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Autore: K ANTHOS    12/01/2020    0 recensioni
Come poteva Sara essere a conoscenza addirittura di due omicidi?
Un fremito di terrore lo colse: ora sarebbe toccato a lui?
Rimase esangue al solo pensiero, era quasi in stato di choc, i suoni della campagna gli giungevano ora ovattati e lontani.
Perché non lo aveva ancora denunciato? Cosa la tratteneva?
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con
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Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

 

L’aria era gelida, il buio non era ancora rotto dall’alba e in città dominava un silenzio surreale.                     

Una ragazza correva illuminata dalla luce dei lampioni del viale alberato, il freddo era pungente ma lei non se ne preoccupava, non lo sentiva, era concentrata unicamente sul ritmo del suo respiro intercalato da quello delle sue falcate che riecheggiavano ovattate per la strada deserta.

Correre da sola di primo mattino non la poteva spaventare più dei suoi stessi incubi: stava fuggendo di nuovo da quello che aveva visto, da quello che l’aveva terrorizzata.

Aveva gli occhi ancora umidi per il pianto ma muoversi la aiutava a combattere la sensazione di freddo diffuso ed il tremore irrefrenabile che la avvolgevano dopo una delle sue assurde visioni.

 

Si era disfatto del corpo della ragazza facendolo scivolare delicatamente nel canale di scolo di una strada secondaria ed era tornato a casa a luci spente.  

Aveva parcheggiato la sua vecchia toyota hilux nella rimessa e per prima cosa si era diretto nel bagno attiguo.

Davanti al gabinetto calò i pantaloni, ritrovò il preservativo e lo gettò nello sciacquone, quindi si liberò dell’urina.

Sfregò via accuratamente con acqua e sapone gli schizzi di sangue dalle mani e dalla faccia e appoggiandosi con le mani al bordo del lavandino emise infine un profondo respiro.

Quello che vedeva riflesso davanti a sé non era più l’uomo frustrato e deriso di prima: i suoi istinti più bassi erano stati liberati e la sua rabbia cieca si era infine placata.

Si sentiva molto stanco ma per la prima volta in vita sua era compiaciuto di se stesso, il ghigno sbieco che gli restituiva lo specchio glielo confermava.

 

Sara rientrò poco prima del padre intorno alle 5 e 30.

-Ciao papà, com’è andata questa notte?- fece lei.

Il padre Agostino era guardia notturna in una azienda privata di Viterbo: era il turno più faticoso ma si era oramai da tempo abituato a rovesciare i ritmi del sonno nelle ventiquattro ore.

-Bene, niente di nuovo… Piuttosto sei rientrata adesso anche tu? Un altro dei tuoi incubi?- il padre assunse un’espressione seria.

-Sì papà, ma ora mi sento meglio. Mi fa bene correre… tanto non dormirei…-

-Sicura?- insistette lui.

-Sì papà…- aveva dissimulato la gravità di quello di cui era stata testimone per non farlo preoccupare.

Da quando era rimasto vedovo dimostrava molto più dei suoi cinquantasei anni: le rughe che solcavano il suo volto magro gli conferivano infatti un’aria stanca e provata ma allo stesso tempo  donavano al suo sguardo un’espressione rassicurante e dolce, quella del buon padre di famiglia.

-Vado a farmi una doccia e a riposarmi un po’. Alle nove devo essere a Monterazzano- fece lei.      

-Vado a dormire anch’io Sara, ci vediamo stasera a cena allora…-

-Ok, a stasera…-

L’acqua calda della doccia le tolse di dosso gli ultimi tremori ma non poté nulla contro quelle immagini raccapriccianti, la visione questa volta era stata così cruenta da risvegliarsi con un fortissimo senso di nausea.

Scoppiò a piangere in silenzio e, oramai esausta, si sedette sul piatto doccia con la testa nascosta tra le braccia.

La paura lentamente scivolò via e tutto divenne un ricordo lontano, come sempre.

Si asciugò stremata ed il sonno la colse non appena toccò il letto: la luce era ancora accesa quando il primo chiarore dell’alba inondò la sua stanza.           

 

Alle prime luci del mattino un ciclista percorreva la Strada della Commenda in direzione di Viterbo per il suo allenamento quotidiano quando vide con la coda dell’occhio qualcosa in un canale: gli sembrarono dapprima dei vestiti gettati via malamente ma ad una più attenta osservazione si accorse costernato che avvolgevano un corpo di donna.

Compose con mano tremante il numero della polizia e rimase in attesa del loro arrivo.

Una volante sopraggiunse circa quindici minuti dopo, a cui fece seguito l’arrivo in moto del commissario Valenti.

Parcheggiò nelle vicinanze e si sfilò il casco, quindi si rivolse al gruppetto di ciclisti che discutevano animatamente sul ciglio della strada.

-Buongiorno, sono il commissario Valenti della Mobile di Viterbo, chi è di voi che ha segnalato il ritrovamento?- chiese Riccardo.

-Sono io…- fece un uomo sulla trentina.

Si era nel frattempo formato sul posto un drappello di ciclisti ed il rischio che venissero inquinate eventuali prove era sempre più alto, soprattutto con l’aumentare dei curiosi che si affollavano vicino al canale.

Riccardo si sporse per osservare la vittima ed aggrottò le sopracciglia: vide il corpo di una ragazza seminuda di circa venti anni con i polsi legati dietro la schiena da fascette fermacavo, i lunghi capelli biondi coprivano parte delle spalle ed una grande quantità di sangue raggrumato era ben visibile in prossimità del collo. Il taglio era parzialmente coperto dai capelli ma non c’era dubbio che fosse morta dissanguata.

La scena aveva in sé qualcosa di surreale poiché quel corpo martoriato sembrava fosse stato protetto durante la notte dalla pietà di un velo di brina che la luce del sole nascente faceva scintillare come un manto di piccoli diamanti.

-Sgombrate l’area, chiamate i colleghi della scientifica e fate chiudere la zona- fece Riccardo ai suoi uomini, poi si rivolse al ciclista.

-Ha notato qualcosa o qualcuno qui intorno al momento del ritrovamento? Qualsiasi dettaglio, anche insignificante, potrebbe esserci di aiuto…- fece lui.

-No, mi dispiace, non c’era assolutamente nessuno nei dintorni, sono sopraggiunti altri ciclisti ma poco prima che arrivaste voi…-

-Dia le sue generalità all’agente per favore e rimanga a disposizione, grazie-

-Sì certamente…-

Un primo rapido sopralluogo non portò ad alcun ritrovamento, sembrava che la ragazza non avesse con sé effetti personali.

Non rilevarono tracce di pneumatici sul ciglio della banchina né tantomeno tracce di sangue nei dintorni, Riccardo considerò quindi che con tutta probabilità quello non poteva essere il luogo dell’assassinio.

Non restava che lasciare il lavoro alla scientifica ed al medico legale: i risultati dell’analisi del luogo del ritrovamento e del corpo della vittima avrebbero portato a qualcosa di più tangibile.

 

Riccardo rientrò in commissariato e si confrontò immediatamente con i colleghi.

-Qualcuno ha denunciato la scomparsa di una ragazza stamattina?-

-No Riccardo, nessuno per il momento- fece l’agente Lotti.

-Dobbiamo darci da fare allora con le impronte digitali e con una sua foto non appena ce le faranno pervenire. E’ una brutta storia, mettiamoci al lavoro…-

Riccardo Valenti era certamente molto giovane per essere un commissario di polizia: aveva 28 anni e ricopriva questa funzione da quasi due in modo molto brillante.

Possedeva un ottimo intuito che unito ad una grande passione per le investigazioni lo avevano naturalmente condotto in polizia.

Si era laureato molto presto e con il massimo dei voti in giurisprudenza ed aveva poi conseguito una seconda laurea in scienze della pubblica amministrazione. Si era classificato tra i primi posti al concorso statale e da lì era partito per frequentare il corso della Scuola superiore di polizia. Superato l’esame finale si era visto assegnare un posto presso gli uffici investigativi della questura di Viterbo dove da subito si era fatto notare per lo scrupolo e la professionalità con cui affrontava le indagini, e non solo.

Riccardo era certamente un uomo determinato, logico ed intuitivo ma sapeva anche essere empatico e disponibile: aveva dimostrato fin dal suo primo ingresso alla Squadra Mobile di saper ascoltare i colleghi con più esperienza e di fare tesoro dei loro consigli.

La grande umiltà con cui si era inserito, insieme al suo modo di fare chiaro, diretto e di poche parole, avevano consentito nell’arco di poco tempo la formazione di una squadra affiatata e ben collaudata, capace di concludere indagini anche nel giro di sole ventiquattro ore.

La stima dei suoi colleghi era altissima e si era venuta a creare una solida amicizia con i colleghi con i quali lavorava gomito a gomito da quasi due anni, gli ispettori Ivan Salieri e Antonio Manuzzi insieme all’agente Mauro Lotti erano infatti lo zoccolo duro della sua squadra.

Con i suoi trentotto anni Salieri era il più anziano, il suo carattere estroverso gli permetteva di avvicinare qualsiasi tipo di persona, era per natura sempre ottimista e gioviale, qualche volta poteva risultare un po’ invadente e irritante ma era certamente una fonte infinita di contatti; il trentaseienne Manuzzi appariva invece più riservato e serioso di Salieri però tutte le sue riserve cedevano di fronte ad un computer, una particolare risolutezza caratterizzava il suo sguardo di fronte al monitor, era lui che solitamente si occupava delle ricerche e della raccolta di informazioni durante le indagini.

Lotti era il più giovane del gruppo, aveva ventisei anni ed era un ottimo osservatore, Riccardo aveva ricevuto da lui annotazioni illuminanti in diverse indagini, stava però in quel momento attraversando un periodo molto doloroso della sua vita a causa della recente separazione dalla moglie.

Riccardo li osservò per qualche istante: ognuno di loro apportava un particolare ed importante contributo nelle investigazioni con il proprio talento.

-Prendiamoci un caffè e poi cominciamo- fece lui risoluto.

 

La sveglia di Sara suonò alle otto.

Era così stanca che le sembrò di non aver dormito affatto.

Si alzò, spense la luce e si diresse in cucina per fare colazione.

Sul tavolo trovò il messaggio di Filippo che a quell’ora era già a scuola.

Lo lesse dopo aver messo a scaldare dell’acqua in un pentolino: “Ciao sorellona, ti ho sentita uscire presto questa mattina… perché non mi hai svegliato? Fili”.

Capitava spesso che preda delle sue visioni Sara si rifugiasse dal fratello: stargli accanto, sentirlo vicino, da sempre la quietava e rassicurava. Tante volte le aveva evitato di uscire per correre ma in quella occasione aveva preferito non svegliarlo, Filippo doveva infatti affrontare una difficile verifica di matematica e non intendeva fargli perdere utili ore di sonno, soprattutto dopo averlo visto ripassare la sera prima fino a tardi. 

Concluse il biglietto del fratello aggiungendo un T.V.B., bevve il suo thè e posò stancamente la tazza vuota nel lavabo.

Raggiunse a rilento il bagno ed aprì il miscelatore, finì di svegliarsi sciacquando a lungo il viso con l’acqua fredda, poi si diresse nuovamente in camera.

Cadde seduta sul letto e rimase per un po’ ferma in quella posizione con gli occhi chiusi cercando di trovare dentro di sé la forza per vestirsi.

Si infilò un paio di jeans aderenti, le scarpe da ginnastica ed una lunga felpa sportiva con cappuccio; raccolse i lunghi capelli castani in una coda alta, sistemò velocemente davanti allo specchio la frangia con la punta delle dita ed uscì cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare il padre che dormiva nella stanza accanto.

L’auto era parcheggiata poco distante, salì e mise in moto: lo specchietto retrovisore le rimandò l’immagine di due occhi stanchi con profonde occhiaie.

Sospirò profondamente poi, ritrovata la concentrazione, fece manovra per immettersi in strada.

Fortunatamente il suo orario di lavoro bene si armonizzava con quello di ingresso a scuola degli studenti, permettendole così di trovare libere dal traffico le vie solitamente intasate del centro. Sulla Statale Tuscanese incrociò pochi mezzi e dieci minuti prima delle nove parcheggiò sul piazzale del centro di micronizzazione della Cooperativa Zootecnica Viterbese.

-Buongiorno bellissima! Cosa sarebbe questo posto se la mattina non venissi tu a renderlo splendente con la tua bellezza!- Armando, uno degli operai dell’azienda, la salutava in modo enfatico praticamente tutte le mattine: la presenza di Sara era per lui un’insolita quanto gradita novità in quell’ambiente prettamente maschile e le rendeva noto il suo apprezzamento ogniqualvolta le passava sotto tiro.

Piccolo di statura, Armando era molto magro, quasi ossuto, e faceva sfoggio di capelli brizzolati sicuramente un po’ troppo lunghi per un sessantenne. Pur essendo asciutto, la rotondità alta del suo stomaco denunciava la sua debolezza per il bere.

La prima volta che incrociò i suoi occhi svelti e porcini non le sembrarono molto rassicuranti ma dopo averlo conosciuto meglio Sara lo aveva facilmente schedato come inoffensivo non badando più ai suoi apprezzamenti, si era anzi venuta a creare tra loro una strana intesa, quasi di natura goliardica.        

-Buongiorno Armando- gli sorrise lei.

-Ti faccio questo popò di panegirico da giorni e tu mi rispondi sempre allo stesso modo…- le disse lui in tono scherzoso.

-Come dovrei salutarti allora?-

-Con un bell’abbraccio o un bacio…- ammiccò lui indicandole con il dito ossuto la guancia.

-Non credo che tua moglie ne sarebbe felice-

-Dopo trent’anni di matrimonio cosa vuoi che gliene importi…-

-Facciamo così allora… chiedo il suo consenso oggi quando viene a portarti il pranzo e poi vedremo cosa si può fare Armando… sei d’accordo?-

-Uhm… Credo sia opportuno lasciar perdere… potrebbe sentirsi offesa poverina…-

-Già…- gli sorrise divertita.

Questa scenetta si ripeteva quasi tutte le mattine, le battute potevano essere diverse ma il risultato a cui conducevano era sempre lo stesso.

-E’ pronto il furgone con il foglio degli ordini?- gli chiese Sara.

-Sì, vai da Germano che ti consegna tutti gli indirizzi- la guardò allontanarsi continuando a sorridere soddisfatto.

Sara entrò nel piccolo ufficio vetrato collocato nel capannone principale e trovò Germano impegnato in una animata conversazione telefonica: appena la vide la salutò con la mano e le indicò la cartella con i fogli.

Ricambiò il suo saluto poi prese le chiavi del furgone, gli indirizzi ed uscì.

Da circa venti giorni Sara lavorava in quell’azienda grazie ad un contratto interinale della durata di sei mesi in sostituzione di un uomo che si era recentemente operato: l’ennesimo impiego a tempo determinato che era riuscita faticosamente a trovare.

Si era inserita in quell’ambiente senza tante difficoltà, i colleghi erano stati tutti fin da subito gentili e disponibili con lei, inoltre il lavoro che svolgeva le permetteva di stare molto all’aria aperta. Le avevano affidato un servizio sperimentale finalizzato alla consegna a domicilio di mangimi e per il quale era necessaria una registrazione con i propri dati presso l’ufficio dell’azienda.

Sei mesi sarebbero volati e già valutava cosa fare successivamente.

Consegnò la merce senza problemi e rientrò in azienda verso mezzogiorno.

-Buongiorno Sara, scusa se stamattina non ti ho salutata come avrei dovuto ma ero a telefono… devono consegnarci questo pomeriggio dell’orzo che sarebbe dovuto arrivare dopodomani!-

Germano era il responsabile del centro ed un gran lavoratore, non aveva ancora compiuto cinquant’anni e da circa venti lavorava alacremente in quel luogo esposto ad ogni sorta di intemperie.

Era infatti perennemente abbronzato, anche ora in pieno inverno, eppure, nonostante la fatica, quel mestiere era fatto su misura per lui, lo confermava ogni giorno il suo aspetto gioviale e quieto.

Non passava di certo inosservato poiché svettava alto e solido su tutti, le sue mani grandi e forti avevano un non so che di rassicurante, sembrava possedere la capacità di affrontare anche un toro se necessario.

Sara aveva una grande stima di lui:

-Non ti preoccupare Germano, chiedo di preparare il furgone per le consegne del pomeriggio e poi faccio la pausa pranzo, se per te va bene-

-Certo, ormai sai quello che devi fare- fece lui soddisfatto.

Febbraio aveva fatto il suo esordio con un clima bizzarro e temperature piuttosto rigide però se era bel tempo Sara pranzava volentieri in auto con il cruscotto orientato verso il sole.

Ebbe modo proprio quella mattina di godersi il calore accumulato nell’abitacolo e trovò il tempo di prendere dalla borsa la sua inseparabile bic nera, il blocco liscio da disegno e ritrarre l’uomo del suo incubo.

Disegnava in modo veloce, infittendo la trama dei fili di inchiostro nelle zone d’ombra: la pratica di anni di quella consuetudine l’aveva resa sicura e rapida nei suoi ritratti.

La visione, ricca di particolari, le tornava alla mente a mano a mano che disegnava, l’incubo di quella notte prendeva forma:

l’immagine di un uomo con la testa rasata e con la barba scura e folta le si manifestò davanti non senza sentir scorrere un brivido freddo lungo la schiena.

Aveva un’espressione arrabbiata e furiosa, brandiva un coltello e pochi secondi dopo apparve il tatuaggio di un’aquila alla base del collo.

Attraverso gli occhi della vittima aveva visto quell’uomo infierire brutalmente e non aveva potuto fare altro che guardare impotente  quelle immagini senza suono come un film muto a cui solo lei aggiungeva le urla nel sonno.

Percepiva e registrava dentro di sé la forte scarica di adrenalina che pervadeva la vittima nel momento stesso in cui prendeva coscienza dell’imminenza della propria fine, era questo possente e vigoroso flusso di energia che stimolava e accendeva le sue visioni. Ma non funzionava con tutti.

Questa capacità si manifestava solo con alcune persone, neanche lei era riuscita mai a darsi una spiegazione, a capire perché accadesse. Le immagini si interrompevano non appena gli occhi della vittima cessavano di vedere.

L’inquietudine che Sara provava in quel momento le stava facendo tremare un po’ la mano ma il calore e la luce del sole la rincuoravano in quel penoso lavoro poiché costringersi a ricordare era un po’ come subire nuovamente quella stessa violenza.

La prima volta che accadde aveva circa cinque anni: la madre la ritrovò in un angolo della sua camera che urlava e piangeva.

Sara non dimenticò mai la paura che provò quella volta e soprattutto l’espressione di orrore che vide negli occhi della madre mentre le raccontava con parole di bambina quello che aveva visto nel suo incubo.

La povera donna si ritrovò infatti a dover affrontare la stessa situazione che aveva vissuto molti anni prima una sua carissima cugina. La ragazzina aveva cominciato a parlare con tutti dei suoi incubi, sicuramente in cerca di aiuto e di conforto, ma con il tempo le voci che presero a circolare su di lei furono quelle di una persona disturbata di mente e pericolosa.

Una situazione che non fu in grado di gestire da sola e che la indusse al suicidio a soli ventiquattro anni dopo un lungo periodo di depressione.

Per la madre di Sara fu comprensibilmente un duro colpo ritrovare nella figlia lo stesso dono, i tempi erano certamente diversi ma nella mente della donna il trauma di quella morte rimase indelebile e cercò in tutti i modi di salvare dalla stessa fine Sara.  

Le motivazioni della donna convinsero pure il padre a tenere nascosto a tutti il contenuto delle visioni della bambina per non esporla ai pericoli che potevano scaturire dalle sue rivelazioni. 

Ma con il fratello Sara non poteva mentire: quando era piccolo lo abbracciava stretto mentre piangeva in silenzio e quando poi crebbe la sua sensibilità le permise di poterci fare affidamento nei momenti di maggiore sconforto.

Mentre frequentava le elementari le visioni di Sara divennero più nitide e la madre le fece da subito capire come voleva che affrontasse quelle prove: non ne avrebbe dovuto parlare con nessuno, mai, per nessuna ragione, doveva comprendere quanto fosse necessaria una sorta di disciplina del silenzio, prima l’avrebbe compresa prima l’avrebbe protetta da se stessa e dai pericoli a cui inevitabilmente si sarebbe esposta.

Faticosamente Sara si abituò così a tenere tutto dentro evitando, se poteva, di informare persino i genitori del manifestarsi di una delle sue visioni.

Durante il telegiornale, da bambina, alcune volte rivedeva gli assassini dei suoi incubi ammanettati dalle forze di polizia ed incredula scappava a rifugiarsi nella sua camera ma quel modo di fare, quel nascondersi dal resto mondo, le cominciò a cambiare il carattere.

Era sempre più taciturna e silenziosa, faticava ad interagire con gli altri bambini e a scuola, durante la ricreazione, rimaneva semplicemente seduta sperando che nessuno si accorgesse di lei e la importunasse.

Il timore che potesse far trasparire in qualche modo il suo disagio la perseguitava costantemente.

Ciononostante era molto intelligente, tanto da non far preoccupare le insegnanti: la reputavano semplicemente più matura e consapevole rispetto alla sua età anagrafica e questo metteva Sara al riparo da qualsiasi sospetto sulla sua vita diversa e tormentata.

Con il tempo si fece più scaltra, aveva imparato quanto fosse importante controllare anche il contenuto dei suoi disegni scolastici non rappresentando mai cose raccapriccianti riguardanti i suoi incubi per non provocare domande da parte delle insegnanti: solo disegni di case colorate su colline verdi e laghetti pieni di cigni e pesci.

Intorno agli otto anni scoprì di avere un altro talento, quello di saper disegnare molto bene, e cominciò a fare di nascosto ritratti sempre più somiglianti e ricchi di particolari dei suoi incubi usando una semplice penna.

Nacque come un gioco sul bordo di una settimana enigmistica abbandonata dalla madre sul tavolo della cucina, poi passò ad usare fogli presi dalla stampante ed infine blocchi di album a fogli lisci.

Affinò le sue doti ritrattistiche frequentando il liceo artistico ma lo stimolo al disegno che le dava una semplice biro non riuscì a trovarlo in nessuna altra tecnica pittorica studiata durante quegli anni.

Divenne poi una consuetudine abbinare il ritratto con il nome della vittima o del caso su cui le forze dell’ordine indagavano: nella sua camera una cartellina con i lacci raccoglieva anni di raccapriccianti immagini di crimini e criminali.

Si accorse di aver dimenticato di portare l’acqua da casa, posò il disegno sul lato passeggeri e scese dall’auto: non la chiuse a chiave, ci avrebbe messo un attimo a prendere una bottiglietta dal distributore automatico vicino l’ufficio e tornare.

Mentre si allontanava sopraggiunse una vecchia toyota hilux grigia, l’uomo alla guida parcheggiò accanto all’auto di Sara sul lato passeggeri, scese e si ritrovò sotto gli occhi il disegno a penna.

Appena lo vide trasalì e per un attimo gli si gelò il sangue.

Si era riconosciuto, l’aquila alla base del collo lo confermava, era lui che brandiva il suo coltello: per un attimo quasi barcollò, non udiva più nulla dei suoni attorno a sé, era completamente assorbito dall’immagine che vedeva ma che non era in grado di spiegare. Aprì lo sportello e come ipnotizzato prese l’album con il disegno per guardarlo meglio. Qualcuno lo aveva visto quella notte uccidere? Stava forse avendo un’allucinazione? Sentì delle voci farsi vicine, il panico lo colse, gettò l’album sul sedile e richiuse lo sportello. Salì velocemente in auto e si diresse all’uscita: il terrore che l’autore di quel disegno potesse riconoscerlo lo costrinse ad alzare sulla testa il cappuccio del giacchetto.

Imboccò l’uscita principale e non tornò più.

Sara ritornò e si sedette al posto di guida ma rimase sorpresa nel constatare che qualcosa era cambiato da come lo aveva lasciato: la penna era sul tappetino ed il suo album era stato spostato. Inizialmente pensò preoccupata che qualcuno lo avesse preso per guardarlo poi si convinse di averlo inavvertitamente mosso lei stessa mentre prendeva la borsa tra i sedili.

Ritrovata la calma terminò gli ultimi particolari del disegno e anche se non aveva più fame si costrinse a finire di pranzare.

Gettò uno sguardo all’orologio del cruscotto, doveva ritornare a lavoro: posò l’album, chiuse a chiave l’auto e raggiunse il furgoncino per le consegne.

 

   
 
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