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Autore: NPC_Stories    07/01/2020    4 recensioni
Storia ambientata nei pochi mesi che Daren e Johel hanno passato nella foresta di Mir, prima che le loro strade si separassero in Ricostruire un ponte. Johel è felice di essersi riunito alla sua famiglia dopo molto tempo, e non si accorge che il suo amico ha cominciato a frequentare una ragazza.
Mi hanno chiesto in molti se Daren abbia mai avuto una relazione amorosa. Forse questa storia è più esaustiva di un semplice "no".
Genere: Fantasy, Fluff, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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1361 DR: Restare è esistere, ma viaggiare è vivere


Aphedriel stava studiando. Questo non era strano, la giovane maga era sempre molto ligia e passava la maggior parte del tempo china su grossi tomi di teoria e pratica magica.
Quello che invece era strano, era che Freya le stesse facendo compagnia sui libri. Be’, su un libro.
“No!” squittì Freya, chiudendo di scatto il volume. “Che fai, brutto imbecille, lei ha troppo stile per cascarci!”
Aphedriel sollevò un sopracciglio corvino e si girò per sbirciare cosa stesse facendo Freya. Era sdraiata sul loro letto e teneva in mano un romanzo, che aveva già riaperto cercando freneticamente la pagina.
“Una lettura avvincente?” le domandò con un sorrisetto. Era una cosa rara, vedere la stregona così presa da un testo scritto.
Aphedriel sapeva che le letture della moglie erano semplice narrativa. La figlia del capoclan non era stupida, ma aveva un carattere troppo frenetico, un tomo di saggistica l’avrebbe annoiata a morte. Freya non sentiva la necessità di nozioni ma di emozioni. La maga era molto contenta che avesse trovato uno svago in quel libro, perché di norma avrebbe cercato quelle emozioni da lei… Aphedriel amava la sua giovane sposa e il suo entusiasmo, ma a volte sentiva la mancanza di un intero pomeriggio sui libri senza essere interrotta da baci, abbracci, tentativi di flirt e di Come Sei Bella Quando Ti Concentri. Aveva il sospetto che per Freya fosse una specie di missione, distrarla dallo studio, come se si sentisse in competizione con i libri e fosse gelosa.
“È un romanzo che Johel mi ha portato dall’ultimo viaggio, l’ha comprato a… Dagger… burg… o qualcosa del genere. A Waterdeep hanno una cosa nuova che si chiama macchina da stampa e stanno stampando molte copie di novelle di avventura, amore, intrighi e crimini efferati. Questi sono libri che potrei leggere senza annoiarmi! E anche se pensavo che questo fosse noioso, perché è stampato fitto fitto, alla fine ho deciso che mi piace.”
Aphedriel sbirciò la copertina, con la sua vista acuta da elfa. Il titolo era tutto un programma: La Rosa di Neverwinter: l’Amore Sconfigge l’Oscurità.
La sovrabbondanza di lettere in maiuscolo e la calligrafia floreale in caratteri d’argento le fecero immediatamente bollare il libro come spazzatura, ma non voleva smorzare l’entusiasmo di Freya.
“Che bello, tesoro” sorrise a labbra strette.
La brunetta fece scorrere le pagine, sospirando perché non trovava più il punto in cui si era interrotta. Non c’erano poi molte pagine fra cui cercare.
“C’è questa città umana chiamata Neverwinter, fatta solo di castelli collegati fra loro… che secondo me è una sciocchezza, perché dov’è il popolo? Una città abitata solo da nobili non ha il minimo senso.”
“Hm-hm” concordò Aphedriel, distrattamente.
“Però la trama non è male. A Neverwinter ci sono settanta nobili fanciulle bellissime…”
“Oh! A saperlo avrei visitato Neverwinter decenni fa” scherzò la maga.
“Non è la vera Neverwinter” Freya le lanciò un’occhiataccia, ma l’altra era di spalle e non la vide. Sentì, però, il tono un po’ offeso della moglie.
“Scherzavo, tesoro, non mi interessano le donne umane. Alcune di loro sono anche passabili, ma poi ti giri un istante, e un attimo dopo hanno già le rughe e i loro seni floridi sono solo un ricordo…”
Freya le tirò una scarpa di cuoio, colpendo lo schienale della sedia.
“Non esistono altri seni floridi all’infuori dei miei” bofonchiò.
“A volte mi chiedo se sei davvero un’elfa” Aphedriel si girò a guardarla, appoggiando il mento su una mano e facendole una smorfietta provocatoria. “La gelosia, la tua rozzaggine… all’inizio pensavo fosse una cosa tipica degli elfi dei boschi, ma pochissime persone qui sono come te.”
Nessuna persona è come me” la corresse Freya “e lo sai che non sono un’elfa completa, la mia bisnonna era una ninfa.”
“Che sarebbe la nonna di tuo padre, l’elfo più dignitoso e compassato che io abbia conosciuto fuori da Evereska, quindi trova un’altra scusa.”
La stregona aggrottò la fronte. “Be’, sono anche giovane. E sono molto innamorata, purtroppo.”
“Oh? Purtroppo?” Aphedriel la punzecchiò ancora.
“Una maledizione! Guarda…” riprese a sfogliare freneticamente il suo libro. “La ragazza più bella di Neverwinter viene contesa da sei principi. Sei maledetti principi belli da schiantare il fiato, e lei è lì che li tiene sul filo e si fa corteggiare. E io, che sono molto più bella di qualsiasi umana, non avrò mai sei spasimanti che gareggiano per me, perché sono già sposata e irrimediabilmente innamorata!”
“Avrei dovuto corteggiarti di più quando potevo farlo” l’elfa della luna stette al gioco. “Nei dieci secondi fra quando ci siamo incontrate e quando mi hai chiesto di sposarti.”
“Sì, è vero, potrei essere un po’ irruente…” Freya si strinse nelle spalle.
Aphedriel stava per mettersi a ridere, ma in quel momento uno scroscio di pioggia si riversò nella stanza dalla finestra. Gli acquazzoni tardo-autunnali erano improvvisi e violenti, a Myth Dyraalis.
Aphedriel lanciò un urletto, e Freya scattò in piedi, correndo a chiudere le imposte.
“Accidenti… dannato vento…” imprecò, sporgendosi dalla finestra per recuperare le persiane che sbattevano. Alla fine riuscì a chiudere fuori la pioggia, ma quando Aphedriel accese una luce magica per rischiarare la stanza si accorse che Freya era bagnata come un pulcino. La risata che aveva trattenuto prima le scappò di bocca.
Freya stava per offendersi, ma Aphedriel l’asciugò immediatamente con un incantesimo e le passò una mano fra i capelli spettinati. “Scusami, eri adorabile così bagnata. E poi si vedevano bene quelle cose che solo tu hai…”
L’elfa dei boschi rimase perplessa per un attimo, poi ricordò la battuta sui seni floridi e arrossì. “Ma dai, stavo scherzando. In realtà… leggere quel libro pieno di castelli, splendidi giardini, persone nobili e corteggiamenti, mi ha fatta riflettere sulla nostra vita.” Cercò lo sguardo di Aphedriel come se volesse la sua approvazione. I loro occhi si incrociarono, nell’intimità della loro stanza rischiarata da un tenue incantesimo di luce. “Sulla mancanza di romanticismo nella nostra vita. Io ti ho portata via da una città piena di splendidi palazzi, giardini addomesticati, alberi dalla chioma blu…”
“Hanno proprio colpito la tua immaginazione, quegli alberi” scherzò la maga, ricordando che Freya si era lamentata di come gli elfi cittadini pretendevano di imbrigliare la natura, ma era rimasta affascinata dalle piante di fogliablu che crescevano nel nord.
“Sono belli. A me piace tutto ciò che è bello. E mi sono ritrovata a pensare… che razza di vita ti ho dato? Myth Dyraalis per me è casa, ma non è il posto più bello del mondo.”
“Freya, questa città è splendida. È la quintessenza di quello che una città elfica dovrebbe essere. Palazzi arborei, ponti a diverse altezze, piante di ogni genere, sentieri ben curati…”
“Piante molto simili” rettificò Freya “senza grandi colori, perfino in primavera. Solo toni di verde, e nemmeno l’ombra di un corso d’acqua. Abbiamo i pozzi per l’acqua potabile, e una piccola sorgente che alimenta un ruscello, ma non abbiamo un angolino romantico, nemmeno un ponticello pittoresco, per non parlare di eleganti canali navigabili nelle notti di luna piena su una nave a forma di cigno con un baldacchino di seta e…”
“Dovresti proprio smettere di leggere quella roba” la interruppe Aphedriel “sul serio, amore, gli unici gesti romantici che contano sono quelli spontanei. Lasciamo le barche a forma di cigno agli umani, e lasciamogli anche roseti che fioriscono in inverno, grossolani poemi d’amore, passeggiate sul lungofiume nelle sere di primavera e altre sciocchezze. In questa città c’è vera bellezza, e il culmine di quella bellezza sei tu. Questo è il luogo che chiami casa, quindi è anche la mia casa.” L’elfa della luna scandagliò le parole della moglie nella sua mente, per cercare di capire se Freya stesse davvero imputando a lei quel desiderio di romanticismo oppure se fosse un’inconscia proiezione dei suoi desideri. Freya dopotutto aveva passato la vita a Sarenestar, uscendo solo per la sua breve gita ad Evereska. Forse la stregona si sentiva in trappola nella casa della sua infanzia? “Ad ogni modo siamo donne adulte. Possiamo anche viaggiare ogni tanto, prenderci una vacanza. Non dico proprio in questo momento, il tempismo sarebbe pessimo, con quasi tutti i nostri ranger lontani dalla foresta… io non me la sentirei di abbandonare Myth Dyraalis senza il supporto dei nostri poteri, perché non si sa mai cosa può succedere. Ma quando Tazandil tornerà da Shilmista, allora potremmo anche dedicare un po’ di tempo a noi due. Potremmo andare… non so… a visitare altre città elfiche, o perfino le città umane.”
Freya sembrò rasserenata dal discorso della sua amata, e verso la fine un bagliore di genuino entusiasmo si accese nel suo sguardo. Forse Aphedriel ci aveva visto giusto, dopotutto. L’elfa dei boschi aveva bisogno di evasione.
“Sì! Hai ragione, non possiamo lasciare la città fintanto che siamo in situazione di allarme, con le difese ridotte ai minimi e senza sapere se mio zio tornerà sano e salvo. Però fra un po’ di tempo potremmo viaggiare. Non nel Tethyr umano, sono in una fase di instabilità politica e guerriglia che va avanti da… da… boh, dieci anni o poco più, e quindi potrebbe durare ancora molto. Però c’è sempre la Wealdath, la foresta di mia zia. Potrei… forse in futuro potrei anche propormi per missioni diplomatiche, come mio cugino Johel.”
Aphedriel le accarezzò una guancia, perdendo tempo a giocherellare con i suoi ricci castani. Aveva il solito sguardo adorante, ma c’era qualcosa di più; era anche orgogliosa di Freya, in quel momento. Sta crescendo, disse a se stessa. Sperimenta quel desiderio di vedere un pezzetto di mondo, come quasi tutti gli elfi della nostra età. Io non ne sono altrettanto ansiosa… ma forse dovrei mettere in conto che la mia vita potrebbe non essere stanziale come avevo immaginato.
“Sì, potresti” l’assecondò. “Tuo padre ne sarebbe contento. Ma se vuoi ricoprire un ruolo diplomatico, tesoro, dobbiamo lavorare un pochino sul tuo carattere.”
“Cosa? Che ha il mio carattere che non va?” Freya incrociò le braccia sul petto, offesa, dimostrando che Aphedriel aveva ragione. “Mi sento profondamente insultata, Ariel. E ferita. Questo conta come un litigio.”
L’elfa della luna fu colta alla sprovvista dall’improvviso malumore della compagna, ma poi riconobbe il bluff per quello che era.
“E se anche fosse un litigio?” decise di darle corda, per vedere dove volesse andare a parare.
È un litigio” confermò la stregona. “Quindi ora dobbiamo fare pace.”
Aphedriel rispose con un sorrisetto interessato, mentre Freya attaccava con impazienza i bottoni del suo vestito. Una vocina interiore le ricordò timidamente che poco prima stava studiando, e che era contenta che Freya avesse qualcos’altro da fare anziché dedicarsi a lei, ma nel giro di un attimo l’elfa della luna aveva già cambiato idea sulle sue priorità.

Fuori dalla loro finestra sprangata uno scricciolo blu atterrò su un ramo, zuppo di pioggia. Gwlith era di ritorno da uno dei suoi voli esplorativi, e aveva trovato la finestra della sua padrona chiusa dall’interno. Incapace di stabilire un contatto telepatico con la sua maga, che evidentemente era impegnata a fare altro, l’uccellino si scrollò di dosso la pioggia e scese in planata verso un’altra struttura di legno, più in basso sullo stesso albero.
Gwlith sapeva che c’era un’apertura, fra la parete e il tetto, abbastanza larga per lasciar passare un uccellino. Un tempo era usata dalla piccola civetta di Merildil, che poi era morta di vecchiaia, ma sul legno c’erano ancora i segni dei suoi artigli. Gwlith era sollevata che non ci fossero altri uccelli predatori intorno a quella casa, le bastava la poiana dell’altra elfa.
Con il tempo lo scricciolo e la poiana avevano imparato a convivere, visto che fra le loro padrone c’era così tanta intesa, ma la piccola Gwlith non era comunque a suo agio accanto a Piper.
Gwlith sapeva che non c’era modo di accedere alla stanza della sua padrona Aphedriel passando dalla cucina, perché in una casa elfica come quella le stanze erano piattaforme separate, su diversi rami; però almeno sarebbe stata al caldo e all’asciutto. Volò fino al tavolo. C’erano diverse elfe in cucina in quel momento, ma Gwlith le conosceva tutte, quindi non si allarmò; anzi, si avvicinò alla padrona di casa e iniziò a cinguettare con insistenza, per farsi dare dei semi.

“Uccellino!” Esplose Jaylah, vedendo lo scricciolo blu planare sul tavolo. “Ciao uccellino, vieni sulla mia mano!”
Gwlith ovviamente la ignorò.
Merildil ormai conosceva l’irruenza della nipotina, che non sapeva dosare il suo entusiasmo davanti agli animali, ma pensava che in quanto druida fosse un suo dovere educarla.
“Jaylah, se vuoi diventare amica degli uccellini devi lasciare che siano loro ad avvicinarsi a te. Non gli puoi gridare addosso in questo modo, li spaventi” le ricordò con pazienza.
“Ma posso darli io la pappa?” Domandò la piccola, guardando con desiderio il sacchetto di semi che Merildil stava tirando fuori da un cassetto. “Così diventiamo amici!”
“Puoi, ma devi farlo con calma” insistette Merildil, guidando la piccola mano della mezzadrow nel prendere e stendere sul tavolo una striscia di semi.
“E adesso quando si avvicina ci posso giocare?”
“No, quando Gwlith si avvicinerà tu la guarderai mangiare in pace. Così lei si abituerà ad averti intorno anche mentre è felice perché sta mangiando. Se tu la spaventi mentre mangia, non si fiderà mai di te.”
“Ma io non vollio spaventalla! Non ho mica fatto la faccia cattiva…” Jaylah sembrava un po’ demoralizzata.
“Certo che non vuoi, ma tu sei molto più grande di un uccellino. Gli animali hanno sempre paura di quello che è più grande di loro. Perfino dei bambini.”
“Oh” Jaylah tradì un’espressione rassegnata, un po’ triste. “Va bene.”
Merildil tenne d’occhio la nipote per controllare che avesse capito davvero. Sembrava di sì. Jaylah aveva appoggiato i gomiti al tavolo e ora stava osservando rapita lo scricciolo che beccava i semi. Era chiaro che avrebbe voluto tendere una mano e toccarlo, ma si trattenne.
Merildil mise mentalmente a confronto quella scena con le parole di Hinistel di poco prima. Sua cognata era venuta a trovarla portando la bambina e una lettera di Tazandil. Era venuta per tre ragioni. La prima, più personale, era per chiedere alla druida un parere sullo stato della sua gravidanza; Hinistel non era più giovane, e anche se alcune elfe rimangono fertili ben oltre i quattrocento anni, comunque era il caso di tenere sotto controllo il suo stato di salute. La seconda ragione era politica: consegnare a lord Fisdril la lettera di Tazandil. Il ranger talvolta rasentava la paranoia, aveva deciso di non scrivere lettere a suo fratello per paura che fossero intercettate dai maghi nemici, quindi aveva nascosto con cura informazioni sullo stato della guerra in mezzo a una lettera apparentemente innocua e nostalgica a sua moglie. Hinistel non conosceva il codice di Tazandil, ma Fisdril sì. La donna poteva solo leggere il significato più superficiale della lettera di suo marito, e sperare che le tenere parole che aveva per lei fossero sincere e non solo una facciata per nascondere messaggi strategici. Aveva bisogno di Fisdril per determinare quali espressioni fossero rivolte a lei, e quali al capoclan.
La terza ragione riguardava la famiglia, ed era racchiusa nell’ultima frase della lettera, così diretta e impersonale, così da Tazandil. Merildil la rilesse ancora una volta, per sicurezza.

In ultimo, ti informo che Jaylah è approvata come nipote. Per quando tornerò spero di trovarla più acclimatata alla cultura elfica di quanto non lo sia ora.

Il tono della frase, piuttosto secco, sembrava dissonante rispetto alle parole tenere che aveva scritto per sua moglie… ma agli occhi di chi conosceva Tazandil di persona quell’ultima frase sarebbe apparsa come l’unica davvero scritta di suo pugno.
“Che cosa significa che Jaylah è approvata come nipote? È vostra nipote” Merildil alzò lo sguardo dalla lettera per sondare l’espressione di lady Hinistel. “Non c’era nulla da decidere.”
“Tazandil è così” l’elfa dai capelli rossi si strinse nelle spalle. “Deve sempre far credere di avere il controllo. Io non ho mai messo in dubbio che la nostra piccola faccia parte della famiglia.” Confermò, accarezzando i capelli biondissimi della bimba mezzadrow. “D’altro canto non ha torto su una cosa: non è ancora acclimatata con i nostri usi e costumi. Non è elfa. Anch’io vorrei che lo diventasse, ma a volte mi chiedo…” la sua voce si spense in un silenzio imbarazzato, perché non sapeva trovare le parole per esprimere i suoi dubbi.
“È buona la pappa, uccellino?” sussurrò Jaylah, guardando Gwlith con il chiaro desiderio di interagire con l’animale. “Vuoi altri semi?”
Merildil allontanò il sacchetto di semi dalla portata della nipotina. Era chiaro che la piccola avrebbe fatto di tutto pur di stabilire un contatto amichevole con il famiglio di Aphedriel. Anche a costo di riempirlo di cibo fino a farlo esplodere.
“Basta semi. Ha mangiato abbastanza. Se si riempie troppo, poi non riesce più a volare.”
Jaylah ridacchiò, divertita dal pensiero di un uccellino sferico che sbatte inutilmente le ali.
“Vollio fare un disegno di uccellino che è troppo cicciotto pe’ volare” affermò.
Merildil per fortuna aveva sempre dei carboncini, e le diede un vecchio tagliere di legno su cui disegnare. Qualsiasi cosa purché si intrattenesse da sola, in silenzio.
“Ti preoccupa il modo in cui parla?” domandò a Hinistel, con un sorriso di comprensione. “Temi che Jaylah abbia dei… problemi di apprendimento?”
“Non ho visto miglioramenti significativi da quando è qui.” La veggente vuotò il sacco, condividendo le sue preoccupazioni. “Sono cinque mesi ormai. I bambini della sua età di solito imparano in fretta. Ha imparato a pronunciare meglio alcune parole, ha ampliato il suo vocabolario un pochino, ma mantiene ancora certe abitudini… e certi difetti di pronuncia che Johel aveva già perso prima dei tre anni.”
“A volte accavalla le consonanti diverse” confermò Merildil, che aveva notato le stesse problematiche. “Oppure non si cura di pronunciare l’ultima lettera se è una consonante.”
“A volte sbaglia l’ordine delle sillabe all’interno di una parola” rincarò Hinistel.
“Però, amica mia, non dobbiamo dimenticare che l’elfico non è la lingua in cui è cresciuta finora. Spero che Johel parlasse con lei nella nostra lingua, ma chiunque altro, forse perfino sua madre, parla in quel volgare dialetto umano.” Le ricordò la druida.
Le due nobili elfe si scambiarono uno sguardo incerto, di sottecchi. Non parlavano mai della madre di Jaylah. L’argomento era… non proprio imbarazzante, ma un po’ scomodo. Era una drow e sapevano che non era malvagia, ma non era come Daren che cercava almeno di vivere fra gli elfi; ai loro occhi, lei faceva la contadina in mezzo ad umani contadini.
Perfino gli elfi di Sarenestar sapevano che non tutti i drow vivevano nel sottosuolo, ma quelli che vivevano in Superficie di solito erano i gentili seguaci di Eilistraee (gentili in termini generali, con l’eccezione di Daren), oppure i malvagi fedeli di Vhaeraun che cercavano di riappropriarsi indebitamente di un posto sotto le stelle. Tutti loro avevano una cosa in comune: una loro identità, un’idea di comunità. Non erano tipici drow, ma erano drow.
La madre di Jaylah era una stramberia perfino per gli standard del suo popolo. Secondo Hinistel e Merildil un’elfa, di qualsiasi razza fosse, non avrebbe dovuto mescolarsi così agli umani. Ma loro erano elfe dei boschi. Appartenevano a un popolo che amava le foreste e cercava di mantenere il suo stile di vita ancestrale. Gli elfi dei boschi, nonostante il loro buon cuore, sono isolazionisti e tradizionalisti. Se fossero state elfe della luna, abituate all’idea di vivere in città miste fianco a fianco con gli umani, forse avrebbero trovato più accettabile lo stile di vita di quella drow solitaria.
“Forse abbiamo imposto a Johel un fardello troppo pesante, fin da quando era giovane, facendone un girovago” sussurrò Hinistel. “Non è la prima volta che ci penso. All’inizio viaggiava solo fra insediamenti elfici, ma guarda com’è cambiato da quando ha iniziato ad avere contatti con gli umani. Io… so che era giusto lasciargli fare le sue esperienze, ma a volte penso che qualcosa di elfico in lui si sia perso.”
“E tuttavia è la diversità che ci arricchisce” considerò Merildil. “Tuo figlio non è meno elfo di me, ha solo un punto di vista un po’ diverso. Non possiamo mettere da parte con leggerezza le opinioni di qualcuno che ha visto in prima persona il mondo. Ci serve qualcuno che sappia interpretare i comportamenti degli umani. L’incomprensione e le barriere culturali sono una delle principali cause di conflitto.”
Hinistel annuì, perché era una cosa su cui aveva riflettuto a lungo. Sapeva che una figura come quella ci voleva, ma il fatto che fosse proprio suo figlio a dover rivestire quel ruolo ambivalente le causava sentimenti contrastanti.
“Io non sono… contraria al fatto che Johel viaggi. All’inizio ci occorreva qualcuno che mantenesse i rapporti con la Wealdath e lui sembrava la soluzione ideale, essendo figlio di entrambe le foreste. So che molte volte ha fatto visita al mio clan di nascita e questo mi fa molto piacere. Ma poi ho capito che una volta visto un angolo di mondo, non si sarebbe fermato lì. Era così giovane, curioso, direi quasi inquieto. Volevo che facesse le sue esperienze.”
“Hai ragione a dire che quelle esperienze lo hanno reso un po’ diverso da noi. Ma se così non fosse stato, ora non avremmo Jaylah” sorrise Merildil, guardando con tenerezza la bambina che disegnava, sdraiata per terra a pancia in giù.
Hinistel si irrigidì leggermente. Spiò la reazione della cognata, indecisa se confidarle un segreto o no.
“L’arrivo di Jaylah… non era del tutto inaspettato” confessò.
Merildil inclinò la testa da un lato, dubbiosa sull’importanza di quello che aveva appena sentito. Poi ricordò che lady Hinistel era una veggente.
“Oh, certo, l’avrai previsto” considerò. “Johel avrà impiegato settimane per giungere qui con la bambina.”
“L’avevo previsto” confermò l’elfa. “Ma non così di recente. Quando Johel era appena alle soglie dell’età adulta, e venne mandato a compiere la sua prima missione diplomatica, io cominciai a preoccuparmi per il suo futuro. All’inizio temevo soltanto che potesse farsi male o incontrare pericoli. Quindi cercai di divinare il suo futuro, ma era troppo incerto. Un solo messaggio continuava a uscire, dalle carte e dalle meditazioni e anche da altri canali: che Johel avrebbe desiderato viaggiare. Il viaggio stesso è foriero di molte incertezze e pericoli, e la vita di un girovago è meno semplice da predire rispetto a quella di una persona stanziale.”
“Certo, è comprensibile.” Annuì Merildil, che aveva poca esperienza di divinazione ma comprendeva almeno le basi dei misteri arcani.
“Nonostante questo, non mi arresi. Johel era il mio unico figlio… lo è ancora” si toccò il ventre gravido, perché per scaramanzia era meglio non chiamare un bambino prima che fosse nato. “Ero preoccupata per le conseguenze delle sue scelte. Cercai di divinare allora sulla base di due premesse: cosa sarebbe accaduto se l’avessi lasciato viaggiare, e cosa invece se avessi insistito per farlo restare. Lui era giovane, e sapevo che non avrebbe mai voluto darmi un dispiacere, quindi mi avrebbe ascoltata se io mi fossi opposta.”
Merildil cominciò a intuire che quel racconto era più che un semplice aneddoto: Hinistel doveva avere un qualche peso sulla coscienza.
“Vai avanti” la incitò, bevendo ogni parola. La druida era una buona ascoltatrice.
“Ho visto che se l’avessi tenuto con me, in questa foresta, avrebbe raggiunto un’età venerabile e avrebbe avuto una vita… lineare. La sua carriera avrebbe seguito certi binari prestabiliti e non si sarebbe discostato dalla nostra cultura. La divinazione non si esprimeva su nient’altro. Non ho visto amore, né felicità, ma non significa che non ci sarebbero stati; solo non… non sarebbero dipesi da quella scelta, non so se mi spiego.”
“Non credo di aver capito proprio tutto, ma alla fine hai lasciato che scegliesse il corso della sua vita, vero? Quindi cos’hai visto quando hai guardato nell’altra direzione?”
Hinistel ci pensò per un lungo momento, poi raddrizzò le spalle.
“Non sono pentita della mia decisione” annunciò. “Perché per la verità era la sua decisione. Johel ha fatto ciò che voleva fare, ed è sempre più facile per una madre perdonare il suo stesso egoismo se coincideva con il volere dei suoi figli. Nell’altra direzione ho visto una vita molto più sfaccettata. Ho visto pericolo e dolore, ma anche gioia, amore, ricerca della verità. Ho visto tutto quello che un elfo normale vive in dieci vite, e la cosa mi ha spaventata, ma mi ha anche elettrizzata. Ho visto buone probabilità di sopravvivenza oltre l’età adulta, anche se non era una certezza, e ho visto l’alleanza di persone che l’avrebbero aiutato e sostenuto. Alcune di quelle persone siamo sicuramente noi, la sua famiglia… ma non soltanto noi. Johel è capace di stringere amicizia facilmente e questa è una virtù senza prezzo per un viaggiatore. E poi ho visto” Hinistel gettò una fugace occhiata a Jaylah, e Merildil ricordò le sue parole di poco prima: aveva previsto l’arrivo della bambina.
“Hai visto lei?” sbottò Merildil, incredula. Non era riuscita a trattenersi.
“Non proprio lei.” Sussurrò la veggente. “Non raggiungo questo livello di precisione. Ho visto qualcosa però, e sono quasi certa che si tratti di una realtà e non di una potenzialità.” Guardò Jaylah come se la stesse seriamente considerando. Poi si decise a parlare. “Tre figli. So quasi per certo che Johel avrà tre figli. Uno nato dall’amore, uno dalla lussuria e uno dall’affetto.”
Merildil rimase senza parole.
Se Hinistel sapeva tutto questo decenni prima della nascita della bambina, allora la sua decisione di lasciar partire Johel aveva sicuramente un secondo fine. La veggente dava un grandissimo valore alla possibilità di avere una discendenza, più di quanto lo facesse Merildil stessa che era la moglie del capoclan. Ma la druida sapeva che le considerazioni di Hinistel non erano di natura materialistica: l’elfa era sinceramente convinta che i bambini fossero un dono e una gioia, quindi se aveva intravisto un futuro in cui suo figlio avrebbe avuto dei figli, non poteva impedirgli di prendere quella strada. Si sarebbe sentita colpevole per aver impedito quelle nascite.
“Ma forse anche se fosse rimasto qui avrebbe avuto figli. Hai detto tu stessa che avrebbe avuto una vita… normale.”
“Nulla di sicuro” le ricordò Hinistel. “Mentre invece questi tre bambini erano ben più di una possibilità. Quasi una certezza. Non si ricevono simili dettagli se non c’è almeno quasi una certezza.” Spiegò, sulla difensiva.
“Quali dettagli? Le circostanze delle loro nascite? Tu pensi che la loro madre possa essere sempre la stessa donna? Che il suo… rapporto con Johlariel… possa evolversi dalla semplice lussuria all’affetto, e poi all’amore? O in un diverso ordine?”
“No” l’elfa scosse la testa, con sicurezza. “Ci sono altri dettagli che non ti ho ancora raccontato. Non può trattarsi della stessa madre, perché un bambino sarà elfo, uno sarà elfo per metà, e uno sarà elfo e non elfo insieme.”
Merildil questa volta dovette sedersi. Così tanti dettagli davano ragione a Hinistel, quella discendenza non era solo una potenzialità, era quasi inevitabile. A meno che non fosse successo qualcosa di brutto a Johel, altri due bambini prima o poi sarebbero arrivati.
“Un momento, un mezzo elfo… potrebbe già essere nato, Johel viaggia moltissimo da almeno un secolo e non disdegna le donne umane. Se il suo figlio elfo per metà fosse umano per l’altra metà, potrebbe essere già adulto o addirittura già morto.” Ragionò, facendo mentalmente il conto degli anni. “O tu pensi che sia Jaylah la bambina elfa per metà?”
Hinistel intrecciò le dita sul ventre, pensando a quella domanda. Era un interrogativo che le rimbalzava in mente fin da quando Johel aveva portato la piccola a Myth Dyraalis.
“Ci ho riflettuto a lungo, e credo che Jaylah sia elfa e non elfa insieme. Sua madre è drow. I drow appartengono al popolo elfico, ma sono una razza a parte, e nessuno di noi li definirebbe volentieri elfi.” Condividere le sue ipotesi con Merildil era un sollievo, perché poteva sentire l’opinione di un’altra elfa colta e ragionevole. “Ammetto che Jaylah non è ciò che mi aspettavo come nipote, ma l’ho amata fin da subito e non m’importa la sua ascendenza. È una bambina gentile, si vede che è stata cresciuta da persone buone e assennate. Non ho nulla contro sua madre.”
“Ma non ti farebbe piacere se fosse lei la persona che Johel ama.” Merildil trasse le sue conclusioni, valutando l’espressione cupa di Hinistel e il bisogno che aveva sentito di difendere la piccola.
“È così.” Confessò la veggente. “Ci sono tante cose che mi preoccupano, quando penso alla vita di mio figlio e a questa mia profezia. Temo che non conoscerò mai uno dei miei nipoti. Come dici tu, potrebbe essere già nato e non sapere neanche chi sia suo padre. Temo anche che Johel si innamori della persona sbagliata.”
“Perché è drow?” Indagò la druida. Non voleva giudicare Hinistel. Non era un discorso facile. La madre di Jaylah era sicuramente una persona per bene, ma non sarebbe stato facile, per la foresta di Sarenestar, accettare che il possibile futuro capo del clan Arnavel avesse una relazione seria e duratura con una drow. Jaylah stessa non sarebbe mai potuta diventare capoclan, a meno di non mentire per sempre sulle sue origini. Il clan Arnavel avrebbe potuto accettarla, ma le altre foreste? Se una mezzadrow fosse diventata una figura di rilievo nella politica di Sarenestar, avrebbero perso l’alleanza con Shilmista e chissà con chi altri.
“Se si trattasse della vera felicità di mio figlio, metterei da parte qualunque considerazione politica” la corresse Hinistel, immaginando i suoi pensieri. “Ma questa donna ha una vita stanziale molto lontano da qui. Non abbiamo visto Johel per anni, è rimasto in quel paesino del nord per restare accanto a Jaylah e sua madre nel corso della gravidanza e dei primi anni della bimba. Lo capisco, ma adesso che accadrà? Se lui volesse vivere con questa drow? E se lei non volesse venire a stare qui? Johel se ne andrebbe di nuovo e potrei non vederlo più per anni, o decenni. Non sono pronta, Merildil. Un conto è saperlo in giro all’avventura, ma non era mai stato via per così tanti anni, prima.”
Merildil rimase profondamente colpita da questo discorso. Davvero, le motivazioni di Hinistel non erano proprio ciò che si aspettava. Pensava che la veggente fosse preoccupata per il clan, invece era solo una madre che temeva di non vedere più suo figlio.
“Hinistel, non abbiamo nemmeno la certezza che questa persona sia il vero amore di Johel. E poi, la tua divinazione non diceva nemmeno questo. Diceva che uno dei suoi figli sarebbe nato dall’amore, ma l’amore può anche sfiorire. Non si è mai parlato di amore eterno, o sbaglio?”
“Ho… ho visto anche l’amore eterno, ma ora che me lo fai notare, Merildil, non sono sicura che fosse legato alla nascita di uno dei suoi figli. Hai ragione, la persona con cui concepisce per amore potrebbe non essere la stessa persona che amerà su un lungo termine. Ma di solito lo è, quindi ho supposto che lo fosse. Però forse mi sto fasciando la testa prima di romperla, non c’è sicurezza che Jaylah sia nata per un’unione di amore. Potrebbe anche essere la lussuria o l’affetto.”
“Johel ha parlato di questa Krystel come di una persona che stima e rispetta, un’amica e una confidente” le ricordò Merildil, cercando di pacificare i suoi timori “ma non ho visto i suoi occhi brillare d’amore.”
Hinistel si sentì un po’ rassicurata, in effetti, ma questo non risolveva tutto.
“Rimane un problema: nonostante la gentile concessione di Tazandil che ha accettato nostra nipote, lei è comunque figlia di sua madre. Non potrà restare qui per sempre. Hanno lasciato quella cittadina… Secomber?… e Johel ha detto che sono partiti in primavera. Quanto a lungo possiamo onestamente tenere una bimba lontana dalla sua mamma?”
“Jaylah parla raramente di lei” notò la druida. “A volte, quando è triste per qualcosa, si lascia sfuggire di volere la mamma, ma per il resto non le ho mai sentito dire che sente la mancanza di casa, o della sua altra famiglia.”
Questo è vero, pensò Hinistel con grande stupore, ora che ci rifletto bene, anch’io l’ho sentita parlare pochissimo di sua madre. Non penso sia normale.
L’elfa dai capelli rossi si avvicinò a Jaylah, che stava dando gli ultimi ritocchi al suo disegno.
“Amore?”
“Ho finito, nonna!” Esclamò lei tutta orgogliosa, mostrando il pastrocchio che aveva tratteggiato sul tagliere di legno. “Quess-to qui rotondo è l’uccellino, e vedi che ha le ali ma troppo piccole, perché… perché lui in realtà è diventato troppo cicciotto! E no’ può volare. Però pe’ terra ci sono tanti semi e quindi uccellino fa un graaan sorriso.”
“Che bello” mentì l’elfa, generosamente. “Ma l’uccellino non è triste perché non può volare?”
La piccola Jaylah si strinse nelle spalle. “Ieri, quando ero piccola, avevo le galline. Sono mooolto più cicciotte dell’uccellino azzurro, e no’ sono triss-ti anche se no’ volano. Gli piace mangiare i semini e l’erba dei soffioni.”
“Cosa sono le galline?” domandò Hinistel, perché la nipote aveva usato una parola in linguaggio chondathan per definire quegli uccelli.
“Eh, sono uccelli grossi che no’ volano, vivono in casettine di legno, fanno le uova e poi le uova si mangiano. Qui no’ ci sono. Ma qui no’ ci sono nianche le caprette. E no’ c’è il latte coi biscotti. A me piace tanto.”
“Tesoro, non capisco una parola su tre” confessò la donna, perché Jaylah non aveva un termine in lingua elfica per tutti quegli animali che gli elfi non allevavano, e nemmeno per il latte che gli elfi non bevevano. “Dimmi, senti mai la mancanza di casa? E… della tua mamma?”
“Un pochino” confessò la bimba, ma non sembrava eccessivamente sconvolta. “Quando faccio la nanna sogno di essere a casa co’ la mia mamma. Quindi è come se la vedo tutte le notti. E nonna… io no’ vollio imparare a fare la rereve” confessò, e Hinistel capì che si riferiva alla reverie, la meditazione rilassante che gli elfi sceglievano al posto del sonno.
Hinistel ultimamente aveva cercato di introdurre la nipotina a quella pratica, per renderla più consapevole della sua natura elfica, ma Jaylah si era sempre rifiutata senza dirle il motivo. La nonna non aveva nemmeno insistito troppo… una Jaylah addormentata era una Jaylah che restava fuori uso per un numero maggiore di ore, e questa era una benedizione a cui non si rinunciava facilmente.
“Se faccio la rereve poi ho paura che no’ faccio più i sogni e no’ vedo più la mamma.” Spiegò, finalmente.
“Tesoro, sono solo sogni. Durante la reverie non si sogna, ma si rivivono scene della propria memoria e anche lì potresti ritrovarti alla casa di tua madre…”
“Ma non è la ss-tessa cosa!” Obiettò Jaylah, in tono esasperato. “No’ vollio pensare alla mamma mentre che faccio la… la revire” spiegò, cercando di pronunciare meglio la parola. “Vollio vedella pe’ davvero. Come quando sogno! A mezzanotte, è un… puntamento fisso. A mezzanotte devo essere sempre a nanna.”
Questa convinzione granitica della bambina stupì molto Hinistel, perché naturalmente Jaylah veniva sempre messa a letto molto prima di mezzanotte. Forse la piccola non sapeva nemmeno bene cosa fosse, la mezzanotte. Se aveva quell’idea in testa, doveva avergliene parlato qualcun altro.
Possibile che quell’appuntamento quotidiano non fosse solo il frutto della fantasia di una bambina?
Merildil e Hinistel si scambiarono uno sguardo dubbioso. La veggente decise che quella notte avrebbe indagato più a fondo la questione.


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Nota: il libro che Freya legge esiste davvero nel Faerun ed è citato in questo articolo della Wizards of the Coast.


           

   
 
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