11 Castle
Castle era seduto in corridoio, da solo. Aveva consegnato, tremando, una Kate ancora incosciente agli addetti del pronto soccorso, riuscendo solo a informarli, mentre la portavano via, che era incinta, di quante settimane e che era finita in mezzo a una sparatoria.
L'avevano guardato con sospetto, e prima che si precipitassero a far intervenire un agente, aveva aggiunto che la polizia era lei. Non era la cattiva. Così come non lo era lui.
Da allora aveva atteso fissando le proprie scarpe. Si era alzato. Si era seduto di nuovo. La sedia era scomoda, il reparto troppo caldo, la gente rumorosa. Gli tremavano le mani. Non riusciva a recuperare il telefono. Doveva avvisare qualcuno? Avrebbe dovuto? Era una cosa... grave? Voleva che uscissero a dirgli qualcosa. Non voleva che uscissero a dirgli che uno dei due stava male. Entrambi. Beckett. Soprattutto Beckett.
Esposito e Ryan arrivarono di corsa. Non aveva risposto alle loro telefonate. Non ne era stato capace.
"Castle, che cosa è successo? Come sta Beckett?", chiese Esposito, molto agitato.
"Non lo so. Non ho ancora saputo niente".
"Ok, ma che cosa è successo?", insistette l'altro. "Non è stata colpita, gli spari non erano nella sua direzione e tu hai messo Lockwood fuori combattimento", ricostruì.
Castle sembrò tornare lentamente alla vita.
"Quindi... non è ferita?", chiese con uno sguardo allucinato.
"No. Non te ne sei accorto? Non perdeva sangue".
No, non ci aveva fatto caso. Aveva cercato febbrilmente delle ferite, quello sì, per poterle tamponare, ma non era abbastanza in sé per capire la gravità della situazione. Era stato troppo impaurito dal pensiero che potesse perderli entrambi. Lo era ancora. Non voleva concedersi il lusso di convincersi che si fosse trattato di una sciocchezza.
"Ma questo non spiega cosa le è successo", intervenne Ryan. "Ha perso i sensi? Così semplicemente? Deve esserci un motivo".
Castle era troppo provato per tenersi dei segreti. Fingere, sviare la conversazione. Era stanco dei sotterfugi, stanco di tutto. Stanco si sentirsi sempre sull'orlo della fine.
"È incinta. Ecco perché è stata male. Deve aver avuto un mancamento, se è vero che non è stata ferita", ammise per la prima volta ad alta voce a qualcuno che non fosse lei o se stesso allo specchio.
"Che cosa?!", si meravigliarono all'unisono gli altri due. Uno molto più dell'altro.
"Come incinta?!". Esposito si imbizzarrì. Una reazione decisamente sopra le righe.
"Non sapevo che vedesse ancora Demming", si stupì Ryan, che aveva preso la notizia con più tranquillità.
"Non fare l'idiota", si adirò Esposito. "Non sta con Demming. Lui esce con un'altra", lo zittì.
"Ok. Non sta con Demming. Starà con qualcun altro", concluse Ryan, piuttosto indifferente.
"Come fai a non capire?", lo interruppe fuori di sé Esposito.
"Che cosa c'è da capire? È adulta. Sono cose che capitano", provò a calmarlo il collega.
"A lei non capitano. Va bene? Io vorrei proprio incontrare quel coglione che..."
"Sono io. Quel coglione sono io", si inserì Castle, per farli smettere. Potevano fare silenzio? Potevano... andarsene?
Il pugno gli arrivò diritto e deciso sulla tempia, così inaspettato da non fargli provare dolore, almeno all'inizio.
Seguirono momenti concitati, Ryan urlò qualcosa all'indirizzo del suo collega, fermandolo e trattenendolo. Castle lo guardava sbigottito. Non aveva reagito. Non poteva certo mettersi a fare una rissa con quello che credeva un amico, dentro a un pronto soccorso.
"Sei impazzito?", inveì Castle, toccandosi cautamente la parte dolorante. "Che cosa ti salta in mente?!".
"Dimmelo tu. Come hai potuto lasciare che una donna incinta si mettesse in una situazione del genere?!", lo accusò.
"Espo, quale versione di Beckett conosci? Quella che fa di testa sua, sempre e comunque, o quella che accetta di fare quello che le dice qualcun altro, se pure pieno di buone intenzioni? È ovvio che non doveva succedere ed è altrettanto ovvio che ho provato a fermarla. Ma non ci sono riuscito", gli spiegò Castle, cercando di frenarsi, mentre dentro ribolliva di rabbia. Era al colmo dell'esasperazione.
"E che cosa significa? State insieme o è stata la storia di una notte e tu l'hai messa nei guai?". Esposito aveva un tono così aggressivo che stava rischiando davvero di fargli perdere il controllo. Non adesso.
"Non l'ho 'messa nei guai'. E, se permetti, il come e quando sono affari nostri. Adesso, se non ti spiace, non so nemmeno se mio figlio...", scandì bene le ultime due parole, "Stia bene o se sia ancora vivo. Per non parlare di...", della donna che amo, "Beckett", concluse. Argomento chiuso. Chi gli dava il diritto di giudicare una situazione che non conosceva?
Ryan convinse Esposito ad andarsene, nonostante l'altro fosse ancora furente e volesse continuare a discutere. E non con toni civili.
"Ci fai sapere come va? Più tardi, magari?", lo pregò, gentilmente. Castle annuì, grato per la manifestazione di solidarietà.
Ricominciò ad aspettare. Da solo. Malconcio e sofferente.
Quando era ormai convinto che sarebbe morto su quella sedia, lo informarono che l'avevano portata in un altro reparto e che lo stavano aspettando.
Corse sulle scale, nonostante il dolore martellante, con il cuore che gli batteva a mille.
Quando raggiunse il luogo indicato, una porta si aprì davanti a lui.
"Signor Castle, è un piacere rivederla. Venga pure", lo invitò giulivo il giovane ginecologo di Kate. Di nuovo lui? Non potevano far lavorare persone con dei titoli adeguati in un posto serio come quello?
Dietro di lui, intravide Kate seduta sul lettino che si stava rivestendo. Invaso dal sollievo, oltrepassò il medico senza tante cerimonie, andò da lei e la fissò un attimo, prima di prenderla tra le braccia e stringerla forte. Era viva. Almeno lei era viva. E stava bene, da quello che gli sembrava di capire. Non era ferita, non era priva di sensi. Era sveglia e sembrava normale.
Aveva bisogno di sentirla. Di respirarla. Gli serviva un istante in cui ricomporre un mondo in cui lei era viva, di farlo accettare a tutte le cellule del suo corpo, ancora prima che alla sua mente. Doveva convincersi che era dalla parte giusta del bivio, quella in cui in cui lei esisteva ancora nel suo stesso universo fisico. Forse stava esagerando. Ma il continuo timore degli ultimi tempi lo aveva portato a reagire senza filtri o buonsenso. Doveva apparire ridicolo, ma non gli importava.
Lei si lasciò abbracciare, senza muoversi né parlare, forse consapevole del messaggio che trapelava dai suoi gesti.
Castle si riscosse, la lasciò andare e alzò la testa.
"Stai bene?", le chiese concitato, scrutandola attentamente. "State bene?" le ripeté. Plurale. Si rivolse al medico, che aveva preferito rimanere in silenzio: "Stanno bene?" Passava da uno all'altra senza aspettare la risposta, in trance.
"Castle, vuoi fare tutta la coniugazione del verbo?", lo prese in giro Kate, apparentemente tranquilla. Lei.
"Stanno bene", lo rassicurò il medico. "E, se dovesse interessarle, sto bene anche io".
Molto divertente. Lui era quasi morto di paura e loro... che cosa avevano fatto? Dato un party?
Il medico uscì, chiudendosi la porta alle spalle, lasciandoli soli.
Lei lo guardò con attenzione, accorgendosi solo in quel momento del gonfiore intorno all'occhio: "Che cosa hai fatto nel frattempo? Ti sei unito a una gang?", volle sapere, sbalordita. Non reagì al suo tentativo di fare dell'umorismo. "Ne parliamo dopo", tagliò corto.
Il medico tornò presto portando con sé un fascio di fogli, prese uno sgabello di metallo e si accomodò di fronte a loro. Non aveva più l'espressione giuliva che Castle aveva sempre trovato irritante. Il cambiamento non gli piacque.
"Kate, ho i risultati delle analisi", esordì con tono grave. "Assume correttamente le vitamine che le ho prescritto?".
"Sì, certo", rispose precipitosamente Castle al posto suo. "Beckett, diglielo anche tu che le prendi".
"Le prendo", confermò lei asciutta.
"Le darò qualcosa di più specifico", decise laconicamente il giovane medico, scrutandola per un momento e cominciando a scrivere.
Kate si mosse a disagio, cambiando posizione. "C'è qualche problema? Va tutto bene?".
Castle si irrigidì accanto a lei.
"Riesce a riposare abbastanza? Si nutre adeguatamente?", si informò il medico in tono neutro.
Castle cominciò ad agitarsi, in preda a una morsa gelida, che stringeva sempre di più. Perché le faceva tutte quelle domande? Il bambino non stava bene?
"Sì, certo. Ho un lavoro impegnativo, ma è la solita routine", rispose cauta.
"Sei finita in mezzo a una sparatoria", le ricordò Castle con voce seccata, rivolgendosi direttamente a lei e intervenendo dopo un lungo silenzio.
"È uno dei rischi del mio lavoro, niente di straordinario", spiegò lei con calma, senza reagire alla provocazione.
"Forse dovrebbe rivedere le sue mansioni in questo periodo", le consigliò il medico, senza giudicarla. "Quali sono le regole del dipartimento?".
"Perché? C'è qualcosa che non va?". Castle voleva delle risposte. Basta convenevoli. Che dicesse una volta per tutte quello che doveva dire, invece di fare domande basta.
"Niente di grave. Il bambino non ha subito dei danni. Alcuni valori delle analisi però sono alterati. E il bambino non cresce secondo i parametri. È molto stressata?" Tornò a rivolgersi direttamente a Kate. "Il valore del cortisolo sembrerebbe indicare di sì".
"Non so neanche che cosa sia, il cortisolo", sbottò Castle.
"È quello che comunemente chiamiamo 'Ormone dello stress'. Gli studi dimostrano che è direttamente collegato allo sviluppo del feto in gravidanza. In sostanza, deve solo stressarsi di meno".
Castle lo guardò atterrito, mentre Kate era ancora lontana, assente.
"Non c'è niente di cui allarmarsi. Basta che Kate cerchi di rilassarsi e riposare di più e che conduca una vita più tranquilla, se possibile".
"Io...", Kate tornò finalmente alla realtà. "Pensavo di poter fare la mia solita vita. Non è così che mi ha detto durante la prima visita? Che la gravidanza non è una malattia e di non viverla come tale? Dovrei smettere di lavorare?", chiese con voce ansiosa.
"È così, infatti. Ma il corpo subisce delle trasformazioni e bisogna assecondarlo. Non remare contro. Non deve smettere di lavorare, non per il momento. Cerchi di non finire in una sparatoria, almeno", concluse, cercando, senza riuscirci, di alleggerire la tensione.