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Autore: Ksyl    04/02/2020    2 recensioni
Dopo il week end negli Hamptons, Kate Beckett rimane incinta a sorpresa: la loro coppia recentemente formata riuscirà a superare lo sconvolgimento delle loro vite? Seguito di "Un colpo di testa"
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Seconda stagione
Capitoli:
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16 Beckett

Era pomeriggio inoltrato, nello studio del dottor Burke. Beckett era seduta di fronte a lui in silenzio, dopo avergli raccontato del suo casuale incontro con Castle.

Le sedute, due volte la settimana, avevano cominciato ad assumere un ritmo abitudinario che lei aspettava sempre con un misto di impazienza e fastidio.
Le odiava, in parte, perché lo psichiatra, con il suo fare pacato e non giudicante, la costringeva a mettersi a nudo e la obbligava ad analizzare parti di sé che avrebbe preferito tenere nascoste.
Allo stesso tempo, le amava perché trovava rilassante e liberatorio parlare a ruota libera proprio con qualcuno di pacato e non giudicante. E che, soprattutto, lei non poteva intimidire in nessun modo. Ci aveva provato, certo. Lei era maestra degli interrogatori, sapeva benissimo che tattiche usava lui e le rispediva al mittente, una dopo l'altra.
Aveva passato i primi incontri volendo dimostrare che, tra loro, lei era quella più brava. Che era brava, in generale. Non era forse una persona con un ferreo controllo sulla sua vita? Che ci provava, almeno. Non era magnifica nel capire le persone e rimetterle al loro posto?
No, in realtà, lui non era affatto né impressionato, né intimorito. Era completamente impermeabile a ogni suo tentativo di trasformarla in una battaglia dialettica. Dopo un'ora la salutava e lei si congedava con le pive nel sacco.
Lui voleva sapere altro rispetto a quello che lei poteva permettersi di confessargli. E i due piani non collimavano. Non voleva un resoconto logico e razionale sulla sua vita. Scavava più a fondo, con quelle domande all'apparenza neutre, ma sempre pericolose. Lei non era pronta a raccontare davvero se stessa.

Un giorno, con sua grande sorpresa, si era trovata seduta sulla solita poltrona a piangere tutte le sue lacrime, mentre lui, in silenzio, le aveva offerto fazzolettini di carta, senza chiederle niente. Un'ora di pianto senza che nessuna parola intercorresse tra di loro.
Era uscita di lì finalmente rilassata, senza il solito macigno sulle spalle. Dall'appuntamento successivo aveva iniziato ad aprirsi. Sul serio, senza filtri. Parlava di Castle, soprattutto. Della sua famiglia, dell'infanzia, l'idea della gravidanza, i suoi timori. Di come si proteggeva, del perché lo faceva. Di come tenesse il fucile puntato contro chiunque comparisse in fondo alla sua proprietà e di come si rifugiasse nelle sue resistenze. Diceva a parole di voler essere felice, ma sempre con il dito pronto sul grilletto, pronta a far fuori le persone prima che la facessero soffrire. Lui pazientemente, districava i suoi grovigli, uno per volta. Era un lavoro lungo e faticoso, che spesso le faceva venire voglia di mandare tutto all'aria, ma la volta dopo era di nuovo lì, pronta a ridursi in pezzi e a rimetterli insieme.

Dopo l'incontro con Castle era andata direttamente da lui. Fortunatamente era il giorno giusto della settimana.

"Perché non lo vuole incontrare?", chiese il dottor Burke con il solito tono imperturbabile, che con il tempo aveva imparato ad apprezzare.
"Perché non è giusto. Ha scelto lui di voltarmi le spalle e adesso deve assumersi la responsabilità delle sue azioni".
"Lo sta punendo per averla lasciata?"
Ehi. Come si permetteva?
"No, non è una punizione", meditò ad alta voce, un po' alterata. "Deve imparare che le azioni hanno delle conseguenze. E questo, anche se non gli piace, è il risultato di quello che ha fatto lui".
Le parve di recitare una lezione che, a furia di venire ripetuta, aveva cominciato a perdere di senso. Eppure ci credeva, fermamente.
"È una sorta di insegnamento morale a cui vuole iniziarlo, quindi?"
Lei ebbe il dubbio che la stesse prendendo garbatamente in giro, ma lui aveva come sempre un contegno molto serio e professionale. Non riuscire a capirlo era una delle cose che le provocavano più frustrazione.
"No, si tratta di logica. Non mi ha voluto, adesso non può vedermi. Non può avere entrambe le cose, solo per capriccio".
"Quando si tratta di relazioni umane, la logica dovrebbe rimanere fuori".

Soppesò le sue parole, prendendosi tutto il tempo di cui aveva bisogno. Ecco un'altra cosa che amava. Qui non si sbagliava, mai. E si poteva riflettere prendendosi il tempo necessario. Senza fretta. Senza fare danni, ferire qualcuno, non essere all'altezza delle aspettative.
"Questo che cosa vorrebbe dire?", le uscì con un tono più arrogante di quello che avrebbe voluto. Ogni tanto la parte di lei sospettosa e chiusa tornava farsi viva per proteggerla. "Che la gente può farci quello che vuole e noi dobbiamo accettare tutto? Mi ha lasciato. Minacciato. È stato orribile. Lo è ancora. Non gli permetterò di farmi del male un'altra volta".
"Non può tenerlo fuori dalla sua vita. Avrete un bambino insieme. Dovrete prendere degli accordi".
Il puro odio che le faceva venire con le sue frasi piene di buonsenso rischiò di soffocarla.
"Lo facciamo. Lo tengo informato su come procede la gravidanza. Non c'è motivo per cui non si possa continuare così anche quando sarà nato".
"È così che vuole vivere? È questo il rapporto che vuole avere con lui?". Era una domanda da cui trapelava genuino interesse, non giudizio. Lo apprezzò.
"No, certo che non è quello che voglio. Io volevo continuare a stare con lui. Ma ha deciso lui per tutti, io non ho avuto nessuna voce in capitolo. Mi ha lasciato lui", ripeté per l'ennesima volta. Da quando lo aveva detto ad alta voce la prima volta, provava una specie di sollievo nel continuare a farlo. Lo rendeva meno brutale. Più accettabile.
"E quindi torniamo alla punizione. Vuole stare con lui, ma quando ne ha l'occasione, non accetta, per non dargliela vinta".
"Non stiamo parlando di vittorie o sconfitte. Non è questo il piano del discorso", rispose piuttosto sgarbata.
"Davvero?".
"Poteva pensarci prima". Ecco il punto. Si stava forse vendicando? Iniziava ad anticipare le obiezioni dello psichiatra.
"Kate, sta lasciando che il suo amor proprio diventi padrone della questione?"
Che uomo insopportabile.
"Non si tratta di amor proprio! Si tratta di me, che sono una persona. Mi vede? Sono qui in carne e ossa. Ho dei sentimenti. Lui li ha calpestati e adesso arriva e mi dice 'Mi sono sbagliato, non posso stare senza di te, parliamo'. Vorrà scherzare. Non può trattarmi così. Se lo scorda".
"A me sembra si tratti di amor proprio".
"Non lo è affatto! È protezione. Lui se va in giro con un coltello con il quale mi pugnala. Io mi sposto dalla traiettoria. Per sempre. È semplice. Non mi sembra così sbagliato".
"Il mondo e le persone non sono sempre nemici da cui difenderci. Lui può aver sbagliato. Può essere stata solo una decisione impulsiva. Ma non lo saprà finché non vi parlate. Non tornerete mai insieme, se non gli dà neanche un'altra occasione".
"Non voglio tornare con lui!"
"Ha appena detto che vuole stare con lui".
Maledetto uomo pieno di logica. Lo odiava.
"Sì, lo vorrei. In un mondo ideale in cui prima non mi ha piantato in asso".
"È una situazione in cui non può vincere nessuno. Non si può tornare indietro e far svolgere le cose in un altro modo. È successo, ne prendiamo atto. È stato doloroso. Lui vuole recuperare la situazione. Lei che cosa vuole fare? Dargli una possibilità o chiudere la porta a doppia mandata? Perché continuare a dire che non doveva fare quello che ha fatto non la fa andare da nessuna parte".
"Non posso lasciarmi ferire di nuovo. Non posso permetterlo. Sono stata troppo male. Sto ancora male. Non posso vivere tutto questo un'altra volta".
La vera Kate era riuscita finalmente a farsi strada, sotto alla Kate che stava martellando i chiodi nella palizzata.
"Sta comunque soffrendo, anche adesso".
"Io non so se lui voglia tornare con me. Magari siamo qui a fare dei ragionamenti che non hanno nessun fondamento", cambiò radicalmente discorso, dopo aver tirato un filo del suo maglione, per evitare di rispondere alla sua affermazione purtroppo vera. Sì, stava soffrendo.
"Ha detto che ha sbagliato e non può stare senza di lei. Mi sembra un'ammissione forte".
"Ma che cosa significa?! Che ogni volta che farò qualcosa che non andrà bene lui mi mollerà su due piedi? Che se ne andrà offeso?! Ho bisogno di una persona che rimanga per sempre".
"Nessuno può darle questa garanzia".
"Quindi cosa si fa, nella vita? Ci si fa ferire? Si danno altre occasioni a persone sbagliate? Non ci proteggiamo in qualche modo?".
"Proteggersi è sano. Barricarsi dietro a una corazza, no".
"Sto bene dietro al mio muro. Non fa male".
"Però non vive".
"Quindi è questa la vita? Farsi spezzare il cuore, di continuo?".
"La vita è trovare un equilibro tra amare e sapere di poter essere amati, ma anche di poter essere feriti, di fare solo un pezzo di strada insieme a qualcun altro, di poter essere abbandonati, di poter essere felici, di cadere e ricominciare e di imparare sempre qualcosa di nuovo e di utile. A volte a pugni in faccia. Ma dietro a un muro, non succede niente di tutto questo, purtroppo. Capisco che sia allettante rimanere in una bolla priva di emozioni. Ma non è vita. Non succede niente. Qualche volta è necessario avere un momento di tregua, concordo. Ma non può essere il modo cui scegliamo di condurre un'esistenza degna di questo nome. Le persone ci lasciano. Muoiono. O sbagliano e cercano di rimediare. O stanno con noi, a modo loro. Che magari è il massimo che possono dare. Oppure sono stronzi e dobbiamo allontanarli. Ma non per principio, non aspettandoci che ci facciano necessariamente del male. Perché, indovini? Poi ce lo fanno davvero, se ci fissiamo solo su quello".
Era un discorso molto lungo, per essere uno che ascoltava e basta. E aveva colpito nel segno.
"Dovrei vederlo, secondo lei? Dargli un'altra chance?".
"Non posso essere io a sceglierle. Io dico che lei deve decidere se vuole tornare nel mondo, e accogliere il rischio di amare e farsi amare e insegnarlo a suo figlio. O rimanere dove è adesso, anestetizzata. Che si tratti di Castle o meno.".
"Io ho voluto anestetizzarmi perché non sarei riuscita ad andare avanti, altrimenti", si giustificò per l'ennesima volta.
"Lo so. Ma si arriva a un certo punto in cui bisogna rituffarsi, dopo aver imparato a nuotare, consapevoli di quello a cui si va incontro. Ma non si può rimanere attaccati alle boe. Può, certo. Ma non è quello che auguro a una donna giovane come lei".
"Non sono pronta". Le costò moltissimo ammetterlo. Si sentiva esposta e vulnerabile e si muoveva su un terreno che non le era familiare.
"È già onesto dirlo".
"Ma non voglio rimanere sempre aggrappata alle boe", puntualizzò, assecondando la metafora nautica. "È solo troppo presto".
"Arriverà il momento giusto. L'importante è decidere quale è il suo traguardo".
"E se lui non mi vorrà più? Se avrò sprecato troppo tempo?".
"Non ha sprecato tempo. L'ha usato per guarire".

Nei giorni successivi Beckett aveva ripensato a lungo alle parole del dottor Burke. Non voleva tuffarsi da una scogliera molto ripida senza vedere il fondale. Era certa che si sarebbe schiantata. Quasi certa. E, infatti, per qualche tempo non aveva fatto niente, aveva continuato la sua vita e non si era mossa dalla sua zona sicura.
Da qualche tempo, però, una parte non così in minoranza dentro di lei, premeva per farsi notare. Aveva voglia di vederlo, era forse un crimine? Dai, Kate, mandagli un messaggio. Che cosa ti costa? Era una voce insistente e fastidiosa, che aveva cercato, senza successo, di soffocare e che adesso la martellava senza interruzione. 
A un certo punto, non aveva più trovato scuse abbastanza convincenti per non farlo. 
Se prima aveva cercato motivi per non contattarlo, adesso gliene servivano di validi per non ammettere che desiderava semplicemente vederlo. Si diceva che era necessario per il bene del bambino: era giusto che avessero dei buoni rapporti, invece di litigare davanti a povere anime innocenti non ancora nate. Del resto, non aveva forse ragione a pensare che quel bambino aveva sentito i suoi genitori discutere, per la maggior parte del tempo? O li aveva visti lontani? Che idea avrebbe mai potuto avere delle relazioni umane?
Una mattina la parte ribelle di lei si svegliò, prese il telefono e, senza nessuna remora, gli mandò un messaggio. Poi le sorrise beffarda. E da allora viveva con le farfalle nello stomaco.

Castle

"Caffè. Cinque minuti".
Questo diceva lo scarno testo del messaggio che Castle aveva appena ricevuto da Beckett e che non riusciva a smettere di rileggere. Quando, dove, come? Subito?

Doveva prepararsi, non poteva arrivare senza aver bene chiaro in mente che cosa le avrebbe detto. Era la sua unica occasione. Si sarebbe spiegato, con toni pacati, ragionevoli e avrebbe dominato le emozioni.
Avrebbe tenuto a freno la sua natura e non l'avrebbe spaventata. Avrebbe fatto tutto con calma. Ecco, la parola chiave era proprio calma. Avrebbe pensato molto bene a ogni frase prima di esprimerla e avrebbe ascoltato attentamente quanto aveva da dire lei. Anzi, avrebbe registrato la conversazione e l'avrebbe riascoltata a casa, prima di fare qualche altro danno. Avrebbe risposto poi, con tutto il tatto del mondo.
Si sarebbe legato a un palo per implorarla di tornare con lui. No, no, no. Doveva tenere sotto controllo la sua mente per evitare che gli suggerisse idee come quella. Che, a ben vedere, era efficace e sintetica. Però forse non era esattamente il modo giusto per non intimorirla. Sospirò. Rispose al messaggio.

   
 
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