava al sole come i pensionati nei giardinetti, addosso ancora i segni di un passato di splendore dimenticato.
Tirando il fiato e proseguendo fino alla sommità di quel colle sicuramente buono per piantar dei ciliegi, il Passerini ripensò ai suoi vecchi amici d’infanzia. Premesso che lui ai fantasmi non ci credeva, per il Secchio e l’Anguilla valeva la pena di fare un’eccezione. Decisamente la villa era casa loro e lui, Massimo Passerini, si sarebbe impegnato sul proprio onore di scout a non cederla a sedicenti fattucchiere, o a palazzinari intenzionati a spazzar via le sale e gli affreschi del Settecento per far posto a colate di calcestruzzo.
Al Bricoman sotto casa aveva acquistato cesoie, stivaloni di gomma, una zappa e un badile, un libro sulle colture. Altri attrezzi li aveva recuperati in cantina, in mezzo ai cimeli del fu Eleuterio. Dal baule del pandino, legati alla bell’e meglio per non smarrirli strada facendo, spuntavano quattro alberelli di serra. Quattro ciliegi dall’aspetto decisamente sparuto, ma muniti di etichetta che prometteva una splendida fioritura.  
In realtà, a parte i ricordi che risalivano ai tempi in cui aiutava suo nonno nell’orto, il Passerini non aveva nessuna reale esperienza di lavori contadineschi. La città se l’era portato via troppo presto. Dopo due ore, aveva rivoltato un quadrato di terra non più grande del fazzoletto in cui stava versando litri di sudore. Si sentiva sfinito, come se avesse dissodato l’intera pianura padana da solo.
Decise di svagarsi con un giro alla villa. In fondo, non aveva ancora detto agli amici che l’affare con due ante Balotti era definitivamente saltato per volontà del conte burattinaio.
All’interno della Cà D’Anime faceva più freddo che fuori. Il Passerini vagò a lungo per le sale col sudore che s’intirizziva sulla nuca ma nessuna voce uscì da dietro le colonne, né dalla scalinata che serpeggiava fino su ai piani alti.  
Bella, ragaz, ci siete? Andiamo, era tutto uno scherzo…  non la vendo, la villa, potete star tranquilli!”
Da parte dell’Anguilla e del Secchio non si udì neppure un refolo di vento in risposta.
Nella stanza degli affreschi, stavolta erano in tre a fare compagnia alla ninfa campestre: oltre ai ritratti della maga Gisella e della sua assistente, c’era una terza figura nerboruta tipo omino Michelin, naturalmente obliterata con una croce. Più sotto, un’altra scritta: “Il più bello che c’è è grande e grosso e pesa tre quintali e trentatré.
Di nuovo la sigla di quel cartone che aveva allietato i pomeriggi dei cinni a base di pane, Nutella e divano. Tra l’altro, e strano che gli venisse in mente soltanto ora, non si trattava della sigla di apertura ma di quella finale. Che era come dire capitolo chiuso.
Al Ninèn, questo particolare provocò l’effetto di un sasso contro un vespaio. Il vespaio in questione era ovviamente la sua testa in cui ronzavano dubbi, perplessità e mille domande, ciascuna ben dotata di un pungiglione delle dimensioni di una trivella.  
Era da giorni che cercava di contattare due ante e ogni volta la voce preregistrata della compagnia telefonica continuava a ripetergli che l’utente non era al momento raggiungibile. Riprova oggi e domani, dopo un po’ s’era messo l’anima in pace. Forse il Balotti non era più interessato, avendo trovato un altro rudere da demolire a un costo più vantaggioso.
Però poteva almeno degnarsi di avvertire, in fondo era amico del gran capo Draghetti. Senza dire che quel prezzo da fenomeno era stato lui a proporlo.    
C’era poi un’altra ipotesi più insidiosa, e che proprio per questo non si stancava di ronzare nella zucca – vespaio del Passerini: due ante voleva spazzar via la Cà D’Anime e invece la Cà D’Anime ha spazzato via lui. Quel disegno sul muro non lasciava spazio ai dubbi, a patto naturalmente di credere ai fantèsmi.  
Quella stessa mattina, Elpidio Raggi di professione contadino s’era alzato prima dell’alba. Aveva caricato sulla carriola due sacchi di cemento e di sabbia, mattoni e cazzuola, un involto con dentro un pollo arrosto e una fiaschetta di vino rosso. Poi s’era avviato in direzione dell’argine, con l’intenzione di santificare il giorno festivo riparando il muretto che segnava il confine della sua proprietà.
Giunto sul posto, aveva riposto il pranzo al sicuro sotto a un pioppo ed era sceso al fiume per procurarsi l’acqua e iniziare la lavorazione della malta.
A quell’ora, sui campi aleggiava l’ultima foschia della notte e non si capiva se la giornata sarebbe stata di nebbia oppure di sole. Il contadino Raggi s’era avventurato giù per la scarpata dell’argine. Aveva raggiunto il punto dove il fiume si allargava formando l’ansa profonda che la gente chiamava al pàzz di melcuntènt e aveva immerso il secchio.
Proprio lì, tra le canne, aveva notato quello che a prima vista gli era sembrato un oggetto squadrato.
Probabilmente, qualcuno aveva pensato bene di buttar via un vecchio frigo.
A un’occhiata più attenta, però, il contadino Raggi si era reso conto che non s’era mai visto un frigorifero dotato di due braccia e una testa che ciondolava sotto il pelo dell’acqua. Raccolse un ramo per avvicinare l’oggetto e osservarlo meglio. Dopo di che dimenticò il secchio, dimenticò anche il pollo e la fiaschetta di rosso e pochi minuti dopo correva a gambe levate diretto al casolare, per avvertire i carabinieri che c’era un morto giù al fiume.
Nel frattempo, alla villa, il Ninèn aveva smesso di preoccuparsi per le sorti dell’Anguilla e del Secchio, ben deciso a risolvere il mistero di un’altra assenza, quella di due ante Balotti. Chiamò almeno quattro palestre localizzate con l’aiuto di Google Maps e ottenne da altrettante segretarie solo risposte sbrigative e generiche, che lo fecero sentire come un bambino che chiami i grandi magazzini per parlare con Babbo Natale.
“Il titolare non c’è,” tagliò corto la prima delle impiegate.
“Per l’iscrizione deve passare personalmente, con il certificato del medico curante,” rispose la seconda.
“Balotti Gianluigi non ce l’ho,” confermò la terza, più accomodante. “Però posso passarle la Balotti Desdemona, l’istruttrice di Piloga.” Il Passerini non aveva la più pallida idea di cosa fosse il Piloga.
“Provi alla sede centrale,” suggerì infine l’ultima, avendo cura di buttare giù il telefono prima che il Passerini potesse domandare qual era la sede in questione tra le tante che Google Maps segnalava in zona. Fece un ultimo tentativo, scegliendo a caso nel mucchio. Non era mai stato granché fortunato alle pesche in parrocchia, ma questa volta riuscì a ottenere qualche informazione in più dal responsabile di una palestra che guarda caso si trovava nel paese vicino, quello dov’era andato in scena lo spettacolo di Fasulèn.
“Il titolare ha avuto un incidente,” gli rispose il marcantonio gestore. “Neppure io l’ho più sentito da quando è successo il fatto. A dirla proprio tutta, non sono neppure riuscito a capire in quale ospedale è stato ricoverato.”
In quello stesso momento, ciò che restava di un frigo in ammollo, o meglio di un corpo umano più o meno di quella stazza, veniva caricato su una vera ambulanza alla presenza del pubblico ministero, del medico legale e di una squadra di carabinieri intenti a recintare quel tratto dell’argine. Il contadino Raggi andava avanti e indietro stringendo la fiaschetta e il fagotto del pollo.  
“Eccone un altro,” commentò il maresciallo.
“Non c’è due senza tre,” brontolò il medico legale, a cui un destino ingrato aveva assegnato un’autopsia di prima mattina, per di più su un cadavere ripescato, al posto della biciclettata domenicale con gli amici e a seguire il pranzo già prenotato ai Grilli con le specialità della casa: pappardelle ai funghi porcini, crescentine e tigelle, sangiovese come se piovesse.
“Vediamo anzitutto di capire di chi si tratta e se è possibile stabilire un collegamento con i precedenti ritrovamenti.” Le spalle curve per un principio di scoliosi da eccessiva frequentazione di codici e faldoni, il naso perennemente gocciolante nel fazzoletto, il giudice Radicchio pareva il tipico alunno secchione bullizzato nelle scuole di ogni ordine e grado.
Pur essendo giovanissimo, nelle aule di tribunale s’era già costruito una solida fama di gât tachè ai marόn a mezzo metro d’altezza, secondo il parere unanime di cancellieri, avvocati, colleghi e forze dell’ordine. Incappare in un’indagine condotta da Radicchio significava sgobbare senza tregua per analizzare tutte le piste possibili, dal delitto passionale all’intreccio politico, dallo scandalo finanziario all’attacco degli ufo.
Quella mattina, l’odore di limo che saliva dal fiume e quello del frigorifero caricato sulla lettiga avevano cancellato gli ultimi rimasugli di sonno dalla mente del giudice Radicchio, rendendolo immediatamente operativo.
“Mi faccia avere la sua relazione prima di mezzogiorno,” intimò al medico legale, che indugiava sull’argine in preda alla malinconia e al richiamo di pappardelle e tigelle a chilometro zero.
“Voglio un rapporto sugli ultimi movimenti della vittima,” ordinò ai carabinieri che una volta finito di recintare l’argine, si aggiravano spaesati e con le mani in mano.
“Ma se non sappiamo nemmeno chi è”, intervenne il maresciallo.
“Si tratta del terzo cadavere nel giro di un mese, sempre nella stessa zona.” Con un cenno del capo che subito si trasformò in uno starnuto, Radicchio indicò l’altra sponda, dove erano stati recuperati i resti della Gisella e della sua assistente. “Il tempo di capire se questo si è buttato di sua iniziativa oppure no, il tempo di dargli un nome e sulla mia scrivania devono comparire tutte le informazioni rilasciate da chiunque sia in grado di fornire degli elementi utili, riguardo a questa vicenda e a quella dell’Adalgisa Busoni.”
“Buganè, signor giudice.”
“Quanto a lei, si tenga a disposizione.” Le parole del giudice scattarono come una tagliola ai piedi del contadino Raggi, che era lì lì per svignarsela con il suo pollo arrosto.
Elpidio Raggi sussultò, esattamente come fece il Passerini qualche giorno dopo, quando un brigadiere e un appuntato entrarono negli uffici dell’Immobiliare Reno puntando dritti verso di lui.

 
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[1] Il pozzo degli scontenti.
  
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