Serie TV > Castle
Segui la storia  |       
Autore: Ksyl    31/01/2020    3 recensioni
Dopo il week end negli Hamptons, Kate Beckett rimane incinta a sorpresa: la loro coppia recentemente formata riuscirà a superare lo sconvolgimento delle loro vite? Seguito di "Un colpo di testa"
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Seconda stagione
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

14 Castle

Tornò a casa stanco e distrutto dopo il loro acceso confronto.

Si era aggirato inebetito a lungo per le vie di New York, sentendosi come l'unico superstite di una battaglia apocalittica che aveva distrutto il pianeta. Non si era accorto delle persone che gli erano passate accanto, non era stato consapevole del traffico, a malapena era riuscito a non barcollare, schiacciato da un peso che faticava a sostenere.

Chiuse la porta, si tolse la giacca e si lasciò andare sfinito sul divano, prendendosi la testa tra le mani.

Girarle le spalle e andarsene era stata la cosa più difficile che avesse mai fatto, a ogni passo sentiva una lama puntata nelle viscere affondare sempre di più.
Aveva ragione Kafka: "Amore è che tu per me sei il coltello con il quale frugo dentro me stesso" (*)
Aveva dovuto ricorrere a tutto il suo autocontrollo, imponendosi con violenza di non voltarsi indietro. Tutto quello che avrebbe voluto, tutto quello che il suo corpo gli urlava di fare, era di correre da lei e inginocchiarsi, letteralmente e implorarla di smetterla, smetterla di ossessionarsi e trascinare tutti nella rovina, con lei.
Non lo vedeva quello che avevano davanti? Avevano un futuro, che si stagliava limpido di fronte a loro. Loro tre. E le loro famiglie. I loro amici. Perché buttava via tutto quello che avevano, per tornare ad agitare le acque torbide del dramma che aveva vissuto?
Non era semplice metterselo alle spalle, se ne rendeva conto benissimo. Ma doveva pur esserci un modo sano di andare avanti a vivere, scendendo a patti con quello che era successo. Non poteva rimanere bloccata a quel punto in eterno. Che non significava lasciar perdere l'indagine o non volere che il responsabile, chiunque fosse, finisse in carcere. Ma si doveva pur vivere, nel frattempo. Non poteva congelare la sua vita fino alla risoluzione dell'omicidio. Non era giusto. Meritava di essere felice, non di finire di colpo in un buco nero da cui era impossibile tirarla fuori, perfino per lui.

Come faceva a non scegliere loro, invece che il passato che era, appunto, passato? Come faceva a non vedere come stavano bene insieme e quanto sarebbe stata divertente, piena e meravigliosa, l'esistenza che potevano avere? Doveva solo allungare una mano e afferrarla.
Non poteva stare con una persona che, di punto in bianco, scompariva nelle sabbie mobili della sua ossessione, irraggiungibile.
Si passò una mano tra i capelli.
Chi voleva prendere in giro? Certo che avrebbe potuto farlo, e, anzi, avrebbe dato qualsiasi cosa per passare il resto della sua vita a setacciare qualsiasi metro quadrato di palude emotiva in cui fosse finita.

Il problema era lei. Non li voleva. Non sapeva perché avesse tenuto il bambino, forse non aveva avuto abbastanza coraggio per chiederglielo.
Si era detto che avrebbe lasciato che fosse lei decidere senza farle pressioni, ma era stato davvero solo altruista? A chi voleva mentire? Non era forse vero che non aveva voluto indagare, nel timore di scoprire che il problema non era il bambino, ma lui? Che forse la questione non era che non volesse una famiglia, ma che non volesse costruirne una con lui.
Era stato codardo, altro che altruista, si accusò senza nessuna indulgenza.
Ed era stato felice quando aveva deciso di tenerlo. L'aveva presa come una dichiarazione d'amore per lui. L'aveva accusata di non pensare al bambino, ma di chi stava parlando davvero? Non aveva forse messo i suoi sentimenti davanti a tutto? Non aveva forse voluto amarla tanto da farsi amare a sua volta? Chi aveva mai pensato davvero a quel bambino?
Sì, certo, per lui esisteva. Era un bambino reale, nella sua mente. Se lo immaginava già muovere i primi passi incerti nel loft e non vedeva l'ora di ricominciare tutta la trafila. Voleva un piccolo Beckett, con i suoi stessi occhi, a gironzolare per casa per prenderlo al volo prima che si ficcasse in qualche guaio.
Perché di certo, con due genitori come loro si sarebbe infilato nei pasticci a giorni alterni, incurante del pericolo. Come sua madre. Come lui.
Si divertiva a sognare quanto sarebbe stato creativo, geniale e probabilmente insopportabile qualcuno che condividesse a metà il loro patrimonio genetico.
E si era anche riempito la mente di una serie di immagini di lei in versione materna che non le avrebbe mai confessato.

Fino a quel momento aveva avuto solo la vaga consapevolezza del desiderio di un'altra paternità, sepolto in qualche piega nascosta dentro di lui, ma quando aveva visto il test positivo, aveva sentito, di colpo, che era una cosa che desiderava realmente, senza neppure sapere che la volesse così tanto. Con lei. Solo con lei.

Era l'amore della sua vita. Lo sapeva già. L'aveva sempre saputo, dal primo giorno. Da quando voleva solo uscire a cena con lei e concludere la serata a casa di uno dei due. Dai primi sguardi che gli aveva lanciato, pensando di non essere vista, o sapendo di esserlo, i primi scontri, le prime labbra mordicchiate.
Non poteva non essere anche l'amore della vita di lei. Era impossibile. Non si poteva amare tanto qualcuno, senza che valesse anche il contrario. Era ingiusto. Uno spreco di amore.
Si rese conto, non senza un certo grado di orrore, che è esattamente così che ragionano gli stalker. Si consolò con il fatto di averlo solo pensato, non l'aveva davvero pregata in ginocchio di amarlo e di scegliere lui.
Era andato via, semplicemente, perché aveva capito che lei non lo amava quanto lui amava lei. Si era tolto di mezzo.
Fine della storia.

E adesso avrebbe tanto desiderato sapere come avrebbero gestito questo caos immane e complicato, perché lui non ne aveva assolutamente idea.
Un weekend a testa? E le vacanze? In quale modo dovevano accordarsi? Come diavolo avrebbe mai potuto passare un'intera vita a crescere un bambino con lei, senza stare con lei? E magari, nel tempo, vederla con un altro uomo? Un'altra famiglia?
Per non sentire il dolore e la rabbia in procinto di sopraffarlo, si alzò e si versò un bicchiere della prima bevanda alcolica che trovò, senza neanche guardare l'etichetta. Un po' di oblio. Voleva smettere di sentirsi pungolare dalla sofferenza.

Non ottenne lo scopo desiderato. In un impeto di disperazione lanciò il bicchiere contro il muro. Andò alla sua scrivania e in un colpo solo, fece sparire quello che c'era sopra, i libri, le bozze del nuovo romanzo, i soprammobili, tutto finì in un mucchio senza vita a terra. Voleva che il mondo esterno riflettesse la distruzione che aveva dentro. Le stesse rovine. Non servì.
Si sedette affranto su una delle poltrone. Ai suoi piedi vide un foglietto capovolto e lo raccolse, accorgendosi che era la stampa della prima ecografia. La contemplò per un attimo, poi si lasciò andare sullo schienale a occhi chiusi, sentendosi sconfitto.

Fu così che lo trovò Martha, qualche tempo dopo, entrando in casa e annunciandosi con il suo soliti modi eccentrici.
"Richard!", esclamò stupefatta. "Ti ha preso il blocco dello scrittore catastrofico, questa volta?".
Lui si riscosse con un sussulto, rendendosi conto di essersi addormentato per qualche minuto, o forse di più, e lottando per recuperare il minimo di lucidità che gli serviva per affrontare sua madre, quando era su di giri. Cioè, quasi sempre.

Lei si sedette di fronte a lui e guardò incuriosita il foglio che teneva in grembo.
"Ti sei incamminato nel viale dei ricordi? O dovrei dire il viale del tramonto?", gli chiese, convinta che stesse riguardando le foto di Alexis da piccola, cominciando proprio dalla prima in assoluto.
Lui abbassò la testa per un attimo e poi alzò gli occhi a incontrare quelli della madre.
"Non è Alexis", confessò senza aggiungere altro.
Lei si portò le mani al petto. "Oddio, Richard!". Lo fissò stupefatta. "Che cosa significa? Avrai un altro figlio? E io un altro nipote?", gli chiese prendendo precipitosamente l'ecografia dalle sue mani, cercando una fonte di luce per osservarla meglio.
"Ma qui c'è scritto...", si bloccò subito. Capì che cosa intendeva. Il medico aveva inserito il nome di Kate, non il futuro cognome del bambino.
E, quindi, sua madre aveva letto "Katherine Beckett", togliendo a lui la responsabilità di informarla su chi fosse la madre del suo prossimo nipote.

Lei continuò a fissarlo comunicandogli la chiara intenzione di non muoversi di lì finché non avesse saputo tutto. Non sarebbe mai finita quella giornata infernale?
"Quindi... tu e Beckett...", esordì Martha, cautamente.
"Io e Beckett", si limitò a confermare. Gli costava uno sforzo enorme il solo fatto di scegliere le parole da dire, metterle in fila, dare un senso alle frasi.
"L'ho sempre saputo che non era solo per i libri", commentò soddisfatta del proprio acume.
"Lo era, agli inizi", protestò lui, cercando di recuperare un po' di vivacità.
"Hai sempre avuto un debole per lei, Richard! Le madri certe cose le sanno".
Lui sorrise amaramente, dentro di sé. Chissà se le madri sapevano anche tutto il resto.
"E, quindi, quando nascerà il bambino? Katherine si trasferirà qui? Alexis lo sa? Perché non organizziamo una cena per festeggiare tutti insieme?" Sua madre aveva preso il via piena di brio, e lui non sapeva nemmeno da che parte cominciare a fermarla.
"Non vuoi dirmi che abbiamo fatto tutto troppo in fretta e che siamo degli incoscienti?"
"Per quanto mi riguarda, potevate concepire un bambino già il giorno in cui vi siete incontrati. Siete fatti l'uno per l'altra", gli confessò convinta.
Davvero?
"Non ti avevo mai sentito esprimere un'opinione tanto favorevole sulle donne che ho frequentato".
"Perché non sei mai uscito con donne di sostanza, ecco la verità".
Già. Una donna di sostanza che gli aveva spezzato il cuore più di tutte le altre messe insieme...

Lui si alzò per versarsi un altro bicchiere di liquore e ne preparò uno anche per sua madre. Meglio darle qualcosa di forte. Ne avrebbe avuto bisogno.
"Pensi di darmi qualche altro dettaglio o hai intenzione di girarci intorno ancora a lungo?", gli chiese, prendendo il bicchiere che lui le stava allungando.
Chissà, forse parlare gli avrebbe fatto bene.
"Ok, mamma. Questi sono i fatti. Ci sarà un bambino, in primavera. Ma io e Beckett non stiamo insieme".
Il dolore fu così netto e corposo che gli venne voglia di ricominciare a lanciare oggetti contro il muro.
"Come potete non stare insieme? Come nascono i bambini, altrimenti?".
Lui scoppiò a ridere, suo malgrado.
"No, beh, siamo stati abbastanza insieme per quello, ovvio".

Non aveva mai fatto certi discorsi con lei, era strano iniziare alla sua età.
"Ma poi non ha funzionato", aggiunse, ammettendolo a malincuore. Più lo diceva e meno gli sembrava reale.
Non stiamo insieme. Non ha funzionato. Non era così che doveva andare. Non poteva essere questa, la fine.
"Come è possibile che non abbia funzionato? Non siete nemmeno stati insieme abbastanza per capirlo, se ho fatto bene i conti", ribadì sua madre.
"Lo so, e ti darei ragione, in teoria. Invece è andata proprio così. Non possiamo stare insieme". Lo ripeteva per convincersene, ma ogni volta era peggio di una pugnalata.
"Quando?", gli chiese impaziente.
"Quando cosa?".
"Quando l'avete deciso che non potete stare insieme?".
"Oggi pomeriggio".
"È una cosa fresca, quindi. E ora capisco il tuo stato d'animo", disse guardandosi in giro."Ma, magari, potresti ripensarci, non credi? Se vai a riposare, perché per la cronaca hai un aspetto orribile e non sembri neanche mio figlio, domani le cose ti appariranno sotto una luce diversa e...".
"Non sai di cosa stai parlando!", la interruppe con violenza, mortificandosi subito quando la vide spaventarsi.
"Scusami. È stata una brutta giornata. Orribile, anzi".
"Forse è meglio che mi racconti tutto", lo invitò gentilmente.
"È successo per caso. La gravidanza, intendo. Volevamo solo frequentarci e vedere se avrebbe funzionato. Ma poi tutto si è complicato". Si fermò a raccogliere le idee, mentre lei gli faceva un cenno per invitarlo ad andare avanti.
Proseguì parlandole del caso della madre, di quello che era successo al distretto, delle loro discussioni e della decisione di lei di non dargli retta, fino a quello che era successo dopo, l'ospedale, la paura di scoprire che lei fosse morta. Un po' assurdo, a ripensarci ora, ma in quel momento si era spaventato davvero.

Lei lo ascoltò lasciandolo parlare, fissando un punto di fronte a sé per metabolizzare meglio i fatti che man mano venivano a costituire un quadro più comprensibile.
"Il punto è che lei non voleva il bambino. Non l'ha mai voluto", chiarì, una volta finito il racconto.
Martha dovette convincersi che stesse esagerando.
"Se non lo voleva, come sostieni, come mai... voglio dire... come mai c'è ancora, questo bambino?"
Apprezzò la delicatezza dell'esposizione.
"Perché l'ha tenuto, alla fine. All'inizio voleva abortire, ma poi...", le spiegò, attenendosi ai fatti.
"Gliel'hai chiesto tu?", volle sapere, con tono serio, lasciando da parte ogni stravaganza.
"No, certo che no. Ha deciso da sola", si alterò lui. Come poteva solo insinuare una cosa del genere?
"Quindi se l'ha tenuto, pur avendo ponderato l'alternativa, significa che lo vuole, no?".
Gli sarebbe davvero piaciuto molto condividere la stessa logica stringente.
"È proprio questo il problema. Si comporta come se non esistesse. Non si prende cura di se stessa, si espone a qualsiasi rischio. Probabilmente... spera di liberarsene".
Scoprì del rancore, annidato dentro di lui, per le decisioni che era stato costretto a subire.
"Mi stai descrivendo una donna che stento a riconoscere", commentò neutra "Che cosa ha fatto esattamente per indurti a pensarla così?"
"Non l'ha detto a nessuno, impedendo anche a me di farlo. Ecco perché tu e Alexis non ne sapevate niente. Non vuole rinunciare al suo lavoro, visto che il regolamento prevede che le vengano affidate mansioni d'ufficio per tutto il periodo della gravidanza. Non vuole smettere di fare la vita di prima. Ma deve farlo", replicò con veemenza.
"Deve è una posizione un po' forte, non credi?"
Sua madre in versione saggia e ragionevole era più di quanto potesse sopportare.
"È la verità. Non può trascurarsi e aspettarsi che vada tutto bene. Lo pensa anche il medico, che l'ha costretta a fermarsi perché il bambino non sta crescendo nel modo corretto. Sono fatti. Non si possono contestare".
"Mi stai dicendo che non ha fatto nulla, per questo bambino? Ha solo continuato con la vita di prima sperando di abortire spontaneamente? Lo pensi davvero? Credi questo di lei?"
La voce aveva assunto una sfumatura più severa.
Si fermò a riflettere. No, non era così. Doveva dire le cose per come stavano e riconoscerle dei meriti.
"È stata molto male a causa della nausea i primi tempi e non se ne è mai lamentata. Non riusciva a trattenere nulla nello stomaco, una situazione abbastanza difficile e preoccupante. Ha evitato da subito gli allenamenti più faticosi. Era spesso molto stanca, soprattutto la sera, ma ha sempre stretto i denti".
Sua madre lo interruppe.
"Da quel che mi dici, credo che sia solo una persona che ha difficoltà ad accettare un grosso cambiamento inaspettato. Non che non lo desideri", affermò con tono grave.
"Si è messa volontariamente in pericolo, oggi! Poteva morire!", la contestò Castle con forza.
"Richard, è il suo lavoro!"
Ma da che parte stava? Era lui quello irragionevole, adesso?
"In questo momento non è 'il suo lavoro'. Può evitare le situazioni più rischiose finché il bambino non nasce, ma non vuole", le ripeté, perché il concetto fosse più chiaro. Non era una pretesa insensata la sua. Perché erano in due a pensarlo, adesso?
"E dopo?".
"Dopo cosa?". Cominciava a non riuscire più a seguirla. Voleva solo andare a dormire.
"Una volta nato il bambino ti andrà bene se rischierà di farsi ammazzare dal primo psicopatico? Ci saranno sempre situazioni rischiose, come quella di oggi"

Non aveva abbastanza pazienza per sostenere quel gioco dialettico.
"No, certo che no. Ma almeno ci non andrà di mezzo il bambino, perché me ne occuperò io".
"Che cosa vuol dire che te ne occuperai tu?". Sua madre sgranò gli occhi.
"Che... lo crescerò io, come ho fatto con Alexis. Gliel'ho anche detto, non deve preoccuparsi di niente".
Lei lo guardò esterrefatta. Non c'era niente di sbagliato in quello che aveva appena affermato. Giusto?
"E, di preciso, come ti sei espresso a questo proposito? Sul fatto che crescerai tu vostro figlio".
"Così come lo sto dicendo a te adesso". Lo esasperava. Non capiva o faceva finta solo per farlo alterare più del dovuto?
"Le hai detto che le avresti portato via il bambino?! Sei impazzito?! Ti hanno allevato i predoni del deserto?! ", gli strillò contro. Non si aspettava una reazione del genere. Si schiacciò contro lo schienale della poltrona.

Lo guardava come se fosse un mostro e lui non capiva cosa ci fosse di sbagliato in quello che aveva deciso di fare. Lei non lo voleva, lui sì. Lui l'aveva già fatto, aveva tempo, disponibilità, una certa pratica. Lei poteva riavere la sua vita. Spiegò con molta pazienza questi concetti alla madre.
"Richard Alexander Rodgers! Hai minacciato una madre di sottrarle il suo bambino! Te ne rendi almeno conto? Ti ha dato di volta il cervello?! Spero che ti abbia picchiato con una spranga di metallo".
Non l'aveva mai vista così indignata. Era l'incarnazione stessa della maternità offesa. Buffo, trattandosi di sua madre.
"Ma..." provò a ribattere lui aprendo e chiudendo la bocca, senza sapere cosa dire.
"Niente ma. Le hai dato della pessima madre, in sostanza. Che cosa sei, un caprone insensibile?! Non ti ho cresciuto così!"

Non seppe che cosa rispondere. Era sconvolto.
"Sai qual è il problema?", continuò lei al colmo dello sdegno. "Non le perdoni di non aver fatto subito i salti di gioia, di non aver dato un party comunicandolo al mondo e di non accettato di sposarti su due piedi. Questa è la verità", proclamò come se fosse un assioma indiscutibile.
"Non è affatto così. Stai vaneggiando e non sai di cosa parli".
"Lo so, invece. Pensi che sia facile trovarsi incinta senza averlo programmato Dover rinunciare ai propri progetti, metterli in pausa? Accettare un corpo che si modifica? Non voglio offendere i tuoi delicati sentimenti, ma io per prima non ho esattamente fatto i salti di gioia quando tu sei comparso".
"Sì, me ne sono sempre reso conto", commentò acido. Era una storia passata, ma pur sempre dolorosa, per lui.
"Ma", continuò senza dargli retta. "Non significa che io non ti voglia bene, più di qualsiasi altra persona al mondo. Non cambierei mai quello che è stato".
Sapeva che tendeva a esagerare nelle sue esternazioni emotive, ma gli venne da sorridere, grato.
Lei gli prese la mano.
"Non tutte le donne sono Meredith. Soprattutto, non lo è Beckett. In nessun modo", proseguì con voce più carezzevole.
Lui la guardò senza cogliere il nesso.
"Che cosa c'entra adesso Meredith?". Era sempre stato così difficile seguirla nei suoi salti logici?
"Non lo vedi? Stai sovrapponendo le due situazioni. Temi di avere a che fare, di nuovo, con una madre che abbandona un figlio e di essere costretto a fare da padre e madre a un altro bambino. E per paura di scoprire che è così, lanci la bomba prima del tempo, acchiappi il bambino e scappi via". Sottolineò l'immagine con dei gesti comici.
Lo aveva fatto? Aveva pensato di trovarsi di fronte una nuova Meredith che aveva mollato la figlia senza nemmeno voltarsi indietro? Che se ne fregava, rincorrendo le sue fantasie, ricordandosi solo saltuariamente di essere una madre?
"Non c'è da stupirsi se ti ha piantato in asso inferocita dopo la tua bella sceneggiata", proseguì Martha, che non aveva ancora concluso la sua filippica.
"No, a dire il vero non è andata così. Me ne sono andato io". Cominciò a temere la reazione che ne sarebbe seguita.
"Cioè?". Vide cupe nuvole addensarsi negli occhi della madre.
"Le ho detto che così non funzionava e che era meglio lasciarsi", ammise vergognandosi, cominciando a rendersi conto di quello che aveva fatto.
"Non mi dire. Che uomo pieno di tatto, fuori da un ospedale da cui era appena stata dimessa. E lei? È andata a cercarsene un altro con qualche dita in più di cervello, spero". Era ormai incontenibile.
"No... lei...". Con un po' di imbarazzo le raccontò che Kate aveva insistito perché rimanesse. Perché parlassero. Come mai non ci aveva pensato prima? Non era andata via offesa. Aveva cercato un contatto. E lui...
"Dopo tutto quello che le hai detto, ha comunque cercato di evitare la rottura? Tu non la meriti", sentenziò.
"Mamma, è inutile che provi a cambiare la carte in tavola. Kate non mi vuole. Non mi ama!", si sentì piagnucolare. Un uomo adulto. Davanti sua madre. Mamma Kate non vuole stare con me all'intervallo.
Martha sospirò.

"Richard, per prima cosa devi rivedere il modo in cui ti relazioni alle persone e, in secondo luogo, devi imparare ad ascoltare quello che ti dicono. Hai fatto a pezzi quella poveretta prima di mollarla in un parcheggio. Era svenuta e le era appena stato comunicato che la gravidanza non andava troppo bene. Volevi anche spararle, già che c'eri? Spingerla sui binari della metropolitana? Non hai lasciato nemmeno che si spiegasse!" Sua madre si era alzata in piedi e lo stava sgridando, con le mani appoggiate sui fianchi.
"Sono stanco di aspettare i suoi tempi e le sue spiegazioni. Le sono andato dietro per mesi, senza che nemmeno vedesse che ero lì davanti a lei".
"Questo non è un suo problema, non ti pare? È stata una tua scelta, non puoi rinfacciargliela".

Lui si limitò a fare silenzio, scosso dalla conversazione in corso, se si poteva chiamare così, un po' offeso che sua madre non avesse preso le sue difese e con la crescente consapevolezza di aver fatto qualcosa di imperdonabile.
"Perché ho come l'impressione che tu avessi già deciso in partenza che questa storia non potesse funzionare e hai solo preso in considerazione gli indizi che ti davano ragione? È un caso di profezia autoavverante?".
Era in piedi e già lontana. Lasciò cadere questa ultima considerazione senza fare ulteriori analisi.
"Adesso devo andare", gli annunciò, svuotando il bicchiere. "Non perdere altro tempo. Vai a riprendertela", gli ordinò con burbero affetto.

Si trovò di nuovo da solo, con uno stato d'animo ben diverso.
Sua madre aveva ragione. In parte. Su tutta la linea. Non gli piaceva ammetterlo ma era la verità. Ripensava con raccapriccio a come era andata tutta la vicenda. Ai suoi errori. Lui che si era creduto saggio e superiore e l'aveva critica dall'alto di cosa? Della sua supponenza? Perché lui era già stato padre e allora sapeva che cosa fare?
Doveva essere onesto con se stesso. Era davvero stato convinto che non potesse durare. Era sicuro di non poter continuare a piacerle a lungo. Affascinarla e divertirla, sì. Ma, durare? No. Era impossibile. Lei era troppo per lui.
Aveva quindi continuato a cercare indizi, per essere costantemente rassicurato. Ogni suo comportamento era stato sezionato, e, purtroppo, molto spesso preso come un affronto personale, la dimostrazione che i suoi timori erano reali.

Il rifiuto iniziale di portare avanti la gravidanza poteva non avere niente a che fare con lui. Poteva volerlo nella sua vita e nel frattempo essere spaventata o non essere pronta ad avere un figlio. Lui, invece di incoraggiarla e sostenerla, aveva calato la mannaia sulle sue insicurezze. Gliele aveva sbattute contro. Non si era nemmeno accorto che lei gli aveva confessato di amarlo. Non esplicitamente, certo. Nel solito modo contorto che aveva Beckett di parlare alle persone.
E lui che cosa aveva fatto? Aveva sentenziato di non poter stare con lei, pur amandola. Che razza di persona fa una cosa del genere? Le aveva attribuito tutta la colpa.

Venne preso dalla smania di vederla, sapere come stava, andare a casa sua e buttar giù la porta, se necessario. Ricominciare da capo. Ma prima di tutto voleva accertarsi che stesse bene. E poi lei si sarebbe dovuta trasferire al loft.
O, anzi, no, non poteva decidere sempre lui per tutti. Avrebbe fatto tutto quello che lei gli avrebbe chiesto. Con i suoi tempi. Le sue paure. Avrebbe smesso di convincersi di non meritare l'amore di una donna reale, di sostanza. E le avrebbe confessato tutto. Subito. Doveva uscire di casa in quell'istante.

Guardò l'ora sul monitor del pc. Era troppo tardi e lui era spossato. Era meglio aspettare, prima di muoversi d'impulso e complicare di nuovo tutto. E, prima, c'era un'altra cosa da fare, che non poteva essere posticipata. Si buttò sul letto per cercare di dormire qualche ora di quello che rimaneva del giorno più brutto della sua vita.

Il mattino dopo si alzò presto, in preda a un'energia dirompente. Preparò la colazione preferita di Alexis. Era arrivato il momento di parlare con sua figlia.
Non andò male, solo un po' peggio di come si era immaginato.
Naturalmente Alexis rimase colpita dalla notizia e naturalmente volle sapere perché non era stata messa al corrente della sua relazione con Beckett, anche se aveva indovinato da tempo i suoi sentimenti.
Non fu facile spiegare a sua figlia che avrebbe presto avuto un fratello, o una sorella, rassicurandola che sarebbe andato tutto bene. Era consapevole che una novità del genere potesse causare una frattura nel loro equilibrio che si reggeva immutato da tanti anni.
Erano stati sempre molto uniti, nemmeno Gina era riuscita a far parte del loro circolo ristretto. Era sempre rimasta ai margini, all'inizio ferita e poi indifferente.
Allo stesso tempo, non sapeva neanche da che parte cominciare a spiegarle che, nonostante l'arrivo di un bambino, le cose con la madre del futuro pargolo, e cioè la donna che avrebbe dovuto inserirsi nella loro famiglia e contribuire a ricreare un equilibrio allargato, non potevano andare peggio.
Come poteva infilare sua figlia in un ginepraio del genere? Che stabilità poteva darle?
Mentre parlavano, si rese conto che aveva dato per scontato che ad Alexis piacesse Beckett. Si ricordava che l'aveva sempre ammirata, fin dall'inizio, ma non si erano frequentate abbastanza da creare un legame.
A quanto pare, Beckett come persona andava bene. Un po' meno il fatto che avrebbe, sperabilmente, condiviso la vita con lui. Per molto tempo. Forse per sempre, anche se al momento potevano sembrare solo illusioni.
Si accorse che Alexis si sentiva minacciata dall'arrivo di una donna, che percepiva correttamente come quella giusta, quella destinata a durare, temendo di essere sostituita nel suo cuore. Impossibile, naturalmente.
"Quindi avrai un'altra famiglia", mormorò sconsolata. La vide per quella che era: una ragazzina che amava fare l'adulta, ma che, dentro, aveva ancora bisogno di essere protetta.
"Non avrò un'altra famiglia. È la nostra che si allarga", la rassicurò.
"Ma Beckett..."
"È lei il problema?", chiese con voce piena di comprensione.
"No. Lei mi piace. Ma il nostro mondo..." Lo guardò smarrita.
"Alexis, il nostro mondo ci sarà sempre. Sarai sempre la mia bambina. Anche da sposata. Anche perché non ti sposerai mai, giusto? Oppure sceglierò io il marito per te", scherzò Castle, a cui faceva tenerezza la sua bambina con i capelli rossi, che aveva paura di perdere il suo amore. Sapeva molto bene cosa voleva dire non essere sicuri dell'amore di chi amiamo.
"La prima", sottolineò.
"La prima, cosa?", chiese non avendo seguito il filo del discorso, perso nelle sue considerazioni.
"La prima bambina. Non l'unica", puntualizzò.
"Sarai sempre la mia prima magnifica bambina. E magari anche l'unica. Magari è un maschio".
"Lo porterai a vedere le partite di baseball?", lo punzecchiò.
Lui accusò il colpo.
"Sei cattiva. Ti ho insegnato bene". Si sorrisero, complici.
"E, quindi, state insieme? Sei felice?". Era una domanda da adulta, che non si era aspettato.
"Ci stiamo provando", le confessò con onestà.
"Non è troppo poco?", chiese lei con altrettanta onestà.
"Forse sì. Ma è quello che abbiamo ora. E se anche non funzionerà, tu e... Rosemary's babyavrete la precedenza, sempre, su tutto", le promise.
Lei sgranò gli occhi.
"Non posso credere che tu l'abbia chiamato in quel modo. Stai parlando di mio fratello! Spera che Beckett non venga mai a saperlo".
Beckett avrebbe finto di arrabbiarsi, ma avrebbe riso. Dio, come gli mancava. Quanto era stato idiota. E lei cocciuta. Ma la voleva esattamente così, cocciuta e insopportabile, e frustrante. Purché rimanesse nella sua vita.

Lettere a Milena

   
 
Leggi le 3 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Castle / Vai alla pagina dell'autore: Ksyl