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Autore: _Kalika_    20/12/2019    1 recensioni
Questa fanfiction partecipa alla Xmas Countdown Challenge 2019 organizzata dal forum FairyPiece – Fanfiction & Images.
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La prima volta che aveva partecipato al Natale sulla Moby, Izou aveva 17 anni ed era rimasto sconcertato dalla varietà di tradizioni – a quel tempo relativamente moderata, come il numero di pirati sulla nave – che vedeva portare avanti nel periodo di preparazione al grande giorno. [...]
Stare in mezzo a tutti quei pirati che cantavano, tra un gruzzolo rubato e un frutto del diavolo, lo aveva fatto sentire a suo agio come non credeva fosse possibile.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Haruta, Izou, Marco
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Questa fanfiction partecipa alla Xmas Countdown Challenge 2019 organizzata dal forum FairyPiece – Fanfiction & Images.
Prompt: neve
 
 
 
Vermilion Snow
 
La ciurma di Barbabianca aveva sempre accolto pirati provenienti da ogni parte del mondo, con le rispettive culture e tradizioni. A Natale, quando la ciurma si radunava al completo sulla Moby Dick, la nave diventava un miscuglio di voci e colori che seguiva tutte e nessuna usanza. Ad ogni angolo ci si poteva imbattere in un albero di Natale decorato in maniera diversa, e la sera del 24 la si passava tutti insieme nella grande sala, a parlare e mangiare e bere fino al mattino dopo o fino a che l’alcool non aveva la meglio.
La prima volta che aveva partecipato al Natale sulla Moby, Izou aveva 17 anni ed era rimasto sconcertato dalla varietà di tradizioni – a quel tempo relativamente moderata, come il numero di pirati sulla nave – che vedeva portare avanti nel periodo di preparazione al grande giorno. Pur avendo passato la sua vita in ambienti molto diversi fra loro – prima la scuola di danza del padre, poi la strada, costretto a ballare per guadagnarsi da vivere, e poi le varie residenze di Oden durante la sua ascesa al potere – Izou era pur sempre rimasto dentro i confini del Wanokuni, in cui la tradizione era una sola e in cui l’idea che uno straniero importasse la sua cultura era inconcepibile.
Ma era rimasto sorpreso anche dai colori, dalle luci, dalle grida di gioia. Nonostante si fosse raffinato e posato per esser degno del ruolo di guardia di Oden, Izou era sempre stato euforico dentro e tutto ciò che aveva visto in quei giorni gli era sembrato al contempo estraneo e vicinissimo. Stare in mezzo a tutti quei pirati che cantavano, tra un gruzzolo rubato e un frutto del diavolo, lo aveva fatto sentire a suo agio come non credeva fosse possibile.
E lo stesso effetto aveva avuto quell’accozzaglia colorata su molte delle nuove reclute di Barbabianca, primo tra tutti Marco che nei primi mesi della sua permanenza sulla nave trovava ogni giorno qualcosa di cui esultare.
«Bello, eh?»
E proprio Marco gli aveva rivolto la parola con tono allegro mentre Izou, poggiato di schiena al parapetto della Moby, fissava l’entrata alla Sala Grande domandandosi se la sorpresa che provava fosse un sentimento positivo o meno.
«Non saprei…» rispose infatti accigliandosi appena «non sapevo ci fossero tante tradizioni. Tanti colori.»
«Eh, già» annuì l’altro mentre gli porgeva un boccale di sidro di mele. «E la cosa migliore è che riusciamo a mettere tutto insieme in un unico calderone. Guarda, questo è un Sannas, pane tradizionale del mare orientale. Di solito si mangia come accompagnamento dei cibi speziati.»
Izou si voltò per cercare di capire dove voleva andare a parare.
«E io lo intingo… nella cioccolata calda del mare settentrionale! Ecco!» Terminò il capolavoro culinario davanti agli occhi di Izou che accennò un sorriso, fissando Marco per non perdersi neanche un istante della sua reazione all’assaggio. Il biondo ingollò l’intero boccone senza esitazione, salvo poi esibirsi in una smorfia poco convincente mentre masticava. «Vfa beh, fhai capvito, gno?»
Deglutì mentre iniziava a ridere, seguito a ruota dal moro. «Faceva schifo, lo ammetto, ma l’idea di base era buona!»
«Era buona, te lo concedo.» Izou sorrise genuinamente riportando gli occhi sul resto della ciurma, e sentì che i suoi lineamenti si erano piegati in un modo bellissimo, come se non avesse mai fatto altro.
 
҉
 
Era il 24 dicembre di dieci anni dopo, la neve cadeva in piccoli fiocchi vorticanti, e Izou pensava al Natale sulla Moby Dick.
Pensava alle grida di gioia e ai canti che forse stavano risuonando in ogni anfratto della nave, le risate lievi e quelle possenti, magari i mugugni sotto un vischio, e cercava di immaginarsi tutta quell’allegria mentre il silenzio gli rimbombava nelle orecchie. Ma l’unico rumore che poteva sentire era il fischio costante del vento, il frangere della prua contro i flutti, il camminare pesante dei mozzi, il cigolare dell’albero maestro ad ogni onda troppo potente. E il suo respiro spezzato, che tentava di controllare mentre stringeva con i denti il fazzoletto che si trovava in bocca.
Pensava al caminetto acceso nella Sala Grande, che toglieva ogni brivido di freddo e dava non solo calore fisico ma anche affettivo, perché nella Sala Grande c’erano tutti i suoi compagni e insieme alla sua famiglia non poteva non sentirsi protetto. Per Izou era impossibile cercare di immaginarsi il calore riscaldare la sua pelle, perché ogni volta che ci provava il vento o la neve o la grandine si scontravano con il suo corpo. Era scosso da un inarrestabile tremore che prendeva tutti i suoi arti, a partire dalle spalle nude, e si diffondeva lungo tutta la colonna vertebrale a contatto con il legno gelato dell’albero maestro. Non riusciva più a percepire le orecchie e le dita, e se la sua vista non fosse stata tanto appannata da consentirgli a malapena di distinguere il mare davanti a lui, avrebbe saputo che anche le sue gambe, scoperte in più parti dagli abiti ridotti a brandelli, mal resistevano al freddo e viravano su una sfumatura violacea.
Scariche di dolore lo colpivano da ogni parte ma soprattutto dalle mani, dove i bastardi proprietari della nave, che ora cantavano e brindavano sottocoperta, avevano piantato due chiodi per legarlo all’asse trasversale che di fatto lo crocifiggeva sul ponte. Come se legargli polsi e caviglie non fosse abbastanza.
Pensavano che lasciarlo in bella vista a un passo dalla morte fosse una bruciante umiliazione per lui, per un pirata di Barbabianca ed uno spadaccino di Wano, ma a Izou non importava davvero, non da quando sapeva che il suo soffrire stava salvando donne e bambine che altrimenti sarebbero state vendute da quella feccia che lo torturava. E il dolore che da ore attanagliava il suo corpo bastava a respingere ogni pensiero volubile e vano come quello dell’umiliazione provata.
Non sapeva con precisione da quanto tempo fosse passata dall’ultima “sessione” – come la chiamavano i contrabbandieri lì presenti – di tortura, ma il Sole stava iniziando a tramontare e con il calare della luce, anche la lucidità di Izou stava venendo meno. Ma i suoi sensi furono risvegliati da una serie di passi piccoli e leggeri, a malapena distinguibili tra il vento.
Aprì gli occhi faticosamente e vide davanti a sé una sagoma sfocata, che dopo aver sbattuto le palpebre più volte riconobbe come una donna dal volto emaciato e occhi grandi e marroni che si avvicinarono paurosi. Doveva essere una delle schiave incaricate in quel periodo di buttare la neve fuori bordo, ed era stretta in uno scialle che sicuramente era meno pesante di quanto fosse necessario per proteggersi dal freddo. La donna osservò pietosa Izou, che non poteva fare altro che respirare difficoltosamente e concentrarsi per non cedere alla stanchezza, e posò una mano sulla sua guancia senza dire nulla. Izou ebbe un fremito al contatto con il suo palmo caldo, e sentì il suo volto già fradicio di neve sciolta essere lambito da una lacrima impossibile da interpretare.
La donna ritrasse lentamente la sua mano. Con movimenti lenti ma sicuri si levò lo scialle di dosso e si alzò sulle punte dei piedi per posarlo sulle spalle di Izou. Il ragazzo sentiva i suoi sensi ottenebrarsi, ma si sforzava al massimo per cercare di seguire i movimenti della donna.
Era per salvare persone come lei che stava passando quell’inferno. Quando durante il loro viaggio nella Rotta Maggiore i membri della Moby Dick avevano scoperto un enorme carico di donne e bambini in procinto di essere venduti dai loro aguzzini, non avevano esitato un istante a farli fuggire e nasconderli in uno dei tanti rifugi della ciurma. Ma sul luogo del salvataggio si era aperto uno scontro tra i contrabbandieri e i pochi membri rimasti di Barbabianca, tra cui c’era Izou che, allo scoprire l’inaspettata forza del nemico, aveva deciso di lasciarsi catturare per permettere la fuga ai suoi compagni.
I contrabbandieri ne avevano approfittato con evidente esperienza, tramortendolo e sottoponendolo a diversi stadi di interrogatorio prima di lasciarlo appeso alla croce presente sull’albero – che non era certo l’unica della nave. Tuttavia non avevano intenzione di farlo morire prima di sapere la posizione degli schiavi salvati, e la cosa era testimoniata dal sedile presente sul luogo di crocifissione, che impediva a Izou di soccombere per asfissia nel caso avesse perso forza nelle gambe; ma il pirata, in quel momento, non era neanche più sicuro che continuare a resistere caparbiamente fosse la cosa migliore da fare.
Sentì una fitta di dolore alla mano, e si svegliò dal torpore in cui era di nuovo caduto. D’improvviso sembrò che la bufera si facesse più forte, o forse era solo il risvegliarsi dei suoi sensi, e si trovò a boccheggiare per non cedere ai tremori. Ma poi il dolore alla mano lo puntellò di nuovo, e allora cercò di spannare la vista per capire cosa stesse succedendo.
Capì che era rimasto incosciente solo per pochi secondi, perché la donna era ancora davanti a lui, e stava cercando di levargli i chiodi dalle mani. Ma il suo volto era teso dalla preoccupazione e non usava neanche un grammo della delicatezza con cui gli aveva avvolto lo scialle. Izou non ne capì il motivo fino a che non sentì i passi di due persone dirigersi velocemente verso di lui con un incedere molto più deciso e pesante di quello della donna.
Aveva appena finito di togliere il chiodo alla mano destra e l’aveva lanciato lontano quando i due uomini la raggiunsero e la strattonarono malamente: «Per cosa pensi che ti diamo da mangiare, puttana, eh?! Per liberare i prigionieri?!» La buttarono a terra mentre lei non osava fiatare e si stringeva su sé stessa spaventata, strofinandosi sul vestito con movimenti irregolari le mani sporche di sangue. «Non ti abbiamo venduto in un bordello solo perché lavori bene, vedi di non farci cambiare idea! Vattene subito e non azzardarti a tornare!»
La donna sussultò e si alzò da terra per poi allontanarsi senza neanche sgrullarsi di dosso la neve. Scambiò un ultimo sguardo con Izou, e il moro intuì che fosse dispiaciuta. Ma per lui aveva già fatto abbastanza.
Nel giro di un istante lo scialle della donna gli era stato strappato di dosso, e allora si concentrò sugli uomini davanti a lui. Anche loro erano poco più che sagome indistinte; i loro lineamenti erano nascosti dall’oscurità della sera che avanzava, ma quando il più basso dei due si avvicinò a Izou puntandogli contro una lanterna, riuscì a scorgere una chioma rossa scompigliata e un cipiglio rozzamente divertito. Sentì bruciare gli occhi alla presenza della luce improvvisa, e non riuscì a riordinare i suoi pensieri quando l’uomo gli strappò il bavaglio di bocca e lo sollevò per il mento: «Allora principessa, cominciamo a parlare?»
I muscoli delle spalle urlarono di dolore quando fu strattonato con violenza contro l’albero della nave. Era talmente ottenebrato da aver a malapena sentito qualcosa più di alcune sillabe sconnesse, ma il senso della frase gli era chiaro. Strinse le labbra screpolate e guardò il suo aguzzino in silenzio, deciso a non proferire parola.
Il rosso lo strattonò di nuovo e Izou dovette imporsi di non urlare di dolore. Sapeva che in quel momento non poteva assolutamente permettersi di perdere conoscenza. Ma mantenere i suoi sensi attivi significava anche percepire il dolore sul suo corpo in modo più intenso, e non era sicuro di riuscire a restare sano di mente a lungo se avesse continuato così. Trattenne il fiato quando si sentì carezzare viscidamente i capelli, che acconciati in una lunga treccia non si erano spettinati grazie all’acqua di cui erano impregnati. «Ma che bei capelli che abbiamo qui…» L’uomo si sfilò un coltello dalla cintura e lo fece passare rozzamente lungo il viso di Izou aprendogli un derisorio taglio su tutta la guancia sinistra. Poi afferrò con decisione la treccia del ragazzo: «Lo sai che una treccia come questa non vale affatto poco? Specie se di un pirata morto, che ne dici?»
Izou spostò lo sguardo stanco verso di lui prima di aprire bocca: «Vuoi farmi parlare minacciandomi di tagliarmi i capelli?»
A malapena finì la frase, perché ammutolì non appena si accorse di non riconoscere la voce graffiata e tremante che uscì dalla sua gola. Parlare bruciava, bruciava terribilmente. L’uomo dovette accorgersi del debole lampo di esitazione che passò per i suoi occhi spenti, perché rise mentre lo strattonava una terza volta e tagliò con un colpo netto la chioma, lasciandogli una corta zazzera corvina e soltanto le lunghe ciocche frontali a coprirgli il viso.
«Ti stavo solo informando, bellezza. Lo sai che abbiamo altri modi per farti parlare.»
Izou avrebbe voluto rispondere ma non ne aveva le forze, e perse quelle poche rimanenti quando il contrabbandiere gli sferrò senza preavviso un pugno in pancia. Sentì l’addome contrarsi e in automatico cercò di chiudersi su sé stesso, ma gli arti legati all’albero glielo impedirono e non riuscì a fare altro che contrarre tutti i muscoli in un unico sforzo. Il suo corpo sembrava bruciare, come se si stesse distruggendo dall’interno, ma soprattutto non riusciva a respirare.
Perse totalmente la cognizione di chi aveva attorno mentre tossiva, tossiva, poi annaspava e cercava disperatamente di far entrare aria nei suoi polmoni. In quella posizione rischiava di morire per la respirazione ostacolata, lo sapeva, quindi cercò di reprimere la paura e di concentrarsi sul distendere l’addome. Ma faceva male.
Faceva male alla gola, sentiva l’epiglottide muoversi senza coordinazione ma non aveva modo di tossire per sistemarla. Faceva male ai polmoni, perché doveva sforzarsi di non inarcare la schiena e non riusciva, non riusciva a rilassarsi per azzerare tutto.
Facevano male anche i suoi lineamenti mostruosamente contratti, sentì le lacrime iniziare a scorrere sul suo viso. Faceva male dappertutto e sentiva di stare per impazzire, ma Izou sapeva che Marco non l’avrebbe mai perdonato se fosse morto così.
E anche se faceva male si concentrò, si rilassò, respirò. L’ossigeno tornò a circolare nel suo corpo. Annaspò e singhiozzò mentre alzava lo sguardo rabbioso contro gli uomini. Il rosso rideva sprezzante: «Oh, andiamo, abbiamo appena cominciato, e lo sai!» Si girò qualche istante come a voler conversare con il secondo uomo, poi si rigirò verso Izou.
«La stronzetta che ti stava aiutando in realtà ci ha facilitato il lavoro. È ora di scendere dall’altalena! Ma non preoccuparti, ci tornerai fra poco!» Liberò Izou di tutte le costrizioni, e quello cadde in avanti sulla neve. Il primo impatto fu il più duro.
Il legno della nave era a soli pochi centimetri dalla coltre bianca e quindi accolse il moro con tutta la sua rigidità. Izou sentì i muscoli contrarsi in più e più spasmi non appena poterono muoversi, disobbedienti al suo volere, e lo costrinsero a terra in una caduta compulsa. Il freddo lo aggredì con la stessa ferocia posseduta dal vento e non riuscì a fare altro che boccheggiare inerte, cercando di domare i capogiri, l’affanno, il freddo, il dolore.
 Si sentì tirare su a forza prima ancora che potesse esalare un respiro e costretto a muovere un passo dopo l’altro arrancando tra la neve sciolta.
«Andiamo dolcezza, avrai un corpicino delicato ma sei pur sempre un cazzo di pirata, no? Muovi quelle gambe!»
Ma le gambe di Izou si rifiutavano di collaborare. Tremavano ininterrottamente, così come le mani e le spalle e le labbra, incapaci di assestarsi in una posizione, e ogni volta che il ragazzo cercava di controllarle gli mandavano delle scariche di dolore impossibili da sostenere. Dopo il freddo, la fame e l’immobilità, i suoi arti non gli rispondevano più e per Izou era la cosa peggiore del mondo. Non poteva fare affidamento sul suo corpo. Era indifeso, e i suoi aguzzini lo sapevano fin troppo bene.
Fu trascinato qualche altro metro prima che gli uomini si arrendessero e lo lasciassero cascare di nuovo nella neve.
«Non ce la fai proprio, eh?»
Izou non rispose. No, non ce la faceva, ma non aveva neanche intenzione di sforzarsi.
«E va bene» Borbottò il rosso, strattonando il pirata fino a farlo inginocchiare. «Se non riesci neanche a camminare, è inutile che ti leghiamo da qualche parte»
Izou sentì comunque l’uomo che bloccava con una corda le caviglie e i polsi coperti di sangue. Non capì cosa stesse succedendo e per un istante il suo pensiero si soffermò sull’incerta nuvoletta di vapore che uscì dalla sua bocca non appena espirò. Il pontile della nave era ben illuminato dalle lanterne, ma per Izou era tutto bianco e annebbiato. Era tutto neve.
Un istante, poi un dolore atroce si diramò dalla sua schiena a tutto il corpo. Udì lo schiocco della frusta che falciava l’aria dopo il colpo, poi di nuovo quel bruciore intensissimo che gli fece perdere la ragione.
Urlò, e sentì la gola rompersi in mille frammenti di vetro e l’urlo si bloccò a metà, e rimase con la bocca aperta e un rantolo fra i denti.
Poi una terza frustata e Izou si accorse di non star respirando, e ci provò e pianse perché era troppo, era troppo da provare in un solo istante. Sentiva lava bollente sulla sua schiena e vento glaciale sul suo petto, e si buttò a terra per bloccare tutto, ma non si provocò altro che nuovo dolore. E aveva gli occhi serrati e allora li aprì, e tutto ciò che vedeva era neve rossa, così sfocata e distante che non sembrava tale.
E qualcuno lo tirò per il braccio e lo rimise in ginocchio, e poi di nuovo ci fu dolore, più intenso, sempre di più, e non sapeva più se era seduto o sdraiato, se pioveva o nevicava o piangeva, e aveva caldo e freddo e le sue mani erano piene di sangue, e tremavano, e non sapeva se le stava guardando o immaginando; e gocce salate gli bruciavano il viso e un altro lapillo cadeva sulla sua schiena, e Izou non ce la faceva più, era troppo, era tutto…
«IZOU!»
I colpi sembrarono fermarsi ma il dolore no, e Izou rimase fermo immobile nella sua posizione, senza sapere quale fosse, e all’improvviso sentì più distintamente ogni squarcio sulla sua pelle, ma fu un attimo e poi tutto si travolse in un’ondata di sangue, che scorreva ovunque, dentro e fuori, negli occhi, sulla lingua, sulla neve… E ogni volta che respirava i suoi muscoli e le sue ossa si opponevano come se volessero uscire dal corpo, ma al contempo lo spronavano a continuare, e sentiva il suo cuore battere e ribattere e arrivare sulle tempie, bum, bum, bum, bum…
E non sapeva se fosse troppo veloce, sicuramente era forte perché Izou sentiva soltanto quello, poi respirò e sentì il rumore dell’aria che entrava dalla bocca tremante, ed era strano perché dava fastidio e faceva male. Ed era stanco, ma sapeva che non poteva addormentarsi, e allora aprì gli occhi.
«IZOU!»
Il cielo era una distesa scura minacciosa, abbassò lo sguardo, e la neve invece era bianca e rossa ed era bella, perché lo distraeva, ma non capiva da cosa. I suoi arti pulsavano, ma Izou voleva restare sdraiato ancora un po’, perché era stanco, e neanche si ricordava perché non doveva chiudere gli occhi. Ne aveva così voglia…
«IZOU!» Ma qualcosa lo scosse, forte ma senza la durezza degli uomini di prima. Era quasi gentile. Ma teso. Era luminoso… era sicuro.
Sbattè le palpebre. La sua vista era macchiata di rosso, e si accorse dopo un po’ che qualcuno stava passando le sue dita sul volto per levare sangue e neve. Erano dita delicate, e seppe di conoscerle.
Allora si sforzò per cercare di guardare davvero davanti a sé. Cos’era quella luce?
҉
 
Marco non riusciva a credere cosa gli avessero fatto. Izou era lì, davanti a lui, dopo che l’aveva cercato per ore, ma a malapena si riconoscevano a vicenda.
Sentiva Haruta, l’unico che fosse riuscito a trasportare durante i suoi voli di ricognizione, affrontare i due uomini che si trovavano con Izou al momento del loro arrivo precipitoso. Sapeva che il rumore del combattimento avrebbe attirato in brevissimo tempo il resto dell’equipaggio, ma adesso gli era chiaro che fosse impossibile scappare in tutta fretta. Per prima cosa perché non era in grado di trasportare due persone in contemporanea, e poi perché era evidente che Izou, nelle condizioni in cui stava, non era in grado di resistere a un viaggio del genere.
Ma quei ragionamenti, elaborati negli istanti in cui correva sul pontile per raggiungere Izou, sparivano dalla sua testa mentre si affannava a pulire il viso di Izou dalla neve sciolta e dal sangue. Voleva abbracciarlo e stringerlo, ma più lo guardava e più si rendeva conto di quanto fosse fragile in quel momento.
Aveva lo sguardo fisso davanti a sé, con le pupille dilatate e le palpebre tremanti, ma non stava davvero guardando. Lo chiamò più volte, cercando inutilmente di calmare l’agitazione nella sua voce, e dopo un po’ vide che il ragazzo stava sbattendo gli occhi con più frequenza. Le sue pupille si restrinsero e riallargarono velocemente mentre finalmente spannava la sua vista e riconosceva la figura del biondo.
Socchiuse le labbra non appena capì che Marco era davvero lì, che era venuto a salvarlo. Non riuscì a pronunciare il suo nome, ma le lacrime di gratitudine che iniziarono a rigargli il volto furono più che sufficienti.
Il biondo gli posò una mano sulla guancia per confortarlo. Izou tremava e perdeva una quantità inaudita di sangue dalla schiena, e Marco non aveva dubbi che fosse preda di atroci dolori. Ma era forte, tanto forte, e poteva sopportarlo.
«Izou» lo richiamò con voce seria, imponendosi di cercare un ordine di priorità tra le tantissime cose che gli passavano in mente. «Resta cosciente.»
Non attese risposta né cenno d’assenso e si chinò per liberare i polsi e le caviglie del ragazzo. Non poté fare  a meno di rabbrividire di fronte ai solchi lasciati dai chiodi, dai quali continuava a scorrere sangue gelido.
Izou posò la sua fronte sulla spalla del biondo. Il primo pensiero che sfiorò la mente di Marco fu che era strano non avere a disposizioni i lunghi capelli corvini da carezzare, ma l’istante dopo si riscosse dall’assurda considerazione e lo allontanò allarmato: «Izou! Resta cosciente! Per favore, resta cosciente! Ascoltami!» Gli prese la testa fra le mani e lo obbligò a guardarlo negli occhi. Voleva usare un tono tranquillo, ma sapeva che non gli avrebbe giovato.
Si sentì morire quando gli urlò contro, scuotendolo più e più volte per svegliarlo, e Izou sussultò per il dolore. Era pallido, freddo, a malapena senziente, e Marco non poteva fare altro che tenergli la testa per impedirgli di cadere a terra.
Aveva già provato più volte ad attivare il potere del suo frutto del diavolo per guarirlo, ma niente aveva effetto. Non aveva mai funzionato, in effetti; ma valeva la pena fare un tentativo.
Era totalmente inutile.
«Marco!»
Era arrivato il momento di combattere. Un’intera schiera di marinai e mercenari armati fino ai denti stava uscendo a grande velocità sul ponte, lanciandosi in battaglia senza alcuna esitazione. Marco adagiò il suo cappotto su Izou, coprendogli le gambe e parte del torace, poi si trasformò in fenice e contrattaccò.
I nemici erano tanti, e anche se non eccessivamente forti rappresentavano comunque un problema. Erano ben organizzati e sapevano di dover puntare a Izou per stabilizzare le poche forse venute in suo aiuto. Di fatto, constatò Marco, più che mettere fuori gioco i nemici, era impegnato nel disarmarli e nell’assorbire tutti i proiettili indirizzati al suo compagno all’interno del fuoco rigenerante della fenice.
Dopo uno sguardo d’intesa con Haruta, i due si divisero i compiti: Marco rimase a guardia di Izou, l’altro fece irruzione tra le fila nemiche nel tentativo di eliminare quanti più uomini possibili.
Marco non poteva vederlo, ma Izou si stava gradualmente svegliando dallo stato di trance in cui si trovava. Al contrario delle più recenti lesioni della frusta, i suoi muscoli pesantemente indolenziti stavano pian piano cedendo al volere del ragazzo: e senza saperne il motivo si issò su una gamba, e quando essa smise di formicolare mosse anche l’altra, e si ritrovò in piedi.
Nuove scosse di freddo partivano dalle piante dei piedi e minavano il già precario equilibrio. Il suo sguardo era fisso verso il basso, perché non percepiva davvero le sue gambe e sentiva che se avesse distolto gli occhi, queste avrebbero ceduto senza preavviso. Gli girava la testa, ma qualcosa gli imponeva di restare in allerta. Forse erano le urla e gli spari che udiva in un susseguirsi confuso e disturbante, o la vista dei lividi e del sangue che gocciolava da ogni parte del suo corpo su cui riuscisse a posare gli occhi, o il fatto che un uomo armato si stava dirigendo verso di lui a gran velocità.
Ma Izou poteva solo immaginare che fosse davvero veloce, perché ciò che vedeva era una sagoma sfocata che, un fotogramma dopo l’altro, si avvicinava incostante alla sua posizione. E con la stessa incerta prospettiva vide Marco – la sua luce gialla e blu che a tratti lo avvolgeva destreggiandosi in riccioli sinuosi – avventarsi sull’uomo e farlo cadere a terra, facendogli cadere la pistola di mano.
Ci mise ancora più tempo ad accorgersi che la pistola del nemico era caduta proprio davanti ai suoi piedi, e qualcosa simile ad una scintilla arse per un istante in lui.
Perché Izou era uno spadaccino ma anche un cecchino, se lo ricordava, e anche se il suo corpo non era affidabile, sapeva che invece le pistole non lo avrebbero tradito. E così la sua schiena bruciò come mille alberi in fiamme mentre si chinava e la raccoglieva in un movimento che fino a qualche giorno prima avrebbe definito automatico, ma che adesso rivelava tutto lo sforzo che il corpo stentava a fare.
Fu con la stessa dimestichezza che, al rumore dell’ennesimo sparo, puntò l’arma verso i pochi contrabbandieri rimasti.
E una chioma vermiglia si distinse tra gli altri e si avvicinò, e allora Izou puntò proprio contro di lui. E il rosso fece altrettanto.
E Izou vide Marco scattare verso di loro e sapeva che era velocissimo, e allora non capì perché il tempo sembrava essersi rallentato mentre l’uomo scandiva gelido: «Butta a terra l’arma o sparo.»
Pochissime parole dal significato chiaro, impossibili da fraintendere. Ma Izou strinse di più la pistola. E, nel momento in cui il dolore alle mani si fece insopportabile, sparò.
 
All’inizio non sentì proprio niente.
Suoni, dolore, freddo, lo scorrere stesso del tempo, era tutto sospeso in un momento intangibile.
«IZOU!»
Di nuovo quella voce, quel tono così disperato. Sembrò riecheggiare mille volte.
Qualcosa cadde nella neve.
Qualche grido lontano. Passi. Vento.
Poi un fiore rosso sbocciò sul petto di Izou, e nell’istante dopo un altro sull’addome, e con uno zampillo il loro sangue si riversò sulla neve.
E la terra girò e lui cadde di schiena, mentre i passi continuavano, le gambe tremavano e l’aria si faceva sempre più difficile da respirare. La sua bocca si riempì di sangue e la sua vista si offuscò, e sentiva qualcuno che gli teneva la mano – voleva dirgli che faceva male, ma dalla sua gola colava soltanto quel liquido viscoso che usciva portandosi dietro le sue energie. Sbattè le palpebre e quel qualcuno era Marco, e muoveva la bocca in modo frenetico e probabilmente stava urlando, ma tutti quei suoni erano strani e lontani per Izou che non capiva niente.
Ma sapeva che il corpo di Marco era caldo, e così erano le fiamme che lo stavano ricoprendo, e voleva avvicinarsi a lui.
«IZOU!»
Sì, stava chiamando il suo nome, ma non sapeva come rispondere. Alzò di nuovo gli occhi su di lui e vide che piangeva, e qualcosa di terribile gli si diramò nel petto. E all’improvviso il suo cuore fece male, e tossì e tutto tremò e cercò di gridare, e la schiena bruciava e la pancia esplodeva e la sua vista divenne rossa.
Sentì Marco che lo stringeva forte contro di sé ma non faceva male, e si sentiva carezzare i capelli e forse non era male, forse era bellissimo.
E tutto si attenuò mentre vedeva la neve continuare a cadere, prima candida, soffice, per poi sciogliersi dolcemente nello stagno vermiglio. E niente faceva più male, e sentiva soltanto il calore di Marco, le sue mani e le sue lacrime e i suoi baci.
Aveva sempre amato sentirsi protetto così, e mentre la neve scendeva, a Natale, Izou sorrise e chiuse gli occhi.
   
 
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