Libri > Harry Potter
Ricorda la storia  |      
Autore: DeaPotteriana    10/02/2020    5 recensioni
Storia arrivata quarta e vincitrice del premio speciale al contest “Prof. Lei com’era da giovane?” indetto da Marika Ciarrocchi/AngelCruelty sul forum di EFP.
Un giovanissimo Alastor Moody alle prese con la sua carriera da Auror. Amicizia, missioni, carriera, famiglia... E altro ancora.
Genere: Azione, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Alastor Moody, Altro personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Isn't that what a great story does? Makes you feel?'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Note dell'autrice: sono presenti personaggi da me creati, ovvero dei criminali, un'Auror e il capo Auror, ma Alastor Moody rimane il protagonista.
Su Alastor ho solo una piccola nota: potrebbe, soprattutto all'inizio, SEMBRARE un po' OOC, tuttavia terrei a ricordare ai lettori che un ragazzo di ventidue anni è ben diverso rispetto a un uomo che ha passato la vita a combattere e ha affrontato una guerra. Quindi questo è come immagino si sia evoluto il suo carattere (non del tutto, visto che la storia si ferma molto prima dell'anno in cui noi lo conosciamo, ma è su quella strada). 
> Inoltre mi baso su questa nota di JK Rowling, LINK, secondo la quale quando un bambino nasce con poteri magici una penna incantata scrive il suo nome sul libro delle ammissioni a Hogwarts, ma il libro lo accetta solo se ritiene ci sia abbastanza magia (per escludere un magonò).
Detto questo, buona lettura!






Un passo alla volta

 

“Al! Al!”

Una voce femminile echeggiò lungo il corridoio, vibrante di eccitazione, mentre passi concitati la seguivano. “Al! Lo so che mi senti, dai!”

Alastor si fermò con un mezzo sorriso e si voltò, stringendosi le mani dietro la schiena in una posa in cui aveva visto suo padre fin troppo spesso. Aspettò con pazienza che Vivian lo raggiungesse, riuscendo a malapena a restare dritto quando lei gli saltò addosso e prese a ridere come una bambina da Mielandia.

“Hai saputo?!” la sentì urlare al suo orecchio.

La fece tornare con i piedi per terra — letteralmente — e la afferrò per le spalle, sul volto un ghigno che nonostante tutto non riuscì proprio a trattenere. “Ho saputo.”

“Batti il cinque, partner!” esclamò allora Vivian, alzando la mano al cielo. Alastor eseguì, con la grinta di chi ha ventidue anni ed è Auror da poco — di chi è appena uscito dall’accademia e sì, conosce il peso di quel compito, ma solo in modo teorico, nell’inchiostro sulla carta e nelle rughe di insegnanti che, secondo lui, hanno fatto il loro tempo.

Nelle cicatrici di quegli Auror troppo lenti o troppo stupidi per schivarsi in tempo.

Alastor rise e cinse le spalle di Vivian con un braccio, ricominciando a camminare. “Andiamo, Vì, prima che finisca in pensione pure io.”

Per tutta risposta, lei lo spinse. “Scemo. Se mi avevano messa a seguire un dinosauro non è colpa mia.”

Gli pizzicò un fianco, portandolo a scontrarsi contro una porta per allontanarsi dal suo tocco. “E nemmeno se tu sei così borioso da infastidire ogni altro partner possibile,” continuò Vivian e si picchiettò il labbro inferiore con un dito. “In effetti, in quel caso è tutta tua, la col-”

“No,” la interruppe Alastor, tirandosi via dal viso i capelli troppo lunghi. Lanciò all’amica un’occhiata di sottecchi. “La colpa è di chi non tiene il passo con me.”

E a quel punto scattò, correndo senza mai voltarsi indietro.

Una risata e dei passi veloci lo accompagnarono nel giro di pochi secondi.



 

Lui e Vivian lavoravano bene, in coppia, chiunque avrebbe potuto vederlo. Persino il Capo Moody — suo padre, perché la famiglia di Alastor sfornava Auror come i Black maghi oscuri — se n’era reso conto e osservava il figlio con rinnovato orgoglio.

E preoccupazione.

Nessuno, ovviamente, si sarebbe reso conto di quell’ansia, troppo ben nascosta per trapelare davanti a chiunque non lo conoscesse in profondità. Sua nipote, Auror anche lei, sarebbe forse potuto essere l’unica, ma era in missione sotto copertura da ormai diversi mesi.

“Alastor,” lo chiamò l’uomo, facendogli cenno con una mano di seguirlo nel suo ufficio. Si sedette alla scrivania, lasciando il figlio in piedi come quando, quindici anni prima, aveva notato i fascicoli dei casi irrisolti spostati. Non era raro che portasse il lavoro a casa e da piccolo Alastor aveva preso l’abitudine di leggere i suoi rapporti come qualunque altro bambino avrebbe rubato i biscotti.

E ora lo guardava così, con l’aria beffarda a coprire le mani sporche di briciole.

“Hai portato a termine la missione,” constatò, prima di sistemare in un cassetto alcuni documenti riservati.

Il movimento colse l’attenzione di Alastor. “Il Ministero continua a premere per il caso NB?”

Suo padre annuì. “È arrivata la risposta degli esperti, è una maledizione nuova… Dagli effetti devastanti. Stanno addirittura valutando se renderla una Senza Perdono. Tutto il Dipartimento dovrà darsi da fare per fermare quei bastardi,” aggiunse dopo qualche secondo di silenzio.

“Pensi che la soffiata sia valida?” 

“Sì. A questo proposito, Alastor…”

“Vuoi che ci pensi io, signore?” 

Fu quell’ultima parola, buttata lì come fosse una battuta divertente e segreta, tutta loro, di cui nessuno avrebbe compreso a pieno l’ilarità; fu quell’ultima parola, a cambiare l’atmosfera dell’ufficio.
“Siediti,” sbottò allora il Capo Moody, tornando la figura autoritaria che l’intero Dipartimento Auror — l’intero Ministero — rispettava e un po’ persino temeva. 

Neanche Alastor ne era immune e crollò seduto sulla sedia più vicina. Si raddrizzò quasi con fastidio, schiena rigida e gambe chiuse.

“Hai portato a termine l’altra missione,” ripeté il suo superiore, “ma hai rischiato grosso.”

“Pap-”

“No, ora taci e mi ascolti. Stai diventando sempre più bravo, lo so io come lo sai tu. Potresti anche prendere il mio posto, un giorno… Ma non ci riuscirai se non ci metti più attenzione. Ci vuole vigilanza costante, Alastor!”

Il giovane abbassò lo sguardo, risentito da quella mancanza di fiducia. 
Lo rialzò poco dopo, incapace di tacere. “Io e Vivian abbiamo colto i sospettati con la refurtiva, cosa avre-”

“Avreste dovuto aspettare nuovi ordini, aspettare rinforzi, aspettare e non agire di impulso! Fai sempre tutto di corsa, non lo vedi? Devi rallentare.”

Alastor alzò il mento in quella che sarebbe potuta sembrare un’espressione di sfida, ma era in realtà un’ammissione di colpa, e il Capo sospirò. “Un altro passo falso e siete in panchina.”
“No!” gridò Alastor, di scatto in piedi a pugni chiusi. “Non puoi-”

“Posso e lo farò, se mi costringi.”

Passarono a quel punto diversi secondi di completo silenzio, in uno scontro di sguardi e di mani serrate, di paure e di denti digrignati.

“È tutto, signore?”

Il Capo Moody non spostò l’attenzione da quegli occhi scuri, così simili ai suoi, neanche un istante.

“È tutto.”

Alastor uscì sbattendo la porta.



 

Un altro passo falso e siete in panchina,” lo scimmiottò non appena fu da solo con Vivian. “Ma chi si crede di essere?!”

Lei scrollò le spalle, movimento reso difficile dalla complicata treccia in cui stava cercando di stringersi i capelli. “Esattamente chi è: il nostro superiore.”

Si incamminarono verso il punto stabilito e tirarono fuori le bacchette, mentre lo stemma degli Auror, di solito ben visibile sulla giacca della divisa, restava nascosto nell’oscurità notturna. 

Vivian tossì, poi ridacchiò. “E con te lo è due volte. Sai, non penso reggerei a lavorare per mio padre.”

Alastor non rispose, avanzando con più attenzione ora che si avvicinavano al quartiere dove erano stati visti movimenti sospetti. Sette bambini erano stati rapiti e le loro famiglie uccise, tutto nel giro di poche settimane, destando il panico nelle città di Babbani in cui era accaduto. Gli Auror non si sarebbero scomodati, se i bambini non fossero stati tutti riconosciuti da Hogwarts e dal Ministero come possibili maghi — ovvero avevano già mostrato i primi segni di magia ed era solo necessario attendere e capire se fossero abbastanza potenti da essere educati come maghi veri e propri. Non tutti, alla fin fine, andavano oltre piccoli incantesimi spontanei.

Sette famiglie uccise, dilaniate, sette persone svanite nel nulla.

E mentre dei bambini Babbani rapiti non avrebbero mosso gli Auror, sette possibili maghi Nati Babbani avevano mobilitato l’intero Dipartimento.

“La testimonianza parlava di pianti e movimenti sospetti, provenienti da una strada non definita, in… Questo quartiere,” mormorò Vivian, prima di tossire con forza. Indicò il vicolo a cui erano stati assegnati — “Vì, non è neanche una strada! Ci hanno declassato!” — e si appoggiò all’angolo del muro, per non farsi vedere da chiunque fosse passato da lì.

“La nostra missione è fingerci una coppietta e stare di guardia,” sussurrò allora Alastor, la voce tesa dal fastidio di stare fermo. Si strinse a Vivian e guardò il vicolo buio. 

“Dici che si tratta di cacciatori di streghe?” mormorò lei, così vicina che il respiro gli solleticò il collo. “Ho sentito che qualche gruppo esiste ancora.”

“Ne dubito,” la tranquillizzò Alastor, gli occhi che correvano da una porta all’altra, dai ciottoli sporchi ai muri incrostati. C’era odore di urina, nell’aria, e di spazzatura… E di lavanda, che era però lo shampoo di Vivian.

“Se non loro, chi? Chi altri vorrebbe rapire dei bambini Nati Babbani? Estremisti della Purezza?”

“Secondo me…” scandì bene le parole il giovane Moody, voltando impercettibilmente il viso così da osservare l’amica negli occhi, “secondo me in Inghilterra ci sono tante famiglie di maghi che vorrebbero dei figli, ma non possono. E che sono abbastanza ricche da comprarseli.”

Un rumore li costrinse entrambi a tacere, ma si rivelò essere soltanto una donna che portava un furetto a passeggio. Alastor appoggiò il naso sul collo di Vivian, che rispose stringendogli i capelli e sospirando in modo quasi esagerato; solo quando la signora scomparve alla loro vista si separarono, le guance rosse e tuttavia la concentrazione ancora alta.

“Ricordami dei rinforzi.”

Vivian si schiarì la voce. “Ci sono tre coppie poco distanti, a controllare altre strade.”

“Strade o vicoli?”

Sbuffò, divertita. “Comunque basta un incantesimo di pericolo e tutti gli altri accorrono.”

Alastor si sporse a guardare con più attenzione il loro obiettivo, socchiudendo le palpebre per vedere meglio nell’oscurità, e poi alzò un secondo il viso verso il cielo. “Quindi occhi aperti,” concluse.

“È una brutta copia del motto di tuo padre?” rise allora lei. “Vigilanza costante, occhi aperti!”

Ma Alastor non la stava più ascoltando. Due uomini stavano entrando nel vicolo, dalla parte opposta rispetto a dov’erano nascosti loro, e uno aveva una grossa coperta tra le braccia. Una coperta da cui spuntava una manina.

Deciso a non provocare alcun rumore, Alastor spostò con calma Vivian, girandola nel suo abbraccio perché notasse a sua volta la scena.

“Dobbiamo chiamare i rinforzi,” sussurrò lei, ma la voce le si ruppe nella gola e finì per uscirle più forte di quanto non volesse, seguita da un rumoroso colpo di tosse.

Non riuscirono neanche a muovere quel mezzo passo che li avrebbe nascosti dietro al muro, prima che i due rapitori li notassero. Cominciarono a scagliare un incantesimo dopo l’altro, il bambino lasciato in un angolo della strada come fosse una borsa vecchia e da buttare, e Alastor e Vivian non poterono far altro che rispondere.

“Diffindo!” urlò il rapitore di destra, seguito dal “Confringo!” del suo complice.

“Protego!” replicò Alastor in tutta fretta, la mano che tremava per la forza dei due attacchi. Si sistemò di fronte a Vivian e cercò di monopolizzare l’attenzione; questo gli valse un’occhiata stralunata, a cui replicò con un ringhio e un “chiama aiuto!”.
Solo perché il discorso di suo padre non gli era piaciuto, non voleva dire che non avesse imparato dai propri errori.

Mosse la bacchetta di scatto, lasciando che i due incantesimi si schiantassero contro il muro, e ne scagliò uno a sua volta. “Incarceramus!” gridò contro uno degli avversari, che rispose all’istante con uno scudo; l’altro ne approfittò per attaccarlo dal fianco, lasciato libero da Vivian.

Solo che lei era lì, pronta a difenderlo. “Appena ho un secondo libero,” gli sorrise — come se fosse una semplice esercitazione, all’accademia, o uno di quegli incarichi lunghi e noiosi, e non una situazione di vita o di morte.

Alastor non si lasciò distrarre, mentre il motto di suo padre gli si ripeteva nella mente senza permesso, e a ogni “vigilanza” colpiva, e a ogni “costante” creava uno scudo.

Vivian lo osservò con quel poco di attenzione che poteva concedersi di non riporre nei nemici e lo vide muoversi — una grazia figlia della giovane età, una forza che era tutta la sua famiglia, e una grandezza che era solo e soltanto lui.

“Crucio!” strillò il rapitore di destra, la bacchetta puntata contro Alastor, mentre quello di fronte a lei le lanciava uno Schiantesimo dopo l’altro.

“Impedimenta!”

“Expulso!”

“Bombarda!”

“Exulcero!”

A quel punto Alastor si voltò verso Vivian. “Una fattura pungente? Sei seria?”

“Non mi veniva in mente altro!”

“Reducto!”

“Protego, che cazzo!” sbottò il giovane Auror. Si fece scudo con tutta la sua forza, il braccio rigido e due mani sulla bacchetta, e fu in questo modo che si girò verso il muro… E quindi verso il fagotto di coperte che vi era appoggiato contro.

E che si muoveva.

“Stai giù!” intimò al bambino, che lo guardava con gli occhi spalancati di chi ha troppa paura persino per piangere. L’uomo che gli era più vicino seguì la scena, interrompendo per un secondo gli attacchi, e Alastor lo vide prendere una decisione; lo vide nei suoi occhi, forse, o nella sua postura. 

O forse lo sentì solo nel proprio stomaco e decise di fidarsi dell’istinto.

Nello stesso istante in cui l’uomo avanzò di un passo, senza dubbio per prendere il bambino e usarlo come scudo umano, Alastor si mosse a sua volta. Lo acciuffò per un braccio, con una presa ferrea che poteva ricordare la lotta alla Babbana, e gli ringhiò in faccia — perché sì, ogni tanto ringhiava davvero, quasi fosse un animale chiuso all’angolo, con i denti affilati e un verso che mette in guardia. 

Un verso che ricorda chi è il più pericoloso.

“Lasciami!” gli ordinò l’uomo, prima di puntargli addosso la bacchetta. Alastor gli afferrò il polso con l’altra mano e cominciò così una lotta a chi era fisicamente più forte, in cui l’allenamento da Auror mostrò i suoi frutti. La sua priorità fu spostare l’arma dal proprio petto, visto che anche solo uno Schiantesimo, se lanciato direttamente contro il cuore, glielo avrebbe potuto fermare.

Quando infine riuscì a farla puntare verso il pavimento — cioè verso il suo piede, ma in pratica era lo stesso, no? — si concesse un piccolo sospiro di sollievo.

Solo in quel momento si rese conto dell’errore.



 

Un’esplosione tanto forte avrebbe dovuto allertare chiunque e, per quanto ne sapeva Vivian, lo aveva fatto. Non poteva, però, rischiare.

Non quando Alastor giaceva a terra, dall’altra parte del cratere rispetto a lei — “Merlino, c’è un cazzo di cratere,” — e lei si sentiva la bocca piena di sangue. Non quando l’idiota con cui stava combattendo le aveva scagliato un “Bombarda” in pieno petto.

“A-Al…” lo chiamò, la voce bambina e gli occhi bagnati di lacrime. Le venne quasi da ridere, nel notare che stringeva ancora la bacchetta tra le mani.

Non era sicura di essere intera, ma aveva la bacchetta.

Allora la puntò contro il cielo, sorrise e lasciò che il suo ultimo respiro si portasse con sé un’unica parola.

Periculum.

Scintille rosse illuminarono il vicolo a giorno.



 

Furono le scintille, a risvegliare Alastor. Quelle e un dolore all’alluce sinistro così forte da farlo contorcere.

Trattenne un grido e si portò le mani tremanti al viso, quasi per assicurarsi che fosse ancora intero, mentre parte di lui si chiedeva dove fosse finita la sua bacchetta.

Voltò la testa per quanto ne fu capace, disteso com’era, le dita del piede che sembravano in fiamme e il respiro corto per la sofferenza e l’impatto con il cemento.

Cos’è successo, pensò nel notare un cratere nel mezzo del vicolo. 

“Brutto cretino!” sbraitò una voce poco distante.

Le scariche di dolore provenienti dal collo del piede non sembravano che intensificarsi e Alastor tremava, tremava tanto, tremava per non urlare. 

Per non piangere.

“Un bombarda in una strada così piccola?!” stava continuando la voce.

“È un vicolo,” borbottò Alastor allora, appoggiando una guancia sull’asfalto perché era fresco e gli sembrava che la caviglia fosse a fuoco e che cosa… Che cosa… “Che cosa mi hai fatto?!”

La lucidità non fece altro che amplificare il dolore, una pressione e un bruciore lancinanti, come se qualcuno gli stesse strappando parti della caviglia e dello stinco. Come se qualcuno glieli stesse mordendo, e ancora, e ancora…

“Auror, tutti fermi!”

Alastor si rannicchiò per metà su se stesso, lasciando la gamba sinistra dov’era, perché non era sicuro di riuscire a muoverla, e guardò dritto di fronte a sé, dall’altra parte del cratere.

“Arrestateli,” stava dicendo qualcuno, una voce familiare, maschile, calda… Ma Alastor non riusciva a pensarci.

Vivian era a terra, coperta di polvere, troppo distante e fin troppo vicina al tempo stesso.

“Alastor! Alastor!” lo chiamò una voce.

Lui non reagì, troppo impegnato a guardare la sua migliore amica.

Aveva gli occhi aperti.



 

“Signor Moody, mi sente?”

“Oh Merlino. Cosa gli hanno fatto.”

C’era una luce bianca, sul soffitto, e Alastor era disteso su un letto, ne era quasi sicuro. Ma il letto si muoveva.

“Aspetta, sembra lucido.”

“Signor Moody, può seguire la bacchetta?”

“È quella nuova maledizione.”

All’ultima voce, Alastor sussultò. Era triste, tanto triste…

Come al funerale della mamma, mormorò una parte sepolta della sua mente.

“Sa qualcosa di più al riguardo, signore?”

“So solo… So solo che è una maledizione che si diffonde in fretta. E che è mortale.”

“Faremo di tutto per salvare suo figlio, signore. Se avesse qualche altra informazione…”

Papà, pensò allora Alastor. Tentò di aprire gli occhi, la bocca, di farsi capire in qualche modo, ma il dolore era troppo intenso e continuava a salire, a salire come un’onda.

Era tutto molto luminoso, lì.

“Tutto quello che so, ve l’ho detto. Si diffonde in fretta, è mortale… È-è… La chiamano la maledizione mangiacarne.”

E tutto si fece buio.



 

La prima volta che si svegliò, Alastor lo fece per il poco tempo che gli servì per sporgersi oltre il letto del San Mungo e vomitare bile. Si addormentò così, con una mano di qualcuno sulla fronte e una a tenergli il petto, e prima di crollare riuscì a dire solo una parola.

“Vivian?”

 

La seconda volta aprì gli occhi e cominciò a urlare dal dolore, finché non divenne troppo e svenne.

 

La terza volta, mentre ogni suo muscolo si contraeva per la sofferenza, braccia forti lo tennero fermo. Tirò pugni e scalciò finché non lo costrinsero a bere qualcosa.

Si addormentò in un istante.

 

La quarta volta gridò con tutto il fiato che aveva nella gola, perché la gamba sinistra gli faceva male da impazzire e non poteva reggerlo, non poteva, non poteva davvero… E gli dicevano di calmarsi, di aprire gli occhi, di respirare, ma ogni cosa andava a fuoco e il dolore era davvero troppo.

Così urlò, vomitò, tirò pugni e scalciò, finché qualcuno di familiare non lo tenne stretto al suo petto e un Medimago non gli tolse la coperta.

Alastor aprì gli occhi, digrignò i denti.

E si calmò.

La colpa è di chi non tiene il passo con me — aveva detto a Vivian.

Devi rallentare — erano state le parole di suo padre.

A quanto pare non sarebbe più stato un problema.



 

“Amputare la gamba era l’unico modo per salvarti la vita, figliolo.”

“Lo so.”

Alastor era in piedi, ondeggiando perché per quanto ci provasse non aveva proprio il senso dell’equilibrio che aveva prima, e solo con estrema fatica avanzò di qualche passo. Suo padre era di fronte a lui, con le mani tese in avanti, come immaginava fosse accaduto vent’anni prima, davanti a un bimbo in pannolino che aveva deciso fosse tempo di smettere di gattonare.

La protesi di legno era scomoda e pesante.

“I genitori di…”

“C’è già stato tutto.”

Alastor abbassò lo sguardo. Il funerale, il discorso al Dipartimento, la visita di cortesia alla famiglia dell’Auror caduto… C’era già stato tutto. 

Cercò di fare un passo, un piccolo passo, le dita che quasi sfioravano quelle del padre.

Vigilanza, un tonfo. 

Costante, un dondolio.

Papà, un respiro.

“Perché non ti riposi un po’, ora?”

Alastor si avvicinò al letto, pian piano, e si lasciò cadere seduto in un angolo, dove il lenzuolo si stava arricciando per tutti i movimenti che compiva durante la notte.

Durante i vari incubi.

“Parlami della maledizione.”

“Alastor…”
“Parlamene.”

Aveva una tale serietà, adesso, che sembrava un uomo di cinquant’anni, e non un ragazzo di ventidue. Teneva la schiena drittissima, i denti stretti in un’espressione di pura durezza, gli occhi arrabbiati.

Almeno, si consolava suo padre, non si è spento.

Meglio arrabbiato che morto dentro.

“L’ha inventata l’uomo che te l’ha lanciata. Era sua… Dopo Hogwarts ha frequentato una qualche università Babbana e ha studiato e creato una maledizione che somigliasse a un batterio che hanno loro.”

“E ora lui…”

“È ad Azkaban, insieme a quello che ha… Che ha colpito Vivian. Abbiamo ritrovato tutti i bambini, e abbiamo i nomi degli altri complici, è solo questione di tempo.”

Alastor annuì, lo sguardo puntato sul giardino al di là della finestra. “Aveva la bacchetta puntata contro il mio petto. L’ho spostata a forza.”

“E quello,” rispose suo padre con dolce fermezza, “è l’unico motivo per cui sei ancora vivo. Sei stato bravo, figliolo, hai dimostrato forza. La stai dimostrando anche adesso.”

Gli lasciò una carezza su una spalla, fino al gomito. Se c’era una cosa buona, in tutta quella situazione, era che il loro rapporto era più stretto di quanto non lo fosse mai stato.

“E il movente?” continuò Alastor, imperterrito. Voleva sapere — doveva sapere.

“Avevi ragione, era traffico di maghi. Abbiamo individuato quasi tutte le famiglie implicate e sono sotto processo proprio in questi giorni.”

“E i… I bambini?”

“A questo proposito…”

Suo padre uscì dalla stanza con poche, ampie falcate che Alastor seguì nel riflesso sul vetro, e sparì dal suo campo visivo; tornò appena un minuto dopo, un enorme cesto tra le mani.

“Te lo lascio qui,” mormorò appoggiandolo sul letto. “I bambini volevano ringraziarti.”

“Ne ho salvato solo uno.”

“No. No, Alastor, lo sai bene. Li abbiamo trovati solo perché abbiamo preso il capo dell’operazione.” 

E a quel punto se ne andò davvero.

Ad Alastor non rimase altro che pensare, in solitudine, a Vivian. A Vivian, ai suoi capelli corti e sbarazzini, al suo finirgli sempre addosso, alla sua risata sguaiata… E al nuovo partner che un giorno il Dipartimento gli avrebbe affidato — e che mai sarebbe stato minimamente all’altezza.

Si trascinò sulle coperte fino a sedersi contro la testiera del letto. Il cesto portato da suo padre era di vimini, lungo come il suo braccio e altrettanto largo, con decorazioni fatte da nastrini di mille colori.

Era luminoso, felice, innocente.

Dentro era pieno di disegni arrotolati e legati con lo spago, alcuni semplici macchie di colori, che dedusse fossero dei bambini più piccoli, e altri più complicati, con persone, animali o situazioni.

E poi c’erano dolcetti di ogni tipo.

Alastor osservò i Calderotti, il cui solo aspetto un tempo gli avrebbe causato l’acquolina in bocca, e le confezioni di Api Frizzole. Gli Zuccotti di Zucca, le Gelatine Tuttigusti + 1, i Fildimenta Interdentali, c’era di tutto. Persino una bottiglia di Succo di Zucca, tre porzioni di Ananas canditi e due di Lumache Gelatinose.

E poi, a coprire il fondo, Cioccorane. Avevano comprato decine di confezioni e Alastor vi mise le mani in mezzo, a mescolarle come fossero ingredienti di una pozione.

Ne prese una in mano. 

Il solo guardarla gli tolse un po’ il respiro.

Lui e Vivian avevano parlato a lungo, di quando sarebbero diventati gli Auror più famosi di sempre, e di come le loro carte sarebbero state quasi introvabili.

“Questa te la dedico, Vì,” mormorò al nulla, al vuoto che lei aveva lasciato andandosene via troppo presto.

Infilò un dito sotto un angolo, tirò con altre due, la confezione si aprì… E la Cioccorana saltò via.

Alastor si lanciò in avanti, per riprenderla, e un’ondata di nostalgia lo colpì. Da piccolo aveva l’abitudine di dar loro qualche secondo di vantaggio, prima di afferrarle — non per cattiveria, ma piuttosto per allenamento. Era stato convinto, per tutti gli anni dell’infanzia, che questo metodo di mangiare le Cioccorane affinasse i sensi e i riflessi, e che lo avrebbe quindi aiutato a diventare un Auror migliore.

Le aveva sempre riprese, questo era ovvio, visto che avevano un solo salto degno di questo nome, ma lo aveva fatto sentire grande, bravo.

E invece ora il semplice slancio per afferrarla gli aveva fatto perdere l’equilibrio… Ed era finito per terra. Per terra, appoggiato per metà al letto, con una gamba che non c’era più, sostituita da un pesante pezzo di legno, a impedirgli di scattare in piedi.

E la Cioccorana gracidava, fissandolo come se lo stesse sfottendo; gracidava e gracidava, dal tavolino che era vicino, Alastor lo vedeva, ma non abbastanza.

Una fortissima frustrazione prese possesso del suo corpo e allungò una mano verso il cesto di ringraziamento. Agguantò un’altra Cioccorana e la lanciò contro il muro con più forza possibile, poi ripeté il gesto una seconda volta e pure una terza e una quarta.

Non urlò solo per non attirare l’attenzione del Medimago.

Restò lì, seduto a terra, con il busto appoggiato al letto e le guance coperte di lacrime, per chissà quanto tempo.

Io non sono così, pensò dopo quelle che parvero ore.

No, si ripeté. Io non sono così.

A quel punto afferrò un’ultima Cioccorana, aprì la confezione quanto bastava per infilarci due dita e strinse la presa sul dolcetto, subito immobile. Dopodiché se lo mise in bocca e masticò con la soddisfazione di un Capitano che alza al cielo la Coppa di Quidditch.

Poteva farcela.

Appoggiò una mano sul letto, l’altra contro il muro, e si tirò in piedi.

Un passo alla volta.



 

Il Capo Moody sorrise, nel vederlo entrare nel suo ufficio — erano passati così tanti mesi da sembrare quasi un miraggio. 

“Vieni, vieni, accomodati.” 

Alastor si sedette con una rigidità che non aveva niente a che fare con la protesi, ma che aveva acquisito da quella terribile notte. Era diventato più serio, più sicuro di sé — sebbene in modo diverso da prima, meno strafottente.

Più vecchio, in qualche modo.

Salutò l’uomo solo con un cenno, perché al lavoro i loro ruoli cambiavano, ed erano molto più che padre e figlio; non importava quanto fossero uniti, quanto tempo passassero insieme fuori dall’ufficio.

Gli ci era voluto un po’, ma lo aveva capito.

Nessun sentimento di troppo.

Nessuna distrazione. 

Vigilanza costante.

“Ora che sei di nuovo in grado di lavorare,” esclamò il Capo battendo le mani, “ho pensato che potresti dedicarti alla parte tecnica.”

“Vuole che mi occupi delle scartoffie?” domandò Alastor, la voce bassa e glaciale. Il ragazzo che reagiva d’impulso, senza pensare, se n’era andato per permettere la nascita di un uomo forte e centrato.

Questo però non significava accettare a testa bassa anche ciò che non gli andava bene.

“Penso tu abbia bisogno di un periodo per riprenderti, Alastor,” mormorò suo padre, sorpreso che gli desse del lei. “E poi, restare in sede è l’unico modo per cui non hai bisogno di un partner. Quello che è successo a Vivi-”

“Mi sono già ripreso. Riesco a muovermi, a camminare, a volare, a fare tutto quello che riescono a fare gli altri Auror,” lo interruppe Alastor. “Posso cavarmela da solo. Ma se non mi crede mi può affiancare un partner, non mi interessa.”

“Figliolo…”
“No.”

Non fu una risposta cattiva, o da bambino, e infatti la pronunciò con totale calma, che mostrava quanto serio fosse al riguardo. Quanto fosse sicuro.

“Signore,” lo apostrofò e per la prima volta quella parola rivelò soltanto rispetto della gerarchia. “Non mi metta in panchina. Sono fatto per lavorare fuori, stare per strada, sul campo.”

Si alzò, stabile sulla protesi come fosse sempre stata parte di lui, e appoggiò una mano tremante sulla scrivania che li divideva. “Non mettermi in panchina, papà.”

Lo fissò dritto negli occhi.

“E giuro che ti riempirò Azkaban.”





 

“Che hai fatto?”

Il ragazzo si riscosse dall’apatia in cui aveva lasciato scivolare la propria mente e alzò lo sguardo. A pochi metri da lui, con una divisa così sporca da fargli venire la nausea, un uomo di mezza età lo fissava con gli occhi accesi di interesse.

“Chi ti ha mandato qui?”

“Lasciami in pace,” replicò duramente il più giovane. Si stava rendendo conto per davvero del tipo di situazione in cui era finito e il suo stomaco non era sicuro di come voler reagire. Neanche la sua faccia, a essere sinceri, visto che era a metà tra il ridere e il piangere.

Un Dissennatore, forse attratto proprio da quel desiderio — che di allegro, però, non aveva proprio niente —, si avvicinò. Svolazzò con lentezza, portando ogni detenuto a schiacciarsi verso l’altra parte della cella nel tentativo di aumentare la distanza tra loro.

Merlino, se faceva freddo.

Un lieve strato di brina aveva ricoperto il muro e le sbarre… Ma lui non le vedeva più. No, erano volti, a osservarlo, persone che aveva amato e che aveva deluso. Che aveva perso senza possibilità di rimediare. 

Sono un mostro, pensò. Un mostro, un mostro, un mostro, un mostro…

Si coprì le orecchie con le mani e nascose il viso tra le ginocchia.

Non aiutò, non aiutò per niente, e quando finalmente il Dissennatore avanzò, si scoprì a star tremando dalla testa ai piedi.

“Vuoi sapere una cosa?”

Il nuovo arrivato lanciò all’uomo un’occhiata vuota, senza energie sufficienti per costringerlo a tacere; il tutto dovette essere preso per un entusiastico “sì”, perché questi rise e si dondolò sul posto.

Merlino, finirò allo stesso modo, pensò il giovane.

“Questo posto è pieno grazie a lui. Alastor Moody. Io l’ho conosciuto, sai, quand’era giovane.”

Improvvisamente attento, si strinse alle sbarre per avvicinarsi a quell’amico improvvisato. “Ah sì?” ghignò.

L’altro sorrise, rivelando pochi denti, tutti marci, e scivolò a sua volta verso il corridoio.

“Vuoi sapere un segreto?”

“Veloce,” lo incitò il ragazzo. 

Tutta quell’esaltazione avrebbe potuto attirare i Dissennatori da un momento all’altro.

“Io… Sono stato io,” rivelò il più vecchio.

“Tu? A fare cosa?”

“A toglierli una gamba!”

Rise, allegro come solo la follia poteva rendere qualcuno, e il giovane si trovò a imitarlo.

“Vuoi sapere una cosa?” lo imitò quando si furono calmati.

“Sì, sì, dimmi!”

“Io gli ho tolto un occhio.”

Si sorrisero tra le sbarre — e un Dissennatore calò su di loro.

 












> Altra piccola nota, che non volevo mettere all'inizio per non spoilerare: nel film la protesi è di ferro, nel libro di legno. Ho dovuto fare una scelta ahha
______________________________________

> Storia partecipante al contest “Prof. Lei com’era da giovane?” indetto da Marika Ciarrocchi/AngelCruelty sul forum di EFP, con:
-
Lancio incantesimo particolarmente potente o maledetto

- Vicolo buio

- Cioccorana

- Dissennatore

 

> Storia partecipante al contest "Law & Crucio", indetto da Greynax sul forum di EFP.

  
Leggi le 5 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: DeaPotteriana