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Autore: Soul of Paper    12/01/2020    6 recensioni
[Imma Tataranni - Sostituto procuratore]
Lo aveva baciato e gli aveva ordinato di dimenticarselo. Ma non poteva certo pretendere dagli altri ciò che non riusciva nemmeno a fare lei stessa. Imma Tataranni - Imma x Calogiuri
Genere: Introspettivo, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Nessun Alibi


Capitolo 12 - Una Vita a Metà


Disclaimer: questa storia è scritta senza alcuno scopo di lucro. Questi personaggi non mi appartengono ma sono proprietà dei relativi detentori di copyright. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi o eventi realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale.


“Un caffè doppio!”

 

Il barista annuì, senza proferire parola, conoscendola fin troppo bene per tentare di fare conversazione. Si voltò, accingendosi a prepararle la sua droga quotidiana, l’unica che riuscisse a tenerla più o meno attiva dopo le ultime notti semi insonni, quando una voce lo fece bloccare sui suoi passi.

 

“Lo stesso anche per me, Giuseppe, e per una volta offro io.”

 

Il cuore le finì in gola e poi nello stomaco, in una specie di flipper emotivo di cui ultimamente soffriva sempre più spesso.

 

“Calogiuri…” sussurrò, trovandosi al suo fianco il maresciallo, bello come il sole, nonostante le profonde occhiaie, segno di notti insonni, ma per ben altre ragioni che le sue.

 

Altre parole non vollero uscirle dalla gola, tanto che non protestò nemmeno, come al suo solito, per offrire invece lei, guadagnandosi un’occhiata sorpresa e poi preoccupata del maresciallo.


“Dottoressa, tutto bene?” le chiese, con quella dolcezza nella voce che le faceva un male cane, perché rendeva tutto così dannatamente difficile.

 

“Più o meno…” si sforzò infine di pronunciare, per poi aggiungere, attendendo la risposta come una sentenza, “tua nipote? Tua sorella?”

 

“Mia sorella è finalmente rientrata a casa con mio cognato, anche se dovrà fare la convalescenza. Ma per fortuna mia madre si è ripresa dall’influenza e darà loro una mano. Ho riportato Noemi ieri sera a Grottaminarda ed eccomi qui,” spiegò, passandosi una mano sugli occhi ancora stanchi, “tra l’altro vi volevo ancora ringraziare dottoressa: se non fosse stato per voi con i vostri consigli e per la signora Diana che mi ha trovato la baby sitter, non so come avrei fatto a cavarmela.”

 

“Figurati, Calogiuri, non mi devi ringraziare,” riuscì a rispondere dopo una sorsata di caffè, amarissimo come il gusto che già sentiva in gola, pensando che a breve altro che ringraziarla….

 

“Oggi avrete bisogno di me, dottoressa?” chiese, con uno sguardo speranzoso che fu un’altra mazzata, ma doveva farsi forza e andare avanti come aveva preventivato, per il bene di Calogiuri.


“Oggi credo che avrò una giornata molto piena, Calogiuri, però... se hai tempo in serata, passa un attimo nel mio ufficio prima di andare via... che ti devo parlare di alcuni… sviluppi inaspettati,” si obbligò a dire, nonostante la lingua si rifiutasse di collaborare e le ci vollero varie pause per terminare la frase.

 

“D’accordo, dottoressa,” annuì con un sorriso, ancora più carico di aspettativa, probabilmente immaginando che fosse una scusa per andare poi nel suo appartamento.

 

Il caffè prese a ballarle nello stomaco, manco fosse stato fatto con l’olio.

 

Sarebbe stata una giornata infinita, tremenda, per non parlare di ciò che sarebbe venuto dopo.

 

Ma doveva farcela, doveva tenere duro, per il bene di Calogiuri.

 

*********************************************************************************************************

 

“Dottoressa!”

 

Vedersi comparire Calogiuri sulla soglia quella sera fu, per una volta, non fonte di gioia ma di un senso di angoscia come raramente ne aveva provati nella sua vita.

 

Il momento era giunto e sperava di esserne capace, di avere la forza necessaria per andare fino in fondo senza crollare come la stupida che era.

 

“Calogiuri, accomodati,” lo invitò, facendo segno verso una delle sedie ma mantenendosi seduta alla poltrona dietro alla scrivania, quasi a creare una barriera fisica tra loro.

 

“Imma, allora io vado,” annunciò la voce di Diana sulla soglia, impaziente: quella sera le aveva concesso di uscire puntuale, come se le stesse facendo un favore, ma in realtà era a lei che serviva che l’ufficio fosse sguarnito, come già lo era sicuramente praticamente tutto il resto della procura, conoscendo lo stacanovismo commovente dei suoi colleghi.

 

Forse sarebbe stato meglio evitare certi discorsi in procura, ma non poteva farli nemmeno all’aperto, o peggio in auto, per non parlare di a casa di lui. E quindi quella restava l’unica opzione rimasta, la meno peggio, come tutto in quella situazione, dove il meglio era un’utopia irraggiungibile.

 

Non appena la porta si richiuse alle spalle di Diana, Calogiuri fece per alzarsi in piedi ma Imma sollevò una mano, facendogli segno di fermarsi e lui, per uno di quegli automatismi ingenerati da anni di disciplina, familiare e militare, lo fece e si rimise a sedere.

 

“Calogiuri… dobbiamo parlare e ti prego di lasciarmi finire quello che devo dire,” esordì, tutto d’un fiato, perché temeva di tirarsi indietro se solo fosse stata interrotta. Lo vide confuso e poi preoccupato ma rimase in silenzio, forse pensando a qualcosa di lavoro, o forse no.

 

Imma si riscosse e fissò un punto indefinito sulla scrivania, perché non riusciva a sostenere lo sguardo di quegli occhi azzurri e a pronunciare ciò che non avrebbe mai voluto dover pronunciare, ma che sapeva essere la cosa giusta da fare, “ci ho riflettuto molto ultimamente e… e penso sia meglio che il nostro rapporto torni ad essere soltanto professionale. Mi sto rendendo sempre più conto di starti costringendo ad una vita a metà, di starti rubando tempo prezioso che dovresti usare per costruirti una relazione vera, che abbia un futuro, il futuro che ti meriti, Calogiuri. Con una persona che possa stare con te alla luce del sole e darti una famiglia e dei figli, quando li vorrete e-”

 

“Ma tu non mi stai costringendo a fare proprio niente ed io non voglio una famiglia e dei figli, non mi interessano,” la interruppe, contravvenendo all’ordine, con un tono talmente carico di dolore e di panico che le fece male al cuore, e che la portò, stupidamente, a rialzare lo sguardo dalla scrivania e ad incrociare due occhi azzurri che sembravano sull’orlo delle lacrime e, allo stesso tempo, ancora increduli.

 

“Mo non li vuoi, Calogiuri, ma un giorno li desidererai. Ho visto quanto sei bravo con i bambini e.... e come sei affezionato a tua nipote e… tu l’istinto paterno ce l’hai, eccome. Ora sei giovane e giustamente c’hai altre esigenze, ma tra qualche anno ti mancheranno ed io non potrei darteli, nemmeno se… se non avessi la situazione familiare che ho, Calogiuri,” ammise, anche se il solo esprimerlo ad alta voce le provocava un dolore tremendo.

 

“E se succederà te ne parlerò e deciderò di conseguenza, come ho sempre fatto, io non-”


“Ma intanto ti sarai perso appresso a me gli anni più belli, più importanti, quelli dove puoi ancora scegliere chi essere e con chi vuoi stare. Ti sarai perso chissà quante occasioni, quante donne che potranno… che potranno amarti come meriti e darti… darti quello che io non potrò mai darti e-”

 

“Ma a me non interessano le altre donne, a me interessi solo tu, lo vuoi capire?!” sbottò, alzando la voce e tirandosi in piedi, appoggiandosi con le mani sulla scrivania, il busto proteso in avanti.

 

“Appunto!” esclamò lei di rimando, tirandosi in piedi a sua volta e sporgendosi per affrontarlo in modo speculare, “perché ti tengo legato a me e non è giusto, Calogiuri. Tu mo sei preso da questo… da questo sentimento che provi nei miei confronti e non riesci a vedere altro. E più andiamo avanti e più sarà difficile poi dopo per te staccarti da me e farti la tua vita. Per questo ti devo lasciare andare adesso. Lo capisci che è per il tuo bene?”

 

“Il mio bene?! Il mio bene?! Ma chi ti credi di essere?” gridò, gli occhi che gli si fecero enormi, acquosi e rabbiosi, incazzato come non l’aveva mai sentito, tanto che Imma fece quasi un balzo indietro, aggrappandosi giusto in tempo al bordo della scrivania prima di cascare di nuovo seduta.

 

“Come?!” domandò, scioccata, non riuscendo nemmeno ad incazzarsi di rimando, tanto era sconvolta e presa in contropiede.

 

“Ti ho sempre lasciato decidere tutto e dettare tutte le regole di questa… di questa relazione perché sei tu che sei sposata, che hai una famiglia. Ma in privato non sei il mio capo e, soprattutto, non sei mia madre! Non sono più un ragazzino ed il mio bene sono più che capace di decidermelo da solo e non hai il diritto di sceglierlo tu per me!” buttò fuori, come un fiume in piena, il volume della voce che gli si alzava ad ogni frase, per poi fare appena una pausa e, approfittando dello stato momentaneo di shock in cui lei si trovava, proseguire, con un tono basso e amaro, “quando abbiamo iniziato sapevo che… che poteva finire in qualsiasi momento. Ma speravo almeno di meritarmi un po’ di sincerità e non questa… questa stronzata del ti lascio perché a te ci tengo troppo. Potevi dirmi che ti sei stufata o che, dopo quello che è successo l’ultima volta al maneggio, hai avuto paura che tuo marito scoprisse tutto e che hai scelto la tua famiglia e… e non dico che ne sarei stato felice ma avrei capito. Ma dirmi che lo fai per me e che ti dovrei pure ringraziare, tra un po’... questo almeno me lo potevi risparmiare.”

 

“Calogiuri…” sussurrò, la vista che iniziava ad appannarsi: non l’aveva mai visto così furente, mai, neanche dopo Lolita. Non l’aveva mai visto guardarla con così tanta rabbia, tanto rancore. Ed il peggio era che sapeva di meritarselo tutto.

 

Per un attimo fu tentata di ribattere, ma la verità era che forse era meglio che lui fosse così rabbioso, era meglio che la odiasse ora, anche se le faceva un male cane all’anima, piuttosto che, tra qualche anno, maledicesse per sempre di averla conosciuta. Ed un giorno, forse, avrebbe capito ed avrebbero potuto recuperare un rapporto civile, ma per ora doveva resistere e prendersi ciò che, in fondo, sentiva di meritarsi, per il male che gli aveva fatto sia in quel momento che in tutti quei mesi, pur senza volerlo.

 

“Pensala come vuoi,” riuscì infine ad articolare, asciutta, cercando disperatamente di non lasciare scendere nemmeno una lacrima, di tenerle chiuse negli occhi, ancora per qualche istante, “io ho deciso e non cambierò idea.”

 

“Allora è finita…” pronunciò lui a bassa voce, in un tono aspro che quasi non sembrava nemmeno la voce del suo Calogiuri - che suo non lo sarebbe proprio mai stato più - serrando la mascella e stringendo i pugni, prima di girare sui tacchi ed avviarsi verso la porta, dove si fermò per un attimo, voltandosi per fulminarla con un’occhiata che si sarebbe ricordata finché avesse avuto vita e sibilare, “anzi, no, non può finire qualcosa che non è mai iniziata.”

 

Il boato della porta che venne sbattuta malamente sui cardini rimbombò nella stanza e forse anche in tutta la procura per diversi secondi dopo che lui fu sparito dalla sua vista.

 

Fu in quel momento che le gambe le cedettero, come se fosse stato il suono a tenerla in piedi. Si accartocciò nella poltrona, scossa fin nelle viscere da singhiozzi che non riusciva più a contenere, così come le lacrime che sembravano inondare tutto, togliendole la vista, l’olfatto, facendola sprofondare in una disperazione talmente intensa da causarle un dolore lancinante al petto, quasi come se avesse corpo, se fosse fisicamente presente lì nella stanza insieme a lei, per conficcarle e poi torcerle un pugnale nello sterno.

 

Non aveva mai provato niente del genere in vita sua - come sempre quando si trattava di lui - ma sperava solo che un giorno il dolore si sarebbe affievolito o che avrebbe imparato a conviverci, che il maledetto tempo avrebbe guarito anche quella ferita che in quel momento le sembrava inconcepibile si potesse rimarginare.

 

Perché sentiva come se si fosse strappata via un pezzo di sé, un pezzo di cuore e non sapeva se un giorno sarebbe potuta tornare a sentirsi di nuovo tutta intera.

 

Ma meglio mo a me, che un giorno a lui - continuò a ripetersi come un mantra, mentre cercava di ricomporsi e di non soffocare nelle sue stesse lacrime.

 

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“Amò! Ma è tardissimo, dove sei stata?”

 

“In procura. Giornata terribile. Vado a farmi una doccia e mi butto a letto.”

 

Le parole le uscirono a fatica, quasi robotiche, ma stava facendo uno sforzo sovrumano per non scoppiare di nuovo a piangere, dopo averci impiegato quasi un’ora a calmarsi del tutto in procura, prima di tornare a casa.

 

“Ma amò, che è successo? Io-”

 

La voce di Pietro sparì dietro la porta del bagno, che per poco non gli aveva chiuso in faccia e se ne rendeva pure conto, ma non sapeva quanto ancora avrebbe potuto resistere. Si tolse i vestiti con talmente tanta rapidità ed irruenza che fece saltare un bottone della camicia e smagliò i collant. Ma in quel momento non gliene poteva fregare di meno.

 

Si buttò sotto la doccia, ancora gelida, e finalmente si sentì libera di lasciare di nuovo andare le lacrime che aveva dovuto trattenere nel percorso dalla procura a casa.

 

Rimase sotto il getto caldo per un tempo che le sembrò infinito, finché i singhiozzi bastardi tornarono a calmarsi e le lacrime furono sostituite soltanto da un senso di vuoto e da fitte profonde di mal di testa.

 

Chiuse la doccia, si infilò l’accappatoio e si asciugò alla bell’e meglio, andando in camera da letto lentamente, i capelli ancora avvolti in un turbante, stringendosi nella spugna.

 

Vide Pietro seduto sul letto, con uno sguardo preoccupato, che lo divenne ancora di più una volta che i loro occhi si incrociarono. I suoi dovevano essere rossi da far schifo e lo sapeva, ma non ci poteva fare niente.

 

Indossò il pigiama frettolosamente, sentendosi nuda e fragile come mai prima e poi si infilò sotto le coperte, coricandosi rapidamente, dando le spalle a Pietro, chiudendo gli occhi e trattenendo il fiato, per paura che volesse fare conversazione.

 

Dopo qualche minuto di silenzio, sentì il materasso muoversi e lo udì sospirare e mettersi a sua volta a letto.

 

La luce si spense ed Imma tirò un sospiro di sollievo, sperando di averla scampata almeno per quella sera, anche se temeva il momento in cui Pietro avrebbe probabilmente chiesto ragione del suo comportamento.

 

Dopo qualche istante di silenzio, sentì qualcosa toccarle un braccio, che realizzò essere la mano sinistra di Pietro. Si irrigidì, come ormai faceva quasi sempre quando lui la toccava.

 

“Non so cosa sia successo, amò, e ti lascio riposare, ma quando avrai voglia di parlarne io ci sono, ok?” lo sentì sussurrarle alle spalle, giusto per infliggerle un’altra dose di senso di colpa, poi le strinse leggermente il braccio e mollò la presa, ritornando nel silenzio più totale.

 

Gli occhi le bruciarono ancora di più per qualche istante, ma le lacrime non vennero, forse perché le aveva esaurite: era già un miracolo che non si fosse disidratata per quanto aveva pianto quel giorno.

 

Sapeva che Pietro aveva le migliori intenzioni, sebbene lei non si meritasse la sua preoccupazione e le sue premure, ma non poteva certo spiegargli cosa le stesse capitando, né ora né mai, né poteva farsi consolare da lui mentre piangeva per un altro uomo. Era già successo una volta, quando lei era crollata per la partenza di Calogiuri per Roma, oltre che per il suicidio dell’architetto, con Pietro che aveva cercato di farla sentire meglio, sussurrandole dolcemente di orologi da smontare e rimontare. Ma già allora non ne era stata molto convinta e infatti le ci era voluto non poco tempo per riprendersi.


E ora… ora era proprio impossibile, perché come fai a rimettere insieme un meccanismo a cui manca un ingranaggio fondamentale?

 

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“Ehi, devi uscire! Stiamo per chiudere!”

 

La voce irritata dell’addetto alla piscina lo raggiunse, attutita dall’acqua nelle orecchie e dalla cuffietta. Sollevò il capo e lo vide sbracciarsi, deformato dagli occhialini.

 

L’occhio gli cadde sull’orologio a parete e si rese conto che erano quasi le ventidue. Aveva perso completamente il senso del tempo, oltre che il conto delle vasche, preso com’era dal bisogno di sfogare in qualche modo la rabbia che sentiva ribollirgli dentro, senza esplodere.

 

Si sollevò sul bordo della piscina ed uscì dall’acqua, sentendo la testa girare, le gambe e le braccia molli ed il corpo di piombo: i muscoli che protestavano non solo per la forza di gravità che tornava a farsi sentire, ma anche per lo sforzo prolungato ed eccessivo, a cui non era più allenato. Aveva nuotato per due ore buone, senza fermarsi.

 

Fece un cenno con la mano all’addetto, che lo guardava ancora come se gli avesse rovinato la serata - e forse così era - e si avviò rapidamente alle docce, nonostante il mondo continuasse ad ondeggiare e a… ad appannarsi?

 

Si rese conto che gli occhialini si stavano riempiendo d’acqua, li tolse con uno strappo, e realizzò solo in quell’istante di stare piangendo, come lo stupido che era, come il debole che era sempre stato.

 

Prese alla cieca il necessario per la doccia e ci si buttò sotto, lasciando che l’acqua coprisse le lacrime e se le portasse via. Magari avesse potuto lavare via anche il dolore, la rabbia, la delusione.


Stupido, stupido, stupido! - si disse, trattenendo solo per un soffio l’istinto, ancora più idiota, di tirare un pugno alle mattonelle bianche della doccia, che già non aveva abbastanza problemi.

 

Lo sapevi che sarebbe finita così, che non ti dovevi fare illusioni, fin dall’inizio! E invece tu dovevi proprio vedere cose che non ci sono mai state, dovevi metterti in testa che lei si potesse stare innamorando di te, che magari addirittura avrebbe lasciato suo marito e rischiato tutto per stare appresso a te! Ma come hai fatto anche solo a pensarlo, eh? Stupido, stupido, stupido!

 

Non sapeva se fosse più incazzato nero con se stesso o con lei, che aveva osato perfino sostenere che lo stesse facendo per lui. Non perché aveva paura di perdere la famiglia, il marito e la faccia, no, per lui! Per il suo bene! Neanche fosse sua madre!

 

La verità, se ne rendeva conto solo in quel momento, anche se gli faceva male come forse nulla gli aveva mai fatto male nella vita, era che lei lo vedeva ancora come un ragazzino e lo avrebbe sempre considerato tale. Come qualcuno da guidare, da istruire, da comandare e al posto del quale poter scegliere. Come se fosse troppo stupido per capire le conseguenze di uscire allo scoperto con lei, sia volontariamente, sia se li avessero colti in flagrante, e poi cosa avrebbe comportato una vita con lei. Come se non fossero mesi che ci pensava, da quando si era accorto di amarla, praticamente.

 

Ma no, forse non lo considerava uno stupido, a giudicare almeno da quanto si arrabbiava quando lui si definiva tale, ma continuava a vederlo, in fondo, come quel ragazzo ingenuo arrivato da Grottaminarda. Le aveva sempre fatto tenerezza e anche per questo gli voleva bene. E le piaceva fisicamente, certo. Ma non l’avrebbe mai visto come un uomo, come qualcuno alla sua altezza, un suo pari, qualcuno con cui poter dividere la vita, alla luce del sole, al cui fianco poter lottare per superare le difficoltà che ci sarebbero sicuramente state, ma che non lo spaventavano.

 

Quell’avvicinamento che si era immaginato negli ultimi mesi, quegli sguardi carichi di quello che lui aveva voluto credere fosse, se non amore, qualcosa che ci andava molto vicino, invece non erano che affetto e tenerezza misti forse ad un crescente senso di colpa nei suoi confronti.

 

Nient’altro.

 

E gli faceva un male atroce, non solo l’essersi sbagliato così clamorosamente su di loro, su di lei, ma soprattutto rendersi conto di non essere abbastanza agli occhi della persona che per lui invece era tutto, per cui avrebbe fatto qualsiasi cosa, perfino farsi ammazzare.

 

Dei colpi alla porta dello spogliatoio lo avvertirono che l’addetto stava perdendo la pazienza e che era meglio sbrigarsi, se non voleva rischiare una discussione che nel suo stato mentale non era il caso di affrontare.

 

Chiuse l’acqua, cercando di asciugarsi il più rapidamente possibile e levarsi da lì.

 

Peccato che non ci fosse un rubinetto anche per le lacrime.

 

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“Un caffè doppio.”

 

Il barista la guardò con un’aria di compatimento che esprimeva chiaramente che lei gli sembrava messa peggio dello straccio posato sul bancone - esattamente come si sentiva, dopo una notte praticamente insonne. Poi fece per voltarsi per preparare l’ordinazione ma si bloccò, guardando alla sua sinistra.

 

Imma, con la coda dell’occhio, vide un giaccone di pelle e per un attimo sentì la testa girarle, mentre gli occhi ripresero bastardi a pizzicare da morire. Si pentì della bella trovata che aveva avuto e si ripromise di evitare il più possibile il bar della procura da quel momento in poi, a costo di bere soltanto lo schifo delle macchinette.

 

“Un caffè doppio anche per lei, maresciallo?” domandò il barista, ma Calogiuri rimase bloccato a qualche passo da lei e notò - sempre con la coda dell’occhio, perché non si azzardava a guardarlo in faccia, non nelle condizioni in cui si trovava - come serrò i pugni e la mascella.

 

“Normale, grazie,” rispose, con un tono rigido e formale che non era da lui, tanto che Giuseppe sembrò di nuovo sorpreso.

 

Rimasero in silenzio, l’uno accanto all’altra al bancone, vicinissimi fisicamente, eppure non lo aveva mai sentito tanto distante.

 

Afferrò la tazzina non appena venne posata sul piattino e tracannò il caffè, scottandosi la lingua e salvando l’esofago solo in corner, per istinto di autoconservazione.

 

“Segna, Giuseppe,” disse al barista, girando sui tacchi per andarsene.

 

“Solo quello della dottoressa, Giuseppe, mi raccomando. Il mio lo pago a parte,” sentì Calogiuri pronunciare alle sue spalle, seguito da un “se la dottoressa non ha niente in contrario…” del barista.

 

“La dottoressa non penso possa darmi ordini pure sul pagamento del caffè, o sbaglio?” pronunciò Calogiuri, tagliente, ed Imma sospirò, alzando gli occhi al cielo.

 

“Fate come vi pare,” disse, con un tono basso, stanco e roco da far schifo, senza voltarsi, forzando i piedi a riprendere a muoversi e dirigendosi a passo fin troppo rapido verso il suo ufficio, evitando solo per un soffio di travolgere Vitali e la Moliterni che, come al solito, facevano crocchio in corridoio.

 

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“E quindi non hai scoperto proprio nient’altro sulla Tantalo?”

 

“No, Imma, anche tra le nostre ex compagne di classe, nessuna ne sa più niente. A quanto pare è sempre a Roma, non sta più tornando a Matera, forse per paura dello scandalo.”

 

“Ma nessuna notizia su che combinava prima dell’overdose di Lombardi e dello scandalo? Che so… amicizie, un amante, magari?” insistè, sapendo bene quanto fossero pettegole le signore della Matera bene che componevano la vecchia sezione A. Tranne lei, ovviamente, l’unica poveraccia di quella classe di figlie di buona famiglia.

 

“Guarda… nessuno mi ha detto niente esplicitamente ma la Guarini mi ha parlato con un po’ troppa enfasi delle lezioni di tennis che la Tantalo prendeva al circolo. E ha fatto un paio di battute su uno degli istruttori, ma non ha fatto il nome.”

 

“Male, Diana, male! Le basi proprio ti devo insegnare? Mo appena puoi risenti la Guarini e cerchi di farti dire chi fosse sto benedetto istruttore di tennis, va bene?” ordinò, sentendo che stava per perdere di nuovo la pazienza, che quel giorno già era quasi inesistente, Diana che si ritrasse leggermente nella sedia, come una bimba che teme la punizione.

 

E, proprio in quel momento, bussarono alla porta. Erano quasi le diciotto e si chiese chi fosse a quell’ora, quando quasi tutti di solito si preparavano sui blocchi di partenza, pronti a scattare precisi alle diciotto e zero uno fuori dal portone della procura, che manco i centometristi.

 

“Avanti!”

 

La porta si aprì ed il cuore le fece un altro tuffo triplo carpiato nel tubo digerente, che altro che la Cagnotto, per restare in tema di Olimpiadi.

 

“Calogiuri,” pronunciò a fatica, prendendo aria che sembrava improvvisamente mancarle, sforzandosi infine di alzare gli occhi dalla scrivania ed incontrare quelli del maresciallo, per capire che intenzioni avesse a quell’ora.

 

Era dal loro incontro al bar di tre giorni prima che non si vedevano. Lui era stato impegnato con la D’Antonio e lei se ne era ben guardata dal protestare o cercarlo. Non c’erano stati particolari sviluppi sul maxiprocesso e per il nuovo caso di omicidio avvenuto il giorno prima, un accoltellamento di fronte a una discoteca, si era fatta accompagnare da Matarazzo e Capozza.

 

E quello che vide le provocò una fitta allo sterno, perché erano duri come non li aveva mai visti, nemmeno dopo Lolita: c’era un’espressione di rabbia trattenuta a fatica, la mascella contratta, le dita serrate su una cartellina che teneva tra le mani.

 

Temette improvvisamente un confronto o una scenata, per cui non si sentiva affatto pronta e che non voleva dover affrontare.


Proprio in quel momento, Diana, come al solito percettiva quanto una talpa, si alzò dalla sedia ed iniziò a svicolare verso la sua porta.

 

“Diana!” la richiamò, facendola bloccare a pochi passi dalla libertà, “non ti ho mica detto che puoi andare.”

 

“Lo so, dottoressa. Ma stasera ho l’appuntamento con l’avvocato, si ricorda?” pronunciò Diana, con una punta di sarcasmo nella voce.

 

La causa di separazione, ma certo, come dimenticarla!

 

“Va bene, Diana, ma domattina ti voglio qui puntuale,” dovette arrendersi, perché non poteva fare altrimenti.

 

“Agli ordini, dottoressa,” rispose con un sarcasmo ormai evidente e dopo poco la porta dell’ufficio della cancelliera si chiuse con un po’ troppa forza.

 

Sapeva di essere stata di pessimo umore per tutta la giornata e pure nei tre giorni precedenti, a dire la verità, e forse aveva a volte un po’ esagerato con Diana.

 

“Avevi bisogno di qualcosa, Calogiuri?” si decise infine a domandare, rivolgendo di nuovo lo sguardo verso il maresciallo, che era rimasto fermo impalato alla porta.


Trattenne il fiato, attendendo quella risposta come si attendeva una sentenza. 

 

“Ci sono novità da Roma, dottoressa,” dichiarò, dopo un attimo di silenzio, un tono talmente formale che manco fosse stato chiamato a deporre in tribunale.

 

Una botta di sollievo ed una di delusione la colpirono allo stesso momento ed Imma si chiese per quanto sarebbe durato quella specie di bipolarismo emotivo.

 

“E quindi?” lo sollecitò, vedendo che non diceva altro.

 

“E quindi Mariani mi ha riferito che la signora Tantalo sta facendo enormi pressioni sui medici affinché predispongano il trasferimento di Lombardi in una clinica riabilitativa in Svizzera di sua fiducia, nonostante i medici abbiano espresso parere negativo al trasferimento, che a loro dire sarebbe troppo pesante per il paziente al momento. Ma la moglie si dice pronta a fare ricorso in tribunale se non glielo concederanno.”

 

“Tutta questa insistenza è strana, Calogiuri, e poi proprio in Svizzera… così Lombardi sparisce e pure la signora. Lui diventa irraggiungibile definitivamente, pure se mai si riprendesse, sempre se non lo fanno fuori prima, e la signora senza l’estradizione non la rivediamo più,” commentò, la familiarità del lavoro che spezzò per un attimo in lei la tensione e l’imbarazzo.

 

Almeno finché attese invano una risposta di Calogiuri, una sua idea, una sua intuizione, un suo parere, ma incontrò solo il silenzio più totale e quell’espressione dura, rigida ed illeggibile.

 

“Devi… devi riferire ai colleghi di Roma che ci sono fondati indizi che la signora possa essere coinvolta negli eventi qui a Matera e di conseguenza forse anche nel malore del marito. Dì loro che le abbiamo fatto mettere sotto controllo i telefoni e che passeremo eventuali informazioni rilevanti, ma che facciano di tutto per opporsi al trasferimento. Chiaro?”

 

“Va bene, dottoressa,” annuì Calogiuri, asciutto più del deserto del Sahara, ancora lì impalato sulla porta, “se non avete altro da riferire ai colleghi di Roma, io mi congederei.”

 

Avrebbe dovuto sentirsi sollevata, felice di questa conversazione professionale e tutto sommato civile, seppur gelida, ma invece un istinto assolutamente irrazionale la prese e la spinse a parlare, a tentare di prolungare ancora per un attimo la presenza di Calogiuri nel suo ufficio, forse per cercare di spezzare quell’atmosfera così glaciale tra di loro.

 

“Questo non è da dire ai colleghi di Roma, ma lo dico a te, visto che ti occupi del maxiprocesso. Sto facendo fare un po’ di domande a Diana tra le nostre vecchie compagne di corso che conoscono la Tantalo. E probabilmente potrebbe avere avuto un amante, un istruttore di tennis al circolo che frequentava,” proclamò, prima di bloccarsi per un secondo, rendendosi conto di in quale ginepraio si era appena andata ad infilare ed aggiungere, sperando di salvarsi in corner, “non appena Diana saprà il nome, vorrei che facessi qualche ricerca su di lui, prima di interrogarlo.”

 

“Una donna di potere più matura ed un giovane di belle speranze. Il peggiore dei cliché, non credete, dottoressa?” proclamò con un sarcasmo ed un cinismo che non erano da lui, mentre Imma non potè evitare di sorprendersi che conoscesse il termine cliché, lui che fino a poco più di un anno prima non sapeva nemmeno cosa fosse una metafora.

 

“Calogiuri-”

 

“Chissà se anche lui è stato piantato per il suo bene,” concluse, ancora più sarcastico, prima di rimarcare, una mano già sulla maniglia, “se non c’è altro…”

 

“Non c’è altro,” si sforzò di rispondere con una decisione che non sentiva realmente, le parole di Calogiuri che le risuonavano ancora come uno schiaffo.

 

Tanto quanto il rumore della porta che venne richiusa con un po’ troppa forza, cigolando sui cardini già provati da qualche giorno prima.

 

Se l’era cercata, e lo sapeva, ma questo non le impediva di avere una voglia irrefrenabile di piangere.

 

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“Amò, mi vuoi dire che cos’hai? Sto cominciando davvero a preoccuparmi: sono giorni che sei triste e sembra sempre che stai per piangere.”

 

Imma sospirò ed alzò gli occhi al cielo: erano in camera da letto, si era appena fatta la doccia, dove si era effettivamente concessa un altro momento di sfogo per quelle lacrime che erano ore che tratteneva a fatica, e sperava di potersi mettere a letto e dormire almeno qualche ora, vista l’insonnia dell’ultimo periodo.

 

“Niente, Pietro. Sono solamente delle giornate un po’ difficili in procura, ma non ti devi preoccupare: andrà meglio presto, vedrai,” tentò di rassicurarlo, sebbene non ci credesse nemmeno lei ed il suo tono di voce risultò poco convincente perfino alle sue stesse orecchie.

 

“Imma… lo sai che mi puoi dire tutto, che su di me puoi contare. Mi… mi dispiace che non riesci più a confidarti con me, mi fa male,” ammise Pietro, gli occhi lucidi che le diedero l’ennesima botta di senso di colpa, mentre dovette soffocare un moto di riso isterico. Perché no, non poteva dirgli tutto, non poteva dirgli perché stesse male: c’erano così tante cose che non avrebbe più potuto condividere con Pietro, né allora né mai, e si rendeva sempre più conto di quanto questo fosse un problema quasi insormontabile.

 

“Pietro, per favore, è già stata una giornata, anzi una settimana tremenda. Possiamo evitare di discutere anche dei nostri problemi personali, mo?” lo implorò, sentendosi esausta alla sola idea di una discussione con lui.

 

“Ma i tuoi problemi sono anche i miei problemi, Imma, i nostri problemi. Questo vuol dire essere una coppia, una famiglia,” insistette, con un tono carico di affetto e rimpianto che le fece ancora più male, prima di mettersi in ginocchio in mezzo al letto, allungare una mano ad afferrare una delle sue, e tirare leggermente affinché pure lei facesse lo stesso.

 

Imma si sentiva letteralmente senza forza, senza forza di controbattere, di lottare, quindi si lasciò trascinare sul letto, accanto a Pietro, che la abbracciò di lato. E di nuovo i muscoli bastardi si tesero come corde di violino: sebbene non stesse più tradendo Pietro ed almeno quella parte di sensi di colpa avrebbe dovuto essersi quantomeno un poco affievolita, in realtà farsi consolare da lui mentre piangeva per un altro uomo la faceva sentire mille volte peggio. E poi c’era qualcos’altro, un altro genere di senso di colpa, che però non riusciva bene ad identificare.

 

“Ascoltami, se non vuoi parlarmi e dirmi che cos’hai, io non insisterò, Imma,” la rassicurò, stringendola più forte ed accarezzandole i capelli, fino a che lei non potè fare a meno di sciogliersi ed appoggiarsi a lui, perché semplicemente non aveva più le energie per resistere, “però non ti fa bene pensare sempre al lavoro. Ad esempio, stasera saresti dovuta andare ad equitazione, no? Invece è da quando ti ho fatto quella… improvvisata… che ho notato che non ci vai più. E se smettessi per colpa mia di fare qualcosa che ti piace non me lo perdonerei mai. Ci devi tornare, vedrai che ti farà bene.”

 

E ad Imma venne da piangere, perché come faceva a tornarci? Non solo perché non sapeva con che faccia affrontare Sabrina, ma perché proprio come logistica non aveva un’auto personale con cui raggiungere il maneggio.

 

“Il… il maresciallo ultimamente è molto preso con i casi di un’altra collega, Pietro, e non poteva accompagnarmi. E da sola non so come arrivarci,” ammise infine, per evitare ulteriori insistenze.


“Spero… spero che non sia per colpa mia che ti fai tutti questi problemi. Visto che prima tra un po’ lo chiamavi pure in piena notte, il maresciallo,” le fece notare Pietro, con un tono tra l’ironico ed il preoccupato, con una nota di senso di colpa.

 

“No, Pietro. Non c’entri tu. Solo che non posso continuare ad approfittare del suo tempo per cose non di lavoro, tutto qui,” rispose a fatica, in quella che di nuovo era in fondo la verità, solo che aveva approfittato del suo tempo in ben altro modo che con le lezioni di equitazione.

 

“E comunque, che problema c’è? Ti posso accompagnare io, no?”

 

“Tu hai le lezioni di sax e non te le faccio mollare, Pietro,” provò ad obiettare, anche perché, per quanto fosse assurdo, per lei l’equitazione era legata indissolubilmente a Calogiuri e le sembrava quasi un tradire quei ricordi bellissimi andarci con Pietro.

 

Oltre al fatto che non voleva rompersi l’osso del collo insieme a lui e lasciare Valentina orfana.

 

“E mica le mollo: ti ci accompagno prima delle lezioni, poi ti torno a prendere dopo. Così non ti sto col fiato sul collo, che tanto ho capito che io a cavallo è meglio che non ci salgo.”

 

Imma esitò un attimo, perché l’idea di affrontare Sabrina, in quel momento, non è che l’allettasse poi così tanto. Ma, in fondo, rinunciare ad una passione, all’unica passione che le era rimasta, sarebbe stato come tradire non solo i ricordi con Calogiuri, ma anche tutto quello che aveva imparato su di sé in quei mesi insieme a lui.

 

Ed invece almeno quella passione, che in fondo non faceva male a nessuno - caso più unico che raro nella sua vita - lei non se la sarebbe negata.

 

“Va bene,” acconsentì, ottenendo come risposta un sorriso sollevato e ritrovandosi stretta in un abbraccio fortissimo che però, più che consolarla o sollevarla, le fece solo venire una voglia infinita di piangere.

 

Perché nemmeno gli abbracci di Pietro le facevano più l’effetto che le facevano una volta. Non si sentiva più a casa tra le sue braccia e non sapeva se sarebbe riuscita mai a sentircisi di nuovo.

 

Ma, arrivati a quel punto, doveva almeno provarci.

 

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“Imma! Finalmente! Cominciavo a pensare che non saresti più tornata!”

 

Imma rimase per un attimo completamente spiazzata: si era immaginata mille possibili reazioni da Sabrina sul suo ripresentarsi lì dopo tre settimane dall’ultima lezione, ma non un’accoglienza così serena e quasi entusiasta.

 

Certo, era pur sempre una cliente e i clienti portano soldi, ma non era solo per quello e lo sapeva istintivamente.

 

“Sono state delle settimane un po’ complicate. Ti volevo… ti volevo ringraziare per aver salvato la situazione l’ultima volta e… e scusarmi con te per esserti trovata in mezzo a… ai miei problemi personali,” pronunciò a fatica, imbarazzata come raramente si era mai sentita in vita sua, lei che non era abituata a scusarsi praticamente con nessuno su niente.

 

“Figurati! Per carità, non è stata una bella situazione e per un attimo ho temuto il peggio, ma lo so che non è stata colpa tua, non volontariamente almeno. Insomma, com’è che si dice? Un delitto colposo ma non volontario?”

 

“Hai studiato diritto?” le chiese, stupita e un poco divertita dal paragone.

 

“No, ma ho visto un po’ troppe puntate di serie crime,” ammise Sabrina con una mezza risata, prima di aggiungere, “e poi… in realtà non è stato così tremendo, in fondo. Anzi, era dalla mia ultima gara che non provavo tanta adrenalina, ed almeno le lezioni di teatro sono servite a qualcosa.”

 

“Tu gareggi? E hai studiato recitazione?” le domandò, incuriosita dalla poliedricità della ragazza, mentre si avviavano verso i box dei cavalli.


“Gareggiavo. Ho fatto un incidente l’anno scorso e… e non mi sono ancora ripresa al cento per cento. E per noi donne l’ambiente dell’equitazione non è una passeggiata. Non che ci siano ambienti che lo siano, ma l’equitazione è pure peggio,” spiegò, con un amarezza che Imma capiva fin troppo bene, “ed i miei mi hanno fatto fare qualche anno di teatro alle superiori e non mi dispiaceva, eh, ma… ma neanche ne ero tanto appassionata. Mi sono sempre sentita più a mio agio con gli animali che con le persone.”

 

Imma sorrise, perché confermava l’impressione che aveva sempre avuto su di lei e perché Sabrina le piaceva forse proprio per quel motivo.

 

“Ti… ti ha accompagnata tuo… tuo marito?” chiese, in quella che era più un’affermazione, dopo un attimo di esitazione, una volta che furono davanti ai cavalli.

 

“Sì,” confermò Imma, anche perché sarebbe stato assurdo ed inutile negare.

 

“E… e Ippazio?” le domandò, dopo qualche altro istante di silenzio, l’aria di chi sapeva di stare entrando in territorio minato ma aveva il coraggio di entrarci lo stesso.

 

E, forse proprio per questo, Imma non se ne risentì, anche se un peso le si infilò dritto sullo sterno.

 

Il silenzio si prolungò per un tempo che si fece insostenibile, fino a che Sabrina, afferrando il necessario per sellare Minerva, pronunciò, fin troppo rapidamente, “lo so che non sono affari miei e… e se non ne vuoi parlare lo capisco, scusa.”

 

“Ci siamo… ci siamo lasciati. Se… se così si può dire, vista la nostra situazione,” si ritrovò ad ammettere, senza nemmeno sapere bene lei perché. Forse perché non poteva parlarne con nessuno e, a furia di tenersi tutto dentro, sentiva di stare per scoppiare.

 

Ci siamo… nel senso che?” si azzardò a chiedere ulteriormente Sabrina, con la stessa espressione cauta che usava con i cavalli particolarmente bizzosi, e ad Imma scappò un mezzo sorriso.

 

“La… la decisione è stata mia e… e lui non l’ha presa bene, ovviamente,” sospirò, anche se dire che Calogiuri non l’avesse presa bene era a dir poco riduttivo, visto che era ancora assolutamente incazzato nero nei suoi confronti. Per non dire che sembrava proprio odiarla, anche se il solo pensiero le provocava un moto di nausea e quel maledetto coltello che roteava nello sterno.

 

“Ma per… per quello che è successo qui?” osò indagare oltre, mentre piazzava l’imbottitura sul dorso di Minerva, l’aria di chi sapeva di essere ad un passo dall’esplosione della mina.

 

“No… anche se lui pensa il contrario. Ma… ma è… è complicato e lungo da spiegare.”


“Se vuoi, abbiamo tutto il tempo che ci serve per sellare i cavalli, più il tempo a cavallo. Ma solo se vuoi, ovviamente,” offrì Sabrina, sembrandole non solo curiosa, ma realmente preoccupata.

 

E forse fu per quello, forse fu perché le stava inspiegabilmente simpatica, forse fu perché non c’era alternativa ed era l’unica persona al mondo con cui ne poteva parlare, ma si ritrovò a raccontarle tutto: del fatto che l’improvvisata di Pietro le aveva fatto capire che avanti così non si poteva andare e doveva scegliere; della piccola Noemi, dell’amore di Calogiuri per i bambini, del fatto che lei molto probabilmente non ne avrebbe mai potuti avere altri e di come questo l’avesse portata ad una decisione finale.

 

“Ma tu con tuo marito sei felice?” le domandò, a bruciapelo, mentre portavano i cavalli sellati fuori dai box, ed Imma si ritrovò, suo malgrado, a scoppiare in una mezza risata amara.

 

“Ma allora che senso ha restare con lui?”

 

“Ha il senso che… che mia figlia tra pochi mesi c’ha la maturità, che… che siamo stati felici per vent’anni e che… che magari… che magari ora che ho interrotto questa… relazione con Calogiuri, magari potremmo tornare a essere… non dico felici, ma più sereni. Ci devo almeno provare, no?”

 

“Se non lo sai tu,” commentò Sabrina, con un sospiro, per poi buttare fuori, dopo qualche istante di esitazione, “io… io non so come siate stati tu e tuo marito per vent’anni e sono troppo giovane per capire cosa significhi vivere con una persona per tutto quel tempo. Ed immagino che sia normale che il rapporto cambi negli anni. Però… però io non ho mai visto nessuno con l’intesa che avevate tu ed Ippazio, veramente. Non hai idea di quanto vi invidiavo - in senso buono, eh. Pagherei oro per avere con un uomo l’intesa che avevate voi due e… e rinunciarci così per me… per me non ha senso, scusami se mi permetto di dirtelo. A maggior ragione se con tuo marito le cose non vanno affatto bene.”

 

“Non ha senso per me, forse, è vero. Ma ha senso per lui. Io… io non lo voglio condannare ad essere infelice insieme a me. E tra qualche anno lo sarebbe: dovrebbe fare troppe rinunce per starmi accanto e non è giusto che io gliele chieda.”

 

“Avete una grande differenza d’età, sicuramente, e… e senza dubbio questo porta a dei problemi ma… ma se è per i figli… ci sono coppie che non ne hanno e che mi sembrano più felici insieme di quelle che i figli li hanno fatti tanto per. E poi… e poi ci sono tanti modi di essere genitori. Prendi me, ad esempio,” esclamò Sabrina con un mezzo sorriso tra il grato e il malinconico che la confuse molto.

 

“In che senso? Tu sei mamma?”

 

“No, ma sono figlia,” rispose Sabrina con un altro di quei sorrisi, gli occhi che le si fecero un poco lucidi, “io… io sono stata adottata dai miei genitori. Vengo… vengo da un paesino vicino alla Siberia, molto povero ancora ora… figurati negli anni novanta, poco dopo la caduta del muro e nello stato in cui era ridotta la Russia. In realtà ho pochissimi ricordi perché sono venuta in Italia piccolissima e non so chi siano i miei genitori biologici, ma non mi interessa. I miei genitori sono quelli che mi hanno cresciuta e anzi, sono loro grata il doppio perché so che hanno scelto consapevolmente di avermi, che hanno lottato per avermi. E chissenefrega della genetica.”

 

Imma non potè evitare di sorriderle di rimando, gli occhi che le pizzicarono un poco. Capiva finalmente da dove derivassero quei lineamenti tanto particolari e quella bellezza non convenzionale della ragazza.

 

“Ora però sali a cavallo che hai già perso troppe lezioni e voglio vedere se ti sei arrugginita o se possiamo proseguire col galoppo,” le ordinò con un sorriso, in quel modo brusco ma stranamente gentile al tempo stesso, che la inteneriva e la divertiva sempre molto.

 

E, non avrebbe saputo dire se fosse stata la conversazione o la sensazione di libertà che provò di nuovo montando in sella e sentendo tutti i muscoli riattivarsi, mentre passava dal passo, al trotto, al galoppo, ma si sentì improvvisamente come se una piccola luce fosse emersa in quella cappa di oscurità nella quale si era sentita avvolta nelle ultime settimane.

 

I muscoli le avrebbero fatto un male tremendo il giorno dopo, già lo sapeva.

 

Ma almeno si sarebbe sentita viva.

 

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“Imma! Non indovinerai mai chi ho visto a pranzo!”

 

“Capozza?” le chiese in un sussurro, notando l’entusiasmo della sua cancelliera, dopo giorni di depressione seguiti alla prima terribile udienza di separazione: suo marito intendeva farle guerra su tutti i fronti e vendere cara la pelle.

 

“Ma no! Ma sei matta?! Lo sai che al momento non ci frequentiamo, con tutti i casini che ho!” proclamò Diana, arrossendo però leggermente, prima di appoggiarsi alla scrivania e proclamare, fiera, “la Guarini, no? E sai cosa mi ha detto?”

 

“No, e non mi interessa, salvo riguardi la Tantalo e magari il famoso istruttore di tennis.”

 

“E certo, Imma! Comunque, a quanto pare l’istruttore si chiama Richard Davidson. Sai, avere il coach inglese fa più chic,” spiegò con un altro sorriso ed un tono leggermente sarcastico.

 

“E questo chicchissimo coach lavora ancora al circolo?”

 

“Parrebbe di sì, almeno a quanto ne sa la Guarini.”

 

“D’accordo, grazie, Diana. Hai fatto un buon lavoro,” si costrinse ad ammettere, sapendo che aveva già strapazzato fin troppo la cancelliera nelle settimane precedenti.

 

Diana, per tutta risposta, la guardò come se le fosse appena spuntata un’altra testa e poi sorrise, sembrando per un secondo sull’orlo di scoppiare a piangere. Per fortuna, invece, si limitò a tornare nel suo ufficio, contenta come era da un po’ che non la vedeva.

 

Beata lei! - pensò Imma, che invece sentì un macigno piombarle addosso. Perché gli sviluppi sul maxiprocesso, per quanto positivi, significavano anche un’altra cosa che non poteva più rimandare.

 

Con un sospiro, si alzò dalla scrivania e uscì dall’ufficio, dove ultimamente era rimasta rintanata se non per lo stretto necessario al lavoro, e si avviò verso le scale, in direzione della PG. Le sembrava assurdo pensare a quanto fosse stata felice, di solito, di fare quello stesso percorso, l’eccitazione e l’adrenalina nelle vene, mentre ora le sembrava di stare andando al patibolo.

 

“Imma! Finalmente! Mi stavo cominciando a preoccupare. Ultimamente ti si vede così poco in giro… e non solo a te. Tutto bene?”

 

La Moliterni, ovviamente, puntuale come il ciclo mestruale in vacanza al mare, le si affiancò sul pianerottolo sopra le scale.

 

“Maria, se avessi saputo che sentivi così tanto la mia mancanza, sarei venuta di persona a sollecitarti quei fascicoli che sono due giorni che Diana cerca invano di avere da te. Ma rimedio subito,” le rispose con un sorriso sarcastico, detestando la percettività dell’altra donna che, doveva ammetterlo, sarà stata pure una scansafatiche di prim’ordine sul lavoro, ma per quanto riguardava il gossip in procura e gli stati d’animo di chi ci lavorava, sembrava avere il radar.

 

“Noto con piacere che sei in forma, più o meno. E comunque quella che mi hai chiesto è praticamente una ricerca storica in archivio. Ci vuole tempo, Imma.”

 

“Ed infatti ti ho dato due settimane, Maria. Due settimane che sono passate giovedì scorso. Mo è lunedì e, se permetti, il tempo è scaduto,” intimò, anche se in fondo la storia giudiziaria della famiglia Tantalo era sì importante ma non poi così urgente, viste le circostanze. Ma la migliore difesa è da sempre l’attacco e lo sapeva perfettamente.

 

“A te il weekend deve avere fatto male, o bene, Imma, a seconda dei punti di vista. Ma va bene, vorrà dire che rimanderò ricerche più urgenti su argomenti di attualità per finire la tua ricerca storica entro sera. Se poi la D’Antonio e Diodato se la prendono, dirò loro di venire a lamentarsi da te.”

 

“Come se non ci fossi abituata alle loro lamentele, Maria. Ora, se permetti, torno al lavoro, io,” proclamò, sarcastica, cercando di avviarsi sulle scale.

 

“Ma certo! Non vorrai fare aspettare Calogiuri. Cioè, la PG, dottoressa,” replicò Maria, altrettanto sarcastica ed Imma si rese conto che, visti gli eventi di capodanno, forse tirare troppo la corda con Maria non conveniva. Anche se ormai… ormai non c’era proprio più niente da nascondere.

 

Se non tutto il pregresso, Imma! - le ricordò la Moliterni interiore, in una specie di dolby surround con quella che ancora la fissava dalla cima delle scale.

 

Ignorò entrambe e marciò giù dalle scale, giusto giusto per finire dalla padella alla brace.

 

O forse no, visto che in PG di Calogiuri non c’era traccia e vi trovò solo Matarazzo che stava scrivendo un rapporto a computer.

 

“Dottoressa, chi cercate?” le domandò, per una volta, e questo già da solo era l’indice chiaro e netto della stranezza di quelle ultime settimane, che evidentemente quasi tutti avevano notato. Del resto, ultimamente si era sempre portata dietro Matarazzo per la storia della discoteca e Calogiuri lo aveva evitato il più accuratamente possibile, tanto che in quelle tre settimane trascorse da… da quando lo aveva lasciato, le volte in cui si erano parlati si contavano sulle dita di una mano.

 

“Calogiuri c’è?” si costrinse a chiedere, ottenendo uno sguardo tra il sorpreso e l’incuriosito di Matarazzo. Ma, nonostante tutto quello che era successo tra loro e nonostante l’argomento che era un campo minato, Calogiuri era ancora l’unico di cui si fidasse al cento per cento in procura. E per il maxiprocesso non poteva permettersi passi falsi.

 

“Il maresciallo non è ancora tornato dalla pausa pranzo,” rispose Matarazzo con nonchalance ed Imma fu assalita da una punta di assurda ed irrazionale gelosia, al ricordo di cosa significavano per loro le pause pranzo troppo prolungate, “oggi era in giro con la D’Antonio. Vuole che gli riferisca qualcosa quando torna?”

 

Imma ci pensò un attimo. In fondo l’istruttore di tennis era un uomo, Matarazzo una bella ragazza e, forse forse, poteva pure ottenere più informazioni da lui di quante potesse ottenerne Calogiuri.

 

“Si tratta… del maxiprocesso ma, se il maresciallo è impegnato, forse può occuparsene lei, Matarazzo,” propose, guadagnandosi un’altra occhiata sorpresa di Miss Sicilia, “bisogna andare a parlare con-”

 

“Non sono impegnato. E del maxiprocesso me ne sono sempre occupato io, o sbaglio?”

 

La voce di Calogiuri la interruppe bruscamente e per poco non fece un salto, voltandosi e ritrovandoselo davanti sulla porta, un’espressione dura ma anche carica di delusione in viso.

 

E, nonostante questo, le sembrava sempre più bello e non sapeva come fosse possibile e si maledisse per la sua debolezza.

 

“Calogiuri! No, non sbagli. Ma non sapevo se fossi disponibile oggi,” rispose, dopo un attimo di pausa, non riprendendolo nemmeno per averla interrotta, come avrebbe fatto con chiunque altro al posto suo, che si sarebbe beccato come minimo una lavata di capo. E lo sapeva benissimo, ma non ci poteva fare niente.

 

“In realtà oggi non siete disponibile nemmeno voi, dottoressa,” replicò Calogiuri, facendole un segno col capo che intendeva chiaramente dire che avesse qualcosa da riferirle ma in privato.

 

“Vieni nel mio ufficio, Calogiuri,” sospirò, dopo un attimo di esitazione, lasciandosi alle spalle Matarazzo, che li guardava incuriosita.

 

Fece le scale il più rapidamente possibile, sentendosi gli occhi del maresciallo nella schiena, uno strano brivido che le percorreva la spina dorsale. Ignorò l’occhiata ed il sorrisetto della Moliterni che ancora stava sulla cima delle scale - e te credo che la ricerca storica non è ancora pronta! - e si infilò nel suo ufficio, sentendo la porta richiudersi alle sue spalle.

 

Si voltò una volta giunta di fronte alla scrivania e vide che Calogiuri era rimasto attaccato alla porta, per quanto chiusa. Non potè fare a meno di fare un altro sospiro.

 

“Perché mi cercavate, dottoressa?” chiese, dopo un attimo di silenzio, ed Imma lanciò un’occhiata verso l’ufficio di Diana, sperando che il maresciallo, apprendendo il motivo, non si lasciasse scappare qualche altra battuta.

 

“Abbiamo il nome dell’istruttore di tennis della Tantalo. Un certo Richard Davidson. Bisogna andare a parlargli, magari inizialmente in modo informale. Te ne puoi occupare tu?” gli domandò, trattenendo il fiato ed attendendo la risposta.

 

“Va bene,” replicò, dopo qualche istante di esitazione, ed Imma ebbe l’impressione nettissima che si stesse mordendo la lingua per non aggiungere altro.

 

“Che intendevi quando hai detto che oggi non sono disponibile nemmeno io?” si affrettò a domandare, prima che Calogiuri potesse cambiare idea e cedere a qualche battuta.

 

“Che mi hanno appena chiamato dal carcere e… e il colloquio con Romaniello è stato fissato per oggi pomeriggio, tra un paio d’ore.”

 

Imma sentì per un attimo l’aria mancarle dai polmoni: erano settimane che aveva fatto richiesta per quel colloquio, ma Romaniello aveva sempre avuto qualche fantomatica problematica di salute. E ora, non se lo aspettava così di botto, e si sentiva impreparata ad affrontarlo. Tanto che nemmeno si stupì che avessero contattato direttamente Calogiuri, invece che lei, manco fosse il suo segretario. Anche perché, in effetti, almeno per il maxiprocesso, di fatto era stato il suo braccio destro e la sua ombra fin dall’inizio.

 

“Mi… mi puoi accompagnare?” chiese, sebbene l’idea di salire in auto con lui, dopo tre settimane, la mettesse quasi più in ansia del colloquio, ma non voleva di certo affrontare Romaniello da sola, né si poteva fidare di qualcun altro per una cosa del genere.

 

“Certamente, dottoressa, faccio predisporre la macchina. Quando volete possiamo partire, nel frattempo inizio a procurarmi qualche informazione in più sull’istruttore. Se non c’è altro…” rispose, educato ma formalissimo, l’aria di chi non vedeva l’ora di congedarsi, nonostante almeno la delusione che aveva letto nei suoi occhi in PG fosse sparita. Ma la durezza nello sguardo, purtroppo, quella era ancora tutta lì.

 

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“Dottoressa, che piacevole sorpresa!”

 

Romaniello, stavolta vestito elegantissimo, considerato il luogo dove si trovava, la attendeva seduto dietro il tavolo dei colloqui, alzandosi al suo ingresso, lentamente, con l’aria del padrone di casa.

 

“Dubito che sia una sorpresa, signor Romaniello, visto che sono settimane che cerco di ottenere un colloquio con lei, ma noto che la sua salute, tanto cagionevole, sia in netto miglioramento.”

 

“Eh, dottoressa… gli acciacchi dell’età che avanza, ma questo non mi impedisce di accogliere una bella donna come si deve,” pronunciò, mellifluo, ma con una nota maliziosa nella voce, prima di rivolgere uno sguardo a Calogiuri, che stava pochi passi alle spalle di lei, e proclamare, sarcastico, “anche se avrei preferito, per una volta, parlarle a quattr’occhi, da soli, senza il cavalier servente.”

 

Imma notò, in tralice, che Calogiuri digrignava i denti e si chiese per un secondo se fosse più incazzato con lei o con Romaniello o con entrambi.

 

“Ed io invece preferisco di gran lunga che il maresciallo sia presente, signor Romaniello, per evitarle di fare qualche stronzata da aggiungere alla lunga lista di quelle che ha commesso fino ad oggi,” sibilò Imma, prendendo posto nella sedia, Romaniello che la imitò, apparendo sorpreso, Calogiuri che rimase fermo, impettito ed immobile due passi alla sua sinistra, “vede, signor Romaniello, io credo di doverle delle scuse, per non aver capito prima il suo ruolo… non solo in questa incresciosa vicenda, ma nella vita, in generale.”

 

“Che intende dire?” le domandò, la maschera che gli cadde per un attimo dal viso, apparendo ancora più sorpreso, mentre pure Calogiuri le lanciò un’occhiata, come se pensasse fosse impazzita.

 

“Che non l’avevo capita la sua… confessione di quel giorno nel mio ufficio, se così la possiamo chiamare. Com’erano le sue esatte parole? Io sono sempre stato una pecora nera, da quando ero ragazzino, perché non mi piaceva quello che gli altri decidevano per me. Se lo ricorda, signor Romaniello?”

 

“I miei problemi di salute non riguardano la mia sfera psichica, dottoressa, e la mia memoria funziona ancora bene.”

 

“E poi mi disse anche che suo padre non le evitò il carcere perché volle darle una lezione esemplare, no?” proseguì, con tono tranquillo, vedendo Romaniello sempre più confuso, prima di giocarsi l’asso nella manica, “vede, signor Romaniello. Io credo di avere capito finalmente, perché suo padre le dovette dare quella lezione esemplare. E che cos’era che gli altri decidevano per lei, e che a lei non piaceva. Suo padre non gliela diede per un senso superiore di giustizia la lezione, o perché volesse correggere i suoi vizi che, parliamoci chiaro, signor Romaniello, in fondo all’epoca mettevano a repentaglio giusto la sua salute. Ma i suoi vizi erano un problema perché l’avevano portata all’arresto, avevano gettato un’ombra sul buon nome della sua famiglia. E allora, prima che a qualcuno potesse venire in mente che quel nome, forse, tanto buono non fosse, lei divenne il capro espiatorio, e suo padre la tenne in galera proprio per comprovare la specchiata onestà sua e del resto della famiglia. Che lei e solo lei fosse la pecora nera, e non semplicemente qualcuno che non riusciva a tenere sotto controllo i suoi vizi e che si rifiutava di diventare un bravo soldatino, un ingranaggio in un meccanismo ben più grande.”

 

Romaniello rimase per qualche istante in silenzio e scoppiò in una risata amara, per poi fulminarla con’occhiata tagliente e sibilare, altrettanto affilato, “ma che cosa pensa di ottenere, eh, dottoressa? Che io mi commuova per questa sua incredibile ed improvvisa empatia nei miei confronti? Che la povera pecora nera, maltrattata ed incompresa, sentendosi finalmente capita, le racconti tutto quello che sa, o che lei pensa che io sappia? Ma veramente mi crede tanto stupido?”

 

“No, e proprio perché non la ritengo stupido, signor Romaniello, confido che lei non voglia restare a marcire qui dentro da solo come, ancora una volta, unico capro espiatorio di questa vicenda.”

“Lei mi sottovaluta, dottoressa. Sono passati molti anni da allora e… sottovaluta la mia influenza, il mio potere e-”

 

“E intanto lei è l’unico che sta qui in galera, signor Romaniello. E dove stanno gli altri? E non parlo di quei poveri cristi che le persone a cui lei sa benissimo io mi sto riferendo hanno mandato al camposanto o fatto finire in coma. Ma lei pensa davvero che si scomoderanno a tirarla fuori di qui, ora che hanno il colpevole perfetto da cui prendere le distanze? Ora che gli altri che potevano parlare li hanno fatti tacere, in molti casi per sempre? Forse è lei che si sopravvaluta, signor Romaniello.”

 

“Io, dottoressa? Non le hanno insegnato in qualche esame di psicologia, o criminologia, o giù di lì che non bisognerebbe proiettare sugli altri le proprie mancanze? Lasci che le racconti io ora una bella storia, dottoressa. La storia di una poveretta che viveva in una topaia, col padre alcolizzato e la madre che puliva i cessi di mezza Matera per campare. E che, per prendersi una rivalsa sulla vita, passò tutta la giovinezza sui libri a sgobbare, senza mai alzare il capo, finché riuscì a ottenere un ruolo che a lei pareva importantissimo, ma che nella vita reale contava e conta quanto il due di picche, anche se lei continua a rifiutarsi di capirlo, di accettarlo.”

 

Imma sentì un’ondata di furia montarle dentro, ma poi notò un movimento alla sua sinistra e vide Calogiuri fare un passo in avanti. Alzò la mano, per dirgli di fermarsi, ma in quel momento Romaniello decise di parlare ancora, mettendo le mani sul bordo del tavolo e sporgendosi verso di lei.

 

“Lei non sa a che gioco sta giocando, dottoressa, in che cosa si è infilata. E la sa una cosa? Mi dispiacerà molto quando finirà male, ci può giurare. Perché è… divertente, anzi, direi… eccitante vederla lottare e contorcersi nella sua presunzione di poter cambiare le cose. Ma finirà malissimo, come tutti quelli che ci hanno provato prima di lei. Uno spreco, non pare anche a lei, maresciallo? Quando tutta questa energia repressa poteva essere usata in modo molto più piacevole.”

 

E stavolta Imma vide Calogiuri scattare verso Romaniello e, prima che potesse raggiungerlo, gli si buttò praticamente contro, bloccandolo con un braccio sul petto, beccandosi una scossa elettrica che la metà bastava. Non avrebbe saputo dire se l’avesse sentita anche lui, ma il maresciallo si fermò di colpo e le lanciò uno sguardo furente, ma stavolta non rivolto a lei, una specie di richiesta implicita, uno stai bene? e un sei sicura che non devo intervenire?

 

Lei si limitò a scuotere il capo, per poi fare un passo indietro e rimettere le distanze tra loro.

 

“Che quadretto commovente! E dire che eravate talmente rigidi che cominciavo a pensare ci fossero problemi in paradiso,” ridacchiò Romaniello, apparentemente tranquillo come una pasqua, imperturbabile, lanciando l’ennesima provocazione.

 

“Signor Romaniello, io le consiglierei di pensare ai suoi di problemi. Che i capri espiatori, quando non servono più, si sacrificano, come dice il nome stesso. Ma se lei è convinto di volersi prendere le colpe anche per gli altri, oltre che le sue, faccia pure, mi auguro che la permanenza in carcere continui ad essere di suo gradimento e che la sua salute tanto cagionevole non ne risenta ulteriormente. Buon proseguimento,” proclamò, girando i tacchi e avviandosi verso la porta, sapendo benissimo che, almeno quel giorno, da Romaniello non avrebbero ottenuto altro, per poi aggiungere, quando non sentì altri passi dietro i suoi, “andiamo, Calogiuri.”

 

Il maresciallo serrò la mascella, lanciò un’ultima occhiata di disprezzo a Romaniello e si affrettò a raggiungerla, piazzandosi alle sue spalle, in quel modo protettivo che aveva quando dovevano entrare in azione e che Imma aveva seriamente temuto di non vedere mai più.

 

Gli occhi iniziarono a bruciarle, ma li ignorò ed uscì da quella stanza opprimente, senza guardarsi indietro.

 

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Osservava la murgia scorrere fuori dal finestrino, cercando di trattenere le lacrime.

 

Un po’ per la rabbia verso Romaniello, un po’ per la commozione verso Calogiuri ed un po’ per la frustrazione di quel viaggio in auto trascorso, fino a quel momento, come quello d’andata, in un silenzio tombale. E non piacevole come i loro silenzi erano sempre stati, ma carico di risentimenti, di non detti, di rabbia e frustrazione represse.

 

Non poteva che ripensare all’ultima volta che avevano fatto lo stesso percorso, dopo la visita a Domenico Bruno. A come Calogiuri l’aveva abbracciata, consolata, con tutta quella dolcezza, con tutto quell’amore. E, sebbene fosse consapevole che quell’amore c’era ancora, da qualche parte, in qualche forma, sepolto sotto il rancore, come dimostrato da quell’istinto di protezione nei suoi confronti, allo stesso tempo sembrava essere trascorsa una vita intera e non solo pochi mesi da allora.

 

Osò lanciargli un’occhiata rapida e lo vide stringere il volante, la mascella serrata, concentrato sulla strada in modo eccessivo e di conseguenza poco credibile.

 

Sospirò e fece per tornare a voltarsi verso il finestrino, quando notò un lampo d’azzurro e lo beccò a spiarla, in tralice, prima di tornare a fissare dritto davanti a sé.

 

“Ti… ti ringrazio per prima ma… Romaniello fa apposta a provocare, aspetta solo che noi reagiamo per fare il martire. Non devi rischiare di passare un guaio per difendermi, non ne vale la pena,” si decise infine a dire, perché sapeva che fosse la cosa giusta da fare, per tutelarlo ed evitargli possibili casini disciplinari in futuro.

 

“Ho solo fatto quello che avrebbe fatto chiunque al posto mio,” replicò Calogiuri, asciutto, continuando a guardare la strada, prima di aggiungere, tagliente, “ma avete ragione voi: non ne vale la pena.”

 

E, sebbene non avesse fatto altro che ripetere le sue stesse parole, per qualche ragione le suonarono come un altro schiaffo, acuendo solo la voglia di piangere.

 

Ma strinse i denti e si disse che in fondo era meglio così: non poteva permettersi un avvicinamento a lui, di nessun tipo, non ancora, non mentre era così debole. Se l’avesse abbracciata, ma anche solo toccata… probabilmente non gli avrebbe resistito: del resto, quando lui le si avvicinava troppo lei non ci capiva più niente, da sempre, e non solo per l’attrazione fisica.

 

Questa distanza era la cosa migliore per tutti, tranne che per lei ed il suo cuore. Ma lo avrebbe ignorato, fino ad abituarsi a sentirlo come un dolore sordo di sottofondo, di quelli con cui impari a convivere, perché non hai alternative, perché, in un modo o nell’altro la vita va avanti, che tu sia pronta per farlo o meno.

 

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“Amò, che c’hai? Non hai quasi toccato cibo. Stai mangiando troppo poco, Imma, non va bene.”

 

Appoggiò i gomiti al tavolo, in barba a tutte le norme del galateo, si mise la testa tra le mani e sospirò, il mal di testa che iniziava a pulsarle nelle tempie e ad irradiarsi verso il centro della fronte.

 

Forse per l’inappetenza che, Pietro non aveva torto, l’aveva presa da quando aveva deciso di chiudere con Calogiuri. Forse per tutte le lacrime versate di straforo in quelle settimane, forse semplicemente per la tensione che non la lasciava mai davvero.

 

“Amò, ehi…”

 

Udì la voce di Pietro alle spalle, vicinissima, ancora prima che le sue mani ci si appoggiassero sopra con delicatezza, iniziando a massaggiarle, nonostante lei si fosse contratta ancora di più.

 

“C’è già Valentina che fa quasi lo sciopero della fame,” mormorò, tra il preoccupato e l’ironico - ed in effetti Valentina era da mo che era chiusa in stanza a chattare con Samuel, dopo aver spizzicato come un uccellino - prima di aggiungere, l’ironia che era completamente evaporata dalla voce, “ma tu mi stai facendo davvero preoccupare, mo. Mi vuoi dire che ti sta succedendo? Non ti posso vedere così, Imma.”

 

Imma fece un altro sospiro, le lacrime che minacciavano di uscirle di nuovo, il senso di colpa che ormai era talmente parte di lei da non sentirlo quasi più, soffocato dal dolore e da quel senso di mancanza, di vuoto, che non le dava tregua. Non ne poteva più delle insistenze di Pietro per sapere cosa le stesse capitando, e allo stesso tempo non reggeva tutta quella preoccupazione nei suoi confronti, quindi si decise a dargli qualcosa, almeno per farlo tacere per un po’.

 

“Oggi… oggi ho interrogato Romaniello in carcere. E… non è stato piacevole, Pietro,” spiegò, seppure fosse una versione largamente censurata di quanto era successo in realtà.

 

Il massaggio alle spalle si fermò di colpo.

 

“Ma ti ha fatto qualcosa, Imma? Ha provato a farti del male?” le domandò, con una nota di rabbia nella voce che la toccò profondamente, scostandole delicatamente la mano dal viso per incrociare il suo sguardo.

 

“No, Pietro, ma… ha detto delle cose orribili. Su di me, sui miei genitori. Ma non è solo quello… il maxiprocesso si sta rivelando qualcosa di molto più grande di quanto già pensassi. E… e a volte ho l’impressione che mi stia sfuggendo tutto di mano, Pietro, di aver sbagliato tutto negli ultimi mesi… di essermi infilata in una situazione che non riesco più a reggere,” ammise, mentre un singhiozzo le sfuggiva dalla gola, perché non stava più parlando solo del maxiprocesso, ma anche e soprattutto di tutto il resto, di tutto il resto che non poteva confessare e di cui non poteva parlare, se non in questo modo.

 

“Imma... non dirlo nemmeno per scherzo, amò: non c’è niente che tu non possa fare. Sei la persona più forte che io conosca,” le sussurrò, trascinandola in un abbraccio e lei si lasciò abbracciare perché ne aveva bisogno, perché non ce la faceva più e si ritrovò a ricambiare con una forza che la sorprese, “supererai, anzi, supereremo anche questo periodo, vedrai.”

 

E le venne da piangere, perché pure Pietro non stava più parlando solo del processo, e lo sapevano entrambi. Le lacrime le sfuggirono dagli occhi e si aggrappò a lui perché ci voleva e ci doveva credere che sarebbero riusciti a superare quella situazione in cui lei li aveva messi. Che un giorno, prima o poi, quell’abbraccio dal cui calore si sentiva avvolta, le avrebbe fatto lo stesso effetto di una volta, l’avrebbe fatta sentire di nuovo in pace con se stessa e col mondo.

 

Ma almeno, la faceva sentire amata, amata davvero ed era già molto di più di quanto pensava di meritare ma era anche ciò di cui in quel momento aveva disperatamente bisogno.


Di sentire l’amore di Pietro e sperare che sarebbe bastato per entrambi, almeno fino a che il suo cuore avesse smesso di fare le bizze, avesse smesso di sanguinare per un sentimento impossibile e senza futuro. E magari allora quell’amore che lei provava per Pietro, tanto trasformato negli ultimi mesi, sarebbe tornato piano piano quello di un tempo, quello che aveva fatto del loro matrimonio, per vent’anni, un’unione serena.

 

Forse non felice, ora che aveva scoperto cosa fosse la felicità piena, quella che ti fa scoppiare il cuore nel petto e compiere qualsiasi follia senza considerarla tale.

 

Ma non era in fondo già così rara e preziosa la serenità?

 

E poi non ho alternative, se non decidere di lasciare anche Pietro e rimanere sola. Ma devo almeno fare un tentativo di salvare questo matrimonio: per Pietro, per Valentina. Tanto, ciò che voglio davvero non lo potrò comunque avere mai.

 

Per stare sola, che era quello che si sarebbe meritata, peraltro, con tutto quello che aveva combinato negli ultimi mesi, in fondo, c’era sempre tempo. E, se voleva allontanare definitivamente Calogiuri e fare in modo che la dimenticasse, in ogni caso, almeno per un po' non poteva nemmeno pensare ad una separazione. E poi c'era Valentina e la maturità e tutto quello che sarebbe venuto dopo.

 

In quel momento, Pietro allentò leggermente l’abbraccio e prese ad asciugarle le lacrime con le dita.

 

E poi le posò un bacio su una guancia, con una dolcezza che le fece bene e male al cuore insieme, per poi passare all’altra guancia. Si ritrasse per un attimo e si guardarono, forse per la prima volta si guardarono veramente dopo mesi e mesi in cui non lo facevano più. Vide gli occhi lucidi, disperati e pieni d’amore di Pietro e, d’impulso, gli prese il viso e lo baciò, dritto sulle labbra.

 

Non sentì nessuna scossa elettrica, nessun brivido, ma il modo in cui lui le sorrise incredulo, quasi come se fosse appena avvenuto un miracolo, le provocò un’altra morsa di tenerezza. E poi lui la baciò ancora ed ancora e lei si lasciò baciare, e cercò di ricambiare come poteva, con dolcezza, in quello che era un ti voglio bene ed un cercare in qualche modo di compensare tutta la sofferenza che gli aveva causato in quei mesi.

 

Ad un certo punto, si sentì sollevare in piedi e, sempre baciandosi, lentamente, si ritrovò senza quasi rendersene conto in camera da letto.

 

Pietro si staccò e la guardò nuovamente, come a chiederle il permesso. Lei esitò per qualche istante, uno strano senso di qualcosa che le si agitava nel petto, ma si disse che doveva almeno provarci, che da qualche parte dovevano pur ricominciare.

 

Prese un forte respiro e chiuse la porta alle loro spalle, siglando la sua decisione.

 

Le sorrise, nuovamente quasi incredulo, e riprese a baciarla, a toccarla, a spogliarla, e lei glielo lasciò fare, si lasciò guidare, si lasciò amare, perché ne aveva un disperato bisogno.

 

Pietro fu dolce. Dolce ed appassionato come non era forse mai stato: ogni carezza, ogni bacio che sembravano una dichiarazione d’amore.

 

All’inizio la tenerezza ed il senso di bene profondo che l’avvolsero, insieme ad i sensi che si riattivavano, dopo settimane di astinenza, la portarono a lasciarsi andare, a cercare in qualche modo di ricambiare, ma, piano piano, si rese conto di non riuscirci, non del tutto. Di non riuscire a provare passione, solo tenerezza e commozione. Il bene ed il piacere fisico che lasciavano spazio, piano piano, ad un senso di vuoto e ad una voglia inspiegabile di piangere.

 

Realizzò solo dopo qualche istante che Pietro si era accasciato su di lei ed aveva smesso di muoversi. Avvertì una sensazione umida sulla spalla, nell’incavo del collo dove i capelli di lui le facevano il solletico.

 

Gli sfiorò il viso, lui si sollevò leggermente ed i loro sguardi si incrociarono. Si rese conto che Pietro stava piangendo, anzi, che stavano piangendo entrambi, quando la mano destra di lui si sollevò per asciugarle una lacrima dallo zigomo. Ma, a giudicare dal sorriso sollevato, grato ed ampissimo di Pietro, purtroppo, per motivi completamente diversi.

 

Si sentì trascinata in un altro abbraccio e lo strinse forte, maledicendosi per tutto quello che non riusciva più a provare, mentre il vuoto diventava quasi una voragine, peggiore ancora di quella che l’aveva accompagnata nelle ultime settimane.

 

E quel qualcosa che scalpitava nel petto finalmente prese forma e lo riconobbe, chiaro, netto e distinto: una mareggiata di senso di colpa talmente forte da levarle quasi il fiato.

 

Perché mi sento in colpa? Non sto più tradendo nessuno! - si domandò, confusa, almeno fino a quando due occhi azzurri non la fulminarono, accusatori, e spalancò gli occhi, il cuore in gola, mentre tutto le fu drammaticamente chiaro.

 

Merda!

 

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“Oh, è arrivato pure il maresciallo! Era ora, in questi giorni sei sempre sfuggente. Tutto bene?”

 

“Sono solo un po’ stanco,” cercò di dissimulare, sedendosi al tavolo del pub a cui gli altri agenti di PG avevano già preso posto. Alcuni erano già quasi in fondo alle loro pinte: quelli che tenevano famiglia ed erano sempre i primi ad andarsene.

 

Era una specie di tradizione ormai: l’ultimo lunedì del mese si ritrovavano al pub locale - praticamente deserto a inizio settimana e fuori dalla stagione turistica - subito dopo il lavoro, per una bevuta - e per chi lo voleva anche una mangiata - in compagnia, prima di ritornare ognuno alle proprie famiglie o alle proprie case.

 

L’idea era stata lanciata da Capozza mesi prima, nel periodo in cui era sempre giù per la signora Diana, che aveva deciso di allontanarsi da lui dopo la separazione dal marito.

 

Non che glielo avesse mai detto, Capozza, di lui e della cancelliera. Ma l’aveva capito lo stesso, ben prima di beccarli, non visto, a baciarsi come due ragazzini nell’ufficio di lei, un giorno che era rientrato a recuperare alcune cose che qualcuno a cui non doveva pensare in quel momento aveva scordato in ufficio: aveva riconosciuto gli sguardi e tutti quei segnali tipici che fanno capire che due persone si piacciono ma non lo vogliono ammettere. Si era spesso chiesto se anche lui e Im-

 

Si bloccò prima di andare oltre con quel pensiero: si era sforzato di uscire quella sera, nonostante la tentazione di dare buca fosse stata forte, proprio per distrarsi almeno per qualche ora da quei pensieri che lo tormentavano e torturavano da settimane. Da quel dolore incessante che non voleva dargli tregua e che minacciava sempre di farlo scoppiare a piangere nei momenti meno opportuni. Da quella rabbia che, mano a mano che passavano le settimane, lasciava sempre più il posto ad un senso di vuoto, ma che ancora rischiava di esplodere, soprattutto quando era con lei. Come quel pomeriggio, quando aveva osato quasi rimproverarlo per aver tentato di difenderla, come il cretino che era, con quel non ne vale la pena che l’aveva mandato in bestia.

 

Ecco, e mo ci sto di nuovo ripensando! Stupido, stupido, stupido! - si infuriò con se stesso, afferrando il menù del pub con fin troppa forza, tanto che la voce di Jessica, seduta accanto a lui, lo riscosse dai suoi pensieri con un “che ti ha fatto qualcosa di male quel menù? Che pare che lo vuoi fare fuori!”

 

Ignorò la battuta ed ordinò una birra scura, la più forte che c’era in lista. Ne aveva proprio bisogno.

 

“Che ne dici se ci prendiamo un hamburger? Io tengo una fame tremenda! Ne ho proprio bisogno!” gli propose lei, facendogli eco, con uno sguardo triste, e lui ci pensò un attimo, sentendo lo stomaco completamente chiuso, come ormai era da settimane, ma alla fine si impose di accettare.

 

Tra sport ed inappetenza stava perdendo peso e non andava bene, anche se l’hamburger con le patatine non era di certo l’alimento più salutare con cui interrompere il digiuno.

 

“Certo che stasera avete proprio un’atmosfera da funerale, ragazzi! Su, che siete giovani, belli, con tutta la vita davanti: se non state allegri voi, che dobbiamo dire noi, alla nostra età?” li riprese Capozza, con un mezzo sorriso malinconico.

 

“Questi discorsi mio padre me li può fare, Capozza. Che bisogna avere un’età minima pure per essere tristi, mo, in questo paese? E scommetto che per noi donne sarà pure più alta, come al solito,” ironizzò Matarazzo, afferrando la sua birra, una pinta chiara, mentre normalmente al massimo prendeva la mezza, ed ordinando i due concentrati di calorie e junk food anche per lui.

 

“Tu invece mi sembri allegro, Capozza. Cos’è successo? Belle novità in vista?” si divertì a punzecchiarlo, per sviare il discorso dalla sua di tristezza, perché ovviamente ai colleghi non poteva spiegare il motivo del suo malessere, né allora né mai.

 

“Chissà… forse…” rispose Capozza, con un mezzo sorriso vago e misterioso, ma con un che di sornione nella voce che gli fece ipotizzare che qualcosa bollisse di nuovo in pentola tra lui e la cancelliera.

 

O magari si è innamorato di un’altra, almeno lui, e non sta ancora appresso ad una donna che non potrà mai avere, come fai tu - gli fece notare la voce della sua gelosia, prima di aggiungere, in una stoccata finale - anche se la cancelliera è separata, almeno lei.

 

Bevve una sorsata di birra, nonostante fosse a stomaco vuoto e non fosse una buona idea farlo, e poi un’altra e un’altra ancora, cercando di scacciare quei pensieri dalla mente il più rapidamente possibile.

 

Si sentiva giusto giusto avvolto da quell’ovatta provocata dall’alcol, quando i colleghi maritati si congedarono, lasciando solo lui, Capozza e Matarazzo al tavolo.

 

Gli hamburger ancora tardavano, nonostante fossero praticamente gli unici clienti, e lui e Jessica avessero già finito entrambi la prima pinta, Capozza che li seguiva a ruota.

 

Jessica ordinò il secondo giro - altra cosa che non era affatto da lei - e lui gettò al vento il buon senso e la imitò, anche se un litro di birra a quella gradazione non l’avrebbe retta bene, stomaco vuoto o meno, mentre Capozza fece segno di no col capo, che doveva guidare e, proprio in quel momento, ricevette una telefonata e si allontanò per rispondere.

 

Ed, al suo posto, finalmente giunsero gli hamburger, meglio tardi che mai, e pure il secondo giro di pinte.

 

“Allora, che c’hai? Problemi di cuore?” ironizzò Jessica, afferrando il suo panino per addentarlo, per poi bersi un’altra sorsata di birra.

 

Lui si limitò a tacere e lei proseguì, con la bocca mezza piena, sarcastica ed amara, “ma no, voi uomini non soffrite mai per amore. Tu poi… lasciamo perdere!”

 

“Che… che vuoi dire?”

 

“Che tu le donne con cui stai le mandi pure in galera, senza battere ciglio. A parte che dei gusti inspiegabili tieni… ma contento te!” lo fulminò, con un’occhiataccia che poteva quasi uccidere, prima di tracannare un altro po’ di birra.

 

“Io… io non-”

 

“Lascia perdere, Calogiuri, scusa. Ma sto con l’umore girato e, quando mi prende così, tremenda divento. Lo so che hai fatto il mestiere tuo e non potevi evitarlo,” sospirò, prima di fissarlo in tralice con un sopracciglio alzato ed aggiungere, sarcastica, “ma sui gusti inspiegabili continuo a pensarlo, ma, ripeto, contento te! Non che i miei siano molto meglio, eh, che tutti i casi umani pare che col lanternino me li vado a cercare.”

 

“Casi umani?”

 

“Sì… quelli che mi vogliono a me non piacciono. E quelli che a me piacciono o non mi si filano proprio,” sospirò, lanciandogli un’occhiata eloquente che lo fece avvampare per l’imbarazzo, sentendosi un po’ mortificato, anche dopo mesi, per il due di picche che le aveva rifilato dopo quel bacio davanti alla procura, “oppure sono dei casi umani da manuale, che o li devo mollare io per esasperazione - e poi liberarsene te la raccomando - o mi piantano sempre sul più bello, così, senza una spiegazione, niente. Tanti saluti, arrivederci e grazie.”

 

“Mi… mi dispiace…” provò ad abbozzare, vedendo con sollievo Capozza tornare, sperando lo salvasse da quella conversazione che non era sicuro di riuscire a gestire. Già non era mai stato capace di consolare sua sorella Rosa dalle sue pene d’amore, quando aveva avuto le crisi periodiche con suo cognato, prima che si sposassero, figuriamoci mo con Matarazzo, con cui non è che avesse tutta questa confidenza e con cui c’era, per l’appunto, pure un pregresso già di suo imbarazzante.

 

Ma Capozza si limitò a brandire il cellulare e a proclamare di dover scappare per un’emergenza - e, di nuovo, chissà per quale motivo, visualizzò lui e la cancelliera avvinghiati sulla scrivania - e, dopo aver mollato i soldi per la sua birra sul tavolo, ad allontanarsi di filato.

 

“Tipo l’ultimo, no. Sai quando mi ha mollato il disgraziato? Sai quando mi ha mollato?”

 

Si ritrovò a bere un’altra sorsata di birra per guadagnare tempo, l’hamburger che praticamente ancora non lo aveva quasi toccato, la testa che iniziava vagamente a girargli, dopo una pinta e mezza a stomaco vuoto.

 

“Il giorno prima di San Valentino! Che bastardo, eh?! Giusto per risparmiarsi il regalo, ovviamente. Che io invece come una scema già glielo avevo comprato e mo glielo darei in testa quello stramaledetto profumo, che mo che me ne faccio?!” esclamò, sollevando il boccale al cielo, prima di finirlo in un’unica sorsata finale.

 

“Jessica…” provò ad intervenire, preoccupato che stesse bevendo troppo, per quanto la birra di lei fosse forte meno della metà della sua.

 

Ma Jessica scosse il capo, prima di metterselo tra le mani, per qualche istante, e poi guardarlo, con occhi improvvisamente troppo lucidi, che gli fecero male e allo stesso tempo scaturire quel moto di panico che sempre lo prendeva quando una donna piangeva di fronte a lui e non sapeva come fare per consolarla, quel desiderio quasi istintivo di fare qualsiasi cosa in suo potere per farla smettere il prima possibile.

 

“Ma che cos’ho che non va, eh? Che tutti mi dicono che sono bella, bella, sì, bella un corno! Ma poi nessuno mi vuole! Che fossi almeno brutta, potrei dirmi che è per quello: che sono superficiali, che è loro la colpa. Ma se non è l’aspetto, il carattere deve essere, no? E allora proprio io sono che c’ho qualcosa che non va!” proclamò, le lacrime che ormai le rigavano le guance, afferrandolo per il colletto della giacca di pelle e domandandogli, quasi scuotendolo,  “dimmi la verità! Che c’ho che non va?”

 

“Ma niente, Jessica, ma figurati, non hai niente che non va, anzi,” si affrettò a cercare di rincuorarla, appoggiando una mano su quelle di lei, sperando anche di calmarla, e di farla smettere di strattonarlo, “non solo sei bellissima, ma sei anche intelligente e hai un carattere molto forte, ma in senso buono, non ti manca niente, davve-”

 

Non riuscì a terminare la frase, perché si ritrovò con due labbra appiccicate a ventosa sulle sue, le mani di Jessica che gli tenevano il viso, baciandolo con passione e quasi con rabbia, mordendogli il labbro e riprendendo a baciarlo con più vigore quando lui si lasciò andare ad una mezza esclamazione di dolore, soffocata nella bocca di lei.

 

All’inizio non rispose, rimase immobile, quasi pietrificato, come sotto shock. Poi, la testa che gli girava, il primo istinto fu quello di respingerla, di allontanarla, nonostante fossero le prime sensazioni piacevoli dopo settimane di dolore e di astinenza. Nella sua mente passò, come in un flash, un volto purtroppo fin troppo familiare e dei capelli ricci color del rame.

 

Sei un cretino! Stai ancora a pensare a lei? - si rimproverò, mentre la rabbia verso se stesso e verso di lei tornava a montargli dentro.

 

E, proprio in quel momento, il bacio si interruppe e Jessica lo guardò, con occhi ancora più lucidi, le lacrime che le bagnavano le guance, fulminandolo con uno sguardo e proclamando, tra l’amaro ed il disperato, “non mi manca niente, ma non ti piaccio proprio, eh?”

 

Forse fu il dolore che le lesse nello sguardo, e che gli ricordava così tanto il suo, quella sensazione orrenda che si ha quando si comprende di non essere ricambiati, di avere messo il proprio cuore in mano a qualcuno che lo ha preso e lo ha fatto a pezzettini. O forse fu quel senso di rabbia che gli saliva fino in gola e sapeva, ironia della sorte, di rame. Forse furono gli ormoni che, insieme all’alcol, gli fecero girare nuovamente la testa, i contorni del viso di lei che si sfumavano, ma se lo prese tra le mani e la baciò, sentendola sorridere sulle sue labbra e baciarlo con maggiore vigore, maggiore passione, che si ritrovò a ricambiare, quasi meccanicamente, in automatico.

 

Senza rendersene praticamente conto, se la trovò in braccio, a cavalcioni su di lui, il corpo che gli si riattivava dopo settimane di castità forzata, la testa che ormai pareva essere finita sott’acqua, tanto la sentiva ovattata.

 

Fece appena in tempo a percepire dita che lo accarezzavano sotto il maglione e, proprio in quell’istante, un colpo di tosse e poi un altro, che li fecero staccare di colpo, col fiatone ed imbarazzati, mentre il proprietario del pub li guardava tra il divertito e l’esasperato, proclamando, con un mezzo sorrisetto, “se volete abbiamo delle stanze qui sopra, sono libere essendo fuori stagione. Quaranta euro. Pagamento anticipato.”

 

Sentì tutto il sangue andargli in viso, mortificato nei confronti di Jessica, e stava per negare fermamente quell’idea, quando lei gli sorrise e gli fece l’occhiolino, sussurrandogli, “che ne dici? Che io sto in caserma, lo sai, e non è il caso.”

 

Si sentì, se possibile, avvampare ancora di più, il viso che pareva essergli diventato un termosifone, nonostante gli ormoni in circolo ed il corpo che gli urlava di dire di sì, mentre il cervello, quel poco che ne restava, diceva di no. Il cuore ormai non lo sentiva più, non lo voleva sentire.

 

“Sei…. sei ubriaca, non voglio approfittare,” provò a svicolare, vedendo l’espressione speranzosa di lei, non volendo respingerla apertamente.

 

“Ma che ubriaca! Sono lucidissima!” rise lei, balzando giù dalla sedia e tenendosi in equilibrio su un piede solo, facendogli un altro occhiolino e aggiungendo, ironica, “soddisfatto dell’alcol test, maresciallo? E dai, che mica stiamo più nel medioevo, no? Se lo vogliamo entrambi, che male c’è?”

 

Già, che male c’è? - si chiese, la vista che un poco gli ondeggiava, il cervello che funzionava a sprazzi, domandandogli se lui su un piede solo si sarebbe saputo reggere, ma forse era meglio non scoprirlo.

 

Sei single, lei è single, vi piacete fisicamente, che c’è di male? - insistette quella maledetta voce, provocandolo, perché subito dopo, un pensiero si fece largo tra tutti gli altri, o forse era il cuore che mandava un segnale di vita, finalmente.

 

Perché non voglio tradire Im-

 

Si bloccò a forza, incazzato con se stesso come forse mai in quelle settimane. Incazzato con lei. Incazzato con il suo maledetto cuore per voler restare fedele ad una donna che l’aveva piantato in asso per tornare dal marito, senza rimpianti. Che non lo avrebbe mai amato.

 

E forse fu la rabbia, forse fu il desiderio fisico, forse furono gli occhi imploranti di Jessica, che lo guardava come se temesse di essere respinta un’altra volta, ma si tirò in piedi su gambe ben poco stabili, annuì e la baciò nuovamente, prima di staccarsi e cercare il portafoglio nella tasca dei pantaloni, lasciando denaro sufficiente per le loro consumazioni e per la stanza.

 

Per un attimo, mentre i soldi passavano di mano, sostituiti da una chiave, si sentì squallido, quasi come se avesse appena siglato un patto con il diavolo.

 

Ma poi Jessica lo baciò di nuovo ed ogni traccia di buonsenso svanì, sostituito dal bisogno fisico di provare qualcosa, di dimostrarsi che poteva provare qualcosa anche senza di lei.

 

Barcollarono su per le scale, perché continuava a sentire il mondo come appena uscito dalla piscina dopo una lunga nuotata, quella sensazione del pavimento che ondeggia sotto le suole, e finirono, dopo un po’ di tentativi con la chiave, nella camera a loro assegnata.

 

E da lì fu tutto confuso e rapidissimo: i vestiti che cadevano, Jessica che lo trascinava sul letto e lui che per poco non le crollava addosso, e poi lei riprese a baciarlo, a toccarlo, e tutto successe in modo automatico, quasi inevitabile, come andare col pilota automatico inserito, guidato solo dall’istinto, dagli impulsi, dal desiderio fisico e da quella necessità di sentire, maledizione, di sentire qualcosa, qualsiasi cosa.

 

Si ritrovò, alla fine, esausto, a cercare di prendere fiato nel collo di lei, che gli si era aggrappata alle spalle e lo teneva stretto forte, come una morsa nella quale improvvisamente si sentì soffocare.

 

Provò a staccarsi ma lei rotolò insieme a lui sul materasso e rimase distesa sul suo petto, alzando lo sguardo verso di lui e sorridendogli, con gli occhi stanchi ma apparentemente soddisfatti, anche se si chiese come, talmente era stato tutto indefinito nella sua testa.

 

Gli posò un bacio sulle labbra e un moto di nausea gli risalì fino in gola, forse per via della troppa birra, ma dovette rimandarlo giù a fatica.

 

Lei gli fece un altro sorriso, ignara di tutto, gli posò di nuovo la testa sul petto e, dopo poco, sentì il rumore del respiro di lei farsi più lento, in un lieve russare. Forse causato dalla birra bevuta o dalla posizione, o chissà che altro, ma che gli sembrò fastidiosissimo, quasi assordante.

 

E la nausea tornò prepotente, in un conato di vomito che lo gettò nel panico, facendogli calcolare la distanza tra il letto ed il bagno.

 

Trattenendo il fiato più che poteva, cercò di staccarsi da Jessica, che ancora si aggrappava a lui con una forza incredibile, considerato che stava dormendo. Sentì una prima fitta di senso di colpa, ma la ignorò, riuscendo finalmente a divincolarsi e a mettersi seduto, la testa che girava peggio che se fosse appena uscito da una lavatrice.

 

Su gambe tremanti, appoggiandosi al muro, arrancò fino al bagno, chiuse la porta, fece giusto in tempo ad arrivare al water e vomitò pure l’anima, scosso da conati che lo facevano tremare dalla testa ai piedi, mentre il viso gli si riempiva di lacrime.

 

E, a mano a mano che lo stomaco si svuotava, un altro genere di senso di vuoto, piano piano, sostituiva ogni altra sensazione fisica, mano a mano che i muscoli si raffreddavano, facendolo sentire come se una voragine lo stesse inghiottendo e lo stesso stritolando insieme, fino a non provare più niente, se non un senso di totale spossatezza.

 

Seguito di nuovo da quel senso di squallore e poi di schifo verso se stesso, non appena il cervello si riattivò a sufficienza per rendersi conto di cosa avesse appena fatto.

 

Si sentì una merda, il peggiore degli uomini, non solo per quello che aveva appena combinato ma soprattutto con chi. Jessica non se lo meritava, non se lo meritava e lo sapeva, lo sapeva benissimo, ora che quei pochi neuroni che teneva in testa avevano ripreso del tutto a ragionare, passata la botta dell’alcol e degli ormoni.

 

E poi, in un lampo, due occhi marroni lo fulminarono, accusatori, e spalancò gli occhi, non sentendo più rabbia, solo una mareggiata tremenda di senso di colpa, nonostante tutto, nonostante non avesse senso, nonostante non fosse logico.

 

Ma il suo cuore della logica e del buon senso non ne aveva mai voluto sapere o non si sarebbe mai innamorato di lei.


Si ripulì il meno peggio che riuscì e, facendo sempre pianissimo, si rivestì sommariamente, ansioso di togliersi di lì. Con un ultimo sguardo colpevole a Jessica, che dormiva profondamente, abbracciata a quello che era stato il suo cuscino, le lasciò le chiavi sul comodino, aprì con delicatezza la porta e la richiuse alle sue spalle, sentendo finalmente l’ossigeno tornare a riempirgli i polmoni.

 

Ma il vuoto ed il senso di colpa non gli diedero tregua, accompagnandolo lungo tutto il tragitto verso casa, sotto la doccia e poi a letto, dove rimase a fissare il soffitto, insonne, dandosi del cretino e chiedendosi come avrebbe trovato il coraggio di ripresentarsi in procura l’indomani, anzi di lì a poche ore.

 

Di riaffrontare Jessica, di riaffrontare lei.

 

Ma doveva farlo, doveva prendersi le responsabilità del casino che aveva combinato e le conseguenze che si meritava, per la sua stupidità.

 

Anche se la sola idea di deluderla gli faceva malissimo e si odiava per questo, quasi quanto si odiava per continuare a preoccuparsi più di lei che di Jessica, che in tutta quella storia non aveva alcuna colpa.

 

Almeno lei.





 

Nota dell’autrice: Ok, spero che dopo questo capitolo non vorrete uccidermi. Devo ammettere che è stato molto tosto da scrivere e che sono parecchio in ansia sul risultato, quindi vi ringrazio fin da ora se vorrete farmi sapere che ne pensate, nel bene e nel male perché mai come per questo e per i prossimi capitoli il vostro parere, oltre che a farmi un sacco piacere, mi è fondamentale per capire come sto andando.

Vi chiedo di fidarvi di me e voglio rassicurarvi che il sereno tornerà e sarà un sereno vero e pieno, ma a volte per capire cosa si prova davvero la lontananza può essere fondamentale e anche alcuni errori stupidi di percorso.

Vi ringrazio di cuore per tutto il supporto che state dando a questa storia, ringrazio chi la sta seguendo, recensendo e chi l’ha messa tra le preferite. Spero possa continuare a mantenersi di vostro gradimento e non noiosa anche in questa seconda fase.

Il prossimo capitolo arriverà tra una settimana esatta, domenica 19 gennaio.

Grazie ancora!

 
   
 
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