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Autore: Ksyl    21/01/2020    2 recensioni
Dopo il week end negli Hamptons, Kate Beckett rimane incinta a sorpresa: la loro coppia recentemente formata riuscirà a superare lo sconvolgimento delle loro vite? Seguito di "Un colpo di testa"
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Seconda stagione
Capitoli:
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3

Beckett

Dopo che Castle se ne fu andato, lasciandola sola – si era incredibilmente convinto in fretta, senza insistenze da parte sua - rimase a lungo seduta a fissare il vuoto.
In un ultimo tentativo di fare qualcosa di utile e scacciare dalla sua mente ipotesi moleste che Castle ci aveva cacciato dentro a forza, cercò di concentrarsi su date e numeri che lei stessa aveva scritto sulla lavagna, senza riuscirci. Tutto si dissolveva davanti ai suoi occhi, non era in grado di concentrarsi su niente.

Nel suo lavoro si doveva essere capaci di chiudere le emozioni in un cassetto per mettersi a disposizione dell'altro, delle vittime e delle loro famiglie.
Solo se riusciva a creare il vuoto dentro di sé poteva avvicinarsi a loro e aiutarli concretamente. Avevano bisogno di fatti e di giustizia ed era compito suo fornirglieli. Con il tempo questo modo di agire era diventato automatico: prendere le distanze, anestetizzarsi dalle emozioni, essere lucida anche quando il mondo sembrava andare in frantumi. Ed era qualcosa che funzionava soprattutto nella sua vita personale. Non era sano, ma la faceva andare avanti.

In questo momento di totale disorientamento, niente di quello che aveva imparato era in grado di aiutarla. Non riusciva a spostare quel pensiero ossessivo in un angolo della sua mente, dove non avrebbe potuto farle del male. Non riusciva a neutralizzarlo, come era invece sempre stata capace di fare.
Non voleva cedere alla stanchezza, perché non voleva ammettere nemmeno a se stessa che quello potesse essere un sintomo, ma si sentiva esausta. Non osava nemmeno guardare il proprio corpo per non vedere, improvvisamente, un'estranea.

Passò molto tempo immobile, seduta sul bordo della scrivania, la testa china e le braccia incrociate davanti al petto. I pensieri erano confusi e volavano via prima che riuscisse ad afferrarli.
A un certo punto, però, il buon senso e un po' dell'antica determinazione, che sembravano averla abbandonata, le vennero in soccorso.
Doveva agire. Era sempre stata brava a farlo. Era inutile figurarsi una realtà più spaventosa di quella che, sicuramente, era. Non era da lei rimanere passiva temendo gli eventi. Raccolse tutte le sue cose, prese la borsa, spense le luci e uscì nella notte.

Salì in macchina e, dopo un breve istante di smarrimento in cui tenne le mani sul volante senza riuscire a muoversi, si scostò i capelli dal viso, si fece forza e mise un moto.
Il traffico a quell'ora della notte era scorrevole, e, così, dopo averne impostato la ricerca sul navigatore, raggiunse in fretta un supermercato aperto tutto la notte.
Dicendosi che prima avesse affrontato la situazione e prima si sarebbero potuti mettere quell'assurda storia alle spalle, entrò e vagò tra gli scaffali, insieme ad altri animali notturni come lei.
Trovò quello che stava cercando e, sentendosi come se avesse una grossa freccia sulla testa a indicarla, afferrò qualche scatola a caso, senza neppure leggere le etichette. Del resto non sapeva nemmeno quale marca fosse la migliore o come funzionasse la procedura.
Era presto? Era tardi? Doveva fare le analisi? Doveva chiamare il suo medico?
Calmati, si disse. Stai correndo troppo. Fai questo dannato test il prima possibile e presto tutto sarà finito.
Con la sensazione che tutti la stessero fissando, si avviò verso la cassa, dove depositò il malloppo con una certa apprensione.
Smettila. Ti stai comportando come se stessi comprando droga sottobanco. Lo fanno tutte le donne, almeno una volta nella vita. Lei no, a dire il vero, ma questo perché era una persona responsabile e, come tale, infatti, non poteva essere... non poteva essere quella cosa che diceva Castle.
E del resto lui era un uomo, come poteva saperne più di lei? Di sicuro come donna doveva sentirlo, no? Doveva scendere su di lei una specie di... di consapevolezza superiore, ecco. Non glielo doveva comunicare qualcuno da fuori. Se lei non sentiva niente – perché di fatto era proprio così - era perché non c'era niente da sentire.
Era la natura. Doveva attivarsi qualcosa che le faceva immediatamente venire voglia di piangere davanti a pagliaccetti e biberon, no? Non avrebbe dovuto commuoversi alla vista di neonati nella culla? A lei non stava accadendo niente di tutto questo, quindi era salva. I suoi ormoni erano saldi e gli stessi di sempre.
Castle si sbagliava. Probabilmente si trattava di una sua proiezione, di un desiderio inespresso, ma lei non voleva sapere niente dell'inconscio altrui e della voglia di paternità della gente. Stava bene così com'era.

Arrivò a casa, molto più calma di quando era uscita dal distretto, convinta ormai di aver sbagliato a dar retta alle fantasie sfrenate di Castle, che l'avevano inutilmente spaventata, ma che erano di fatto solo fantasie, pure e semplici. Così tipiche di lui. Anzi, proprio sapendo che venivano da lui, avrebbe dovuto evitare di farsi coinvolgere in questo modo. Lui esagerava, sempre. La CIA, giusto? Ecco, stavamo parlando di una persona del genere.
Allineò i test che aveva comprato sul tavolo della cucina, prima di andare a farsi una doccia senza degnarli di uno sguardo.
Quando si tolse la camicia non poté fare a meno di dare un'occhiata veloce verso il basso.
Era tutto come prima. Era la stessa di sempre. Nessun cambiamento in vista.
Evitò di asciugarsi i capelli, tanto faceva abbastanza caldo da non prendersi un malanno, indossò le prime cose pulite che pescò nel cassetto e infine si lasciò cadere sul divano, decisa a ignorare a tutti i costi le sirene che tentavano di adescarla dal tavolo.
Non avrei dovuto comprarli, si disse. Adesso li metterò in un cassetto e li terrò come monito per la prossima volta in cui Castle tenterà di convincermi di qualche stramba teoria delle sue.
Ma non poteva fare a meno di voltarsi inquieta per dare rapide occhiate dietro di sé.
Che cosa temo che mi facciano? Che mi tendano un agguato?
Aveva voglia di bere qualcosa di forte. E a questo pensiero spalancò gli occhi. Aveva bevuto alcolici nell'ultimo periodo? Preso medicine? Fatto qualcosa di tremendamente sbagliato, senza saperlo?
Smettila, si disse per l'ennesima volta. Puoi bere quanto vuoi, al massimo danneggerai il tuo fegato e nient'altro.

Provò a distrarsi, ma fu impossibile. In preda all'esasperazione, non riuscendo più a fare finta di niente, si alzò grugnendo, li prese in mano, cercò il telefono nella borsa e, adirata con se stessa per essere tanto suggestionabile, richiamò il numero di Castle.
Lui rispose al primo squillo, come se non stesse aspettando altro.
"Sono io", si presentò, come se fosse necessario.
"Kate", rispose preoccupato e insieme sollevato.
"Puoi... venire qui?", chiese passandosi una mano tra i capelli, stringendoli in un nodo che si scompose appena li lasciò andare.
"Arrivo subito", le promise. Lei sentì dei rumori in sottofondo, indovinò che stava prendendo le chiavi e sentì sbattere la porta di ingresso. Il tutto nel giro di qualche secondo, come se fosse pronto da ore.
"Castle... è tardi e magari stavi già dormendo, non so neanche che ore siano. Forse è meglio se ci vediamo domani per... parlarne?", propose improvvisamente pentita di avergli chiesto di raggiungerla.
Lui tagliò corto davanti alle sue scuse e la congedò con un fugace: "Dammi il tempo di arrivare", e di colpo il telefono fu muto. Lo fissò adirata per un istante, prima di lanciarlo sul divano, abbandonandosi contro i cuscini.

Doveva essersi addormentata, perché, quando Castle suonò il campanello pochissimo tempo dopo, si svegliò di soprassalto, disorientata. Si alzò ancora intontita e andò ad aprire la porta. Vederlo le diede un'immediata sensazione di inaspettato sollievo che la indusse a protendersi verso di lui.
Castle allungò le braccia in automatico e lei si abbandonò contro il suo corpo, permettendosi di ricevere il suo sostegno. Era grata di non essere da sola, nonostante fosse stata convinta del contrario.
Lui la baciò tra i capelli, cullandola. Avrebbe voluto rimanere così per sempre, ma presto la realtà fece capolino e lei si scostò per lasciarlo entrare. C'erano cose più importanti da affrontare.

Gli indicò i test che non si erano mossi da dove li aveva abbandonati. Lui li guardò, sorrise, e poi estrasse un sacchetto dalla tasca della giacca e ne allineò il contenuto sul tavolo. Li fissarono entrambi.
"Credi che potremmo vendere al mercato nero quelli che ci avanzano? I tuoi sono più colorati, dove li hai trovati?", commentò ridacchiando e lei, a un tratto, pensò che forse questa situazione non era il dramma che si era convinta sarebbe stato. Era il classico effetto che Castle le faceva sempre.

Lo fece accomodare sul divano. Non ancora pronta a sapere la verità ed era intenzionata, prima, a fargli un discorso.
"Voglio solo precisare che sono più che convinta che la tua ipotesi sia assurda. Ma siccome non ti convinceresti in altro modo, ho deciso di essere molto, molto ragionevole e di fare un unico test che ti dimostri l'insensatezza delle tue insinuazioni. Promettimi che, dopo stasera, non ne parleremo mai più", lo informò in tono solenne.
"Se è negativo", obiettò Castle. "Non ne parleremo più solo se è negativo".
"Lo è senz'altro", lo contraddisse Kate, senza lasciare spazio a nessun'altra possibilità.
"D'accordo", acconsentì Castle diplomaticamente. "Quindi lo farai subito? È il grande momento?"
Lei lo guardò smarrita e frustrata al tempo stesso.
"Castle, non so neanche come funziona!", sbottò con una nota di panico nella voce.
"Dai, Beckett, non dirmi che...".
"No".
"Ma..."
"Non andare neanche avanti con il discorso!"
"Ok. Vuoi che ti... spieghi?"

Ci mancava solo questo.
"No, grazie", rifiutò. "Ho letto le istruzioni e più o meno ho capito. So che sarebbe meglio farlo domani mattina, ma non intendo aspettare per ore, non se ne parla", sentenziò. Si alzò in piedi. "Adesso vado di là, ci leviamo il pensiero e poi andiamo a dormire. Va bene?".
Si mosse per recuperare tutti i test a loro disposizione e si diresse verso il bagno. Castle si alzò per seguirla, ma lei lo fermò sulla soglia.
"Dove credi di andare?", gli chiese sospettosa.
"Vengo con te, facciamo il test insieme", le spiegò come se fosse la cosa più normale del mondo.
"No. Tu non mi guarderai fare pipì sopra un bastoncino", affermò con decisione, prima di chiudergli la porta in faccia.
"Beckett, se questa cosa ha un futuro, dovrai rivedere le tue aspettative sulla privacy", replicò, alzando la voce per farsi sentire.
"Castle! Non sei di aiuto!", gli gridò da dentro.

Castle

Castle si rassegnò a sedersi sul pavimento, appoggiato contro la parete. La sentì muoversi e, dopo un tempo di attesa che gli sembrò infinito, la porta si aprì e lei ricomparve. Si lasciò scivolare esausta accanto a lui, la schiena contro il muro e le loro teste vicine fino a toccarsi.
"Quindi?", chiese Castle al colmo dell'impazienza. Come era possibile che non gli svelasse il responso?
"Non ho guardato. Ho solo... fatto".
"E adesso stiamo qui ad aspettare che mettano radici e diano frutti?".
"C'è bisogno di un po' di tempo, no? Non c'è tutta questa fretta. Non scappano".
Rimasero in silenzio. Si sentiva solo il ticchettio di un orologio, da qualche parte nell'appartamento, che lo stava facendo impazzire.
"Hai mai immaginato che saremmo finiti in una situazione del genere?", gli chiese affranta dopo qualche tempo.
Lui fece una pausa, incerto su come rispondere. Doveva dire la verità? Era meglio tergiversare?
"Castle!", esclamò lei in preda all'orrore, scostandosi da lui. Lo sapeva, avrebbe dovuto mentire. "Era una domanda retorica! Quando avresti pensato a... questo? O forse la domanda giusta è 'Perché'?".
"Scrivo libri su di te. È il mio lavoro... immaginarti", cercò di difendersi. Sì, ci aveva pensato. Non era un crimine.
"E, quindi, immaginandomi, eri arrivato a questo esatto scenario?"
"Sai una cosa? Dovremmo finire qui il discorso, prima che cominci a degenerare", balbettò, perdendo di forza sotto al suo sguardo vitreo.
Ancora silenzio. Ancora attesa.
"Quanti ne hai fatti?", si informò, più per dire qualcosa che per reale interesse.
"Tutti".
"Tutti? Direi allora che il primo è pronto!"

Era agitato. Poteva fare finta di no per non esasperare la situazione prossima al putiferio, ma non poteva nascondere una certa ansia. Sapeva già la risposta. Puro istinto. L'aveva capito non appena le aveva proposto di fare il test, quel pomeriggio.
"Puoi smettere di essere così precipitoso, calmarti un attimo e aspettare... i tempi?".
"Va bene". Sarebbero rimasti in eterno ad aspettare e lei nel frattempo avrebbe partorito, proprio su quel pavimento. Si tenne per sé quelle che lei avrebbe definito farneticazioni.
Un'altra pausa. Di nuovo silenzio. Non riuscì a trattenersi. Era prossimo allo sfinimento, voleva sapere la verità.
"E quanto dovrebbero durare questi tempi?"
"Castle!", lo zittì al colmo dell'esasperazione.
Dopo aver passato qualche altro minuto a fissare le mattonelle del pavimento, anche per lei la misura fu colma. "Basta, non ce la faccio più, devo saperlo!"
"Grazie al cielo, pensavo di dover star qui tutta la notte!", rispose balzando in piedi. Lei non si mosse dalla sua tana.
"Non vai a prenderli?", le chiese sorpreso.
"No, vai tu", rispose faticando a trovare la voce.
"Tu non vieni?"
"No. Ti aspetto qui".
"Per precisare meglio la questione, vuoi che vada dentro a prenderli, o posso anche guardare? Non vorrei che poi, in futuro, io venissi colpevolizzato per...".
"Castle", lo interruppe irata. "Vuoi anche girare un video per immortalare l'evento?!"
"Posso farlo?", volle sapere lui, già rallegrandosi dell'idea e pronto a recuperare il telefono. Non si poteva certo dire che la sua brillantezza fosse al massimo della forma.
"Certo che no! Vai dentro, prendi quei dannati test e facciamola finita", gli ordinò.

Lui entrò, lasciando la porta aperta, si avvicinò al lavabo e, cercando senza successo di soffocare l'ansia, ne prese in mano uno. E poi due. E poi tutti.
Si diede una lunga occhiata allo specchio – stentò quasi a riconoscersi -, si fece forza e uscì, ostentando una certa calma, a suo beneficio.
Si sedette di nuovo al posto di prima, senza dire niente. Il cuore gli batteva all'impazzata, ma da fuori doveva sembrare tutto normale.
"Sei pronta?", le chiese dolcemente, coprendole una mano con la propria.
Lei si stava tenendo la testa tra le ginocchia e il "No" che le uscì fu a malapena udibile.
"Allora mi metto qui e dimmi tu quando..."
"Dimmelo!", gli ringhiò addosso.
"Ok. Kate", iniziò, prima di fermarsi per fare una pausa a effetto. "Avremo un bambino!", le comunicò facendo finalmente esplodere l'entusiasmo che aveva cercato di trattenere davanti a lei. Avrebbero avuto un bambino. Un bambino tutto loro.
Lei lo guardò ammutolita, emise un gemito, si prese la testa tra le mani e infine si pronunciò con un lugubre: "Mi viene da vomitare".
Le scostò i capelli dalla fronte. "È tornata la nausea? Perché non provi le liquirizie? Ho letto in un sito che funzionano... Mi sono fermato a prenderle, prima di venire qui", le comunicò, sollecito. Al loft, incapace di rilassarsi, aveva fatto qualche ricerca. Per portarsi avanti.
"Metaforicamente", puntualizzò Kate con voce tagliente.

Le accarezzò la mano. Doveva solo riprendersi dallo shock. La capiva, anche lui era sconvolto. Felice, certo, ma completamente sottosopra.
"Ma... come?", riuscì soltanto a dire dall'oltretomba. "Come è successo?".
"In quanto a questo, presumo nel modo classico", le rispose con una nota divertita nella voce. Voleva farla ridere, c'era da festeggiare. O no?
"Sì, ma... proprio per questo è impossibile. Saranno falsi positivi. È uscito per tutti lo stesso risultato?"
Cominciò a realizzare che lei non aveva nessuna voglia di scherzare. Forse erano gli ormoni. Sperò che si trattasse di quelli.
Lui li guardò attentamente, uno dopo l'altro, fermandosi solo verso la fine. "Uhm, credo che questo non sia del tutto chiaro".
"Davvero? Quale?". Kate alzò la testa di scatto, aggrappandosi alla minima speranza.
"No, scherzo. Guarda. Tutti positivi". Glieli mostrò pieno di orgoglio.

Da lei non venne la reazione che si aspettava. A quel punto c'era decisamente qualcosa che non tornava. Tornò serio, rendendosi conto che non si trattava solo dello shock per la notizia sconvolgente. C'era qualcosa di più. Kate era fuori di sé e non in senso positivo. Non che lui non si sentisse infilato a forza in una centrifuga di dimensioni notevoli, ma ne era felice. Lui ci credeva, alla magia della vita. Stava solo prendendo una direzione imprevista, o forse solo anticipata, ma era convinto, grazie al suo innato ottimismo, che sarebbe andato tutto bene. Dovevano solo abituarsi all'idea. Si amavano, no? O, almeno, lui l'amava. Lei... era sulla buona strada, ne era convinto.
Ma in quel momento la sentiva così lontana da non riuscire a raggiungerla, e, anzi, aveva la sensazione che si stesse aprendo sotto ai loro piedi un vuoto che non sarebbe stato possibile colmare.

"Kate", la scosse piano per costringerla a tornare alla realtà. Era rimasta immobile, impietrita.
"Andrà tutto bene...", cercò di rincuorarla, con il bisogno di dire qualcosa, qualsiasi cosa, per farla uscire dal torpore.
"Non andrà tutto bene, Castle. Non va tutto bene. Non usare queste frasi fatte con me".
Castle quasi si ritrasse fisicamente, colpito dalla veemenza della sua risposta. Era più grave di quello che pensava. Non era solo sconvolta. Era peggio. Non volle dirsi quanto.
"Ok, non va bene, ma..."
"Niente 'ma'. È la cosa peggiore che mi potesse capitare. Che ci potesse capitare", continuò furente.
"È un bambino, non un drago", provò ad alleggerire la situazione, per venirle incontro.
"Preferirei fosse un drago", fu la replica asciutta.
Forse parlare non era stata una buona idea. Rimase zitto.
"Non pensi alla mia carriera? Non pensi che sia già stato un azzardo iniziare a frequentarci? Non pensi che distruggerà tutto? Me, noi? Come possiamo sopravvivere a un colpo del genere?".
Dire che non l'aveva presa bene era l'eufemismo del secolo, ma gli sembrò che stesse deragliando senza motivo. Non era una condanna a morte. Provò a inserirsi nell'effluvio di previsioni apocalittiche, per fermarle, ma non glielo permise.
"Io non sono pronta, Castle. Non sei pronto nemmeno tu. È una cosa che si deve scegliere, non deve arrivare per caso. Soprattutto a due adulti. I bambini meritano di essere voluti, desiderati".

Lui sentì dei freddi rintocchi che gli gelarono il sangue quando cominciò a intuire quale sarebbe stato l'epilogo di tutte queste lamentele, messe in fila una dopo l'altra, senza spazio per la speranza. Per il futuro.
Decise di farle un favore e tirò fuori l'indicibile. Tremò nel farlo.
"Tu non lo vuoi", disse sconsolato. Lei non voleva il loro bambino. 
"No". Non era una risposta. Era una sentenza.
Si sentì precipitare su un pianeta freddo e ostile, e la sensazione di vuoto si allargò dentro di lui. Era un vuoto così grande che sentiva fischiare il vento.

Fece un respiro profondo. Doveva rimanere lucido a ogni costo o le cose sarebbero peggiorate, se era perfino possibile.
"Lo sai che non sei da sola in questo, vero? Qualsiasi cosa deciderai...", gli cedette la voce per un attimo, ma fu pronto a recuperare. "Sarò dalla tua parte, sempre".
Kate lo guardò negli occhi. Gli sembrò che fosse cambiata nel giro di pochissimo. Non un'estranea, non ancora. Era solo diversa, lontana.
"Sai come finirà se decido di non averlo, vero?", sorrise amaramente."Finirai con l'odiarmi".
"Kate", le passò un braccio sulle spalle, e la fece appoggiare contro di sé, baciandola sulla fronte. Era infinitamente stanco. E triste, per entrambi. Per tutti e tre, anzi.
"Non potrei mai odiarti", le sussurrò a bassa voce, sentendo che questa era la verità, nonostante l'acuta sofferenza che la sua scelta gli stava provocando.
"Tu vuoi il bambino". Non era una domanda. Non poteva negarlo.
"Sì, lo voglio", mormorò al colmo dell'infelicità. "Ma voglio di più te". E, per quanto fosse spaventoso anche per lui ammetterlo, era proprio così.
Non poteva vivere senza di lei. Per nessun motivo. Soprattutto per un motivo che era piombato nelle loro vite senza averlo programmato, su questo aveva ragione. Avrebbe preferito anche lui che fosse andata diversamente. Ormai, non era più importante.

"È tardi. E' stata una lunga giornata. Perché non cerchi di riposare? Andiamo a dormire". Le si approcciò con delicatezza, come se temesse di romperla. Anche se quello rotto era lui.
"No", rispose Beckett, ancora con il viso nascosto nel suo collo. "Non voglio dormire e non voglio pensarci. Voglio rimare qui, con te".
Cambiò posizione, appoggiando la testa sulle gambe di lui, rannicchiata sul pavimento.
Lui le accarezzò i capelli, guardando il soffitto sopra di sé. Rimasero a lungo senza parlare.

   
 
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