20
Castle
Quelle che erano seguite erano state le ore più intense e memorabili della sua vita. Avrebbe potuto giurarlo.
Una volta guadagnato l'ingresso dell'ospedale, furono accolti da un medico di poche parole che la visitò sommariamente e la mise sotto tracciato per valutare dilatazione e contrazioni. Se ne andò in fretta, lasciandoli nelle mani di un'ostetrica dal piglio autoritario che Castle ribattezzò subito "Rottermeier". Era di una certa età e stazza – modi spicci e aria arcigna -, per niente impressionata dal grande evento in programma, cioè la nascita del suo prezioso bambino. E Kate? Non vedeva che soffriva? Non poteva essere un po' più empatica, visto il mestiere che faceva?
Nonostante non avesse espresso ad alta voce le sue legittime obiezioni, Rotty gli lanciò un'occhiata penetrante – era sicuro che gli avesse letto nel pensiero – e se andò a sua volta trascinando gli zoccoli sul pavimento, dopo aver laconicamente proclamato un "Ci siamo", che lo confuse ancora di più. Che cosa significava? Solo che non si trattava di un falso allarme o che tra due minuti sarebbe nato? Qualcuno poteva spiegare meglio? Appendere delle istruzioni alle pareti? Doveva chiamare il sindaco? Lo avrebbe fatto, stessero a vedere.
Osservandola scomparire oltre la porta, si sentì stranamente piantato in asso. Kate era invece rimasta in silenzio da quando aveva sentito risuonare il battito forte del bambino, a significare che non stava mostrando nessuna sofferenza fetale. Era rimasta docile tra le mani di quelli che, lui personalmente, considerava dei macellai.
In principio, convinto che lei volesse preservare un certo grado di privacy – era sempre stata molto chiara a riguardo – aveva preferito allontanarsi dalla sua postazione con discrezione, quando l'avevano sottoposta al primo round di visite. Kate lo aveva richiamato e gli aveva intimato di rimanere, quasi in preda al panico. Era stato l'unico momento in cui aveva perso la calma. Era corso da lei, pronto a tenerle la mano e a esaudire ogni suo desiderio.
L'ostetrica, convinta che avesse abbandonato il campo per debolezza, lo aveva apostrofato ironicamente chiedendogli come pensava di sopravvivere fino alla fine, se si impressionava tanto per una visita. Come avrebbe fatto quando sua moglie avrebbe sofferto davvero?
Aveva provato la voglia irresistibile di ribattere che, in primo luogo, non era sua moglie. Anzi, perché non tiravano fuori l'argomento, così magari li avrebbe illuminati con qualche dispotica riflessione sui bambini che vengono al mondo nell'illegalità?
Dopo l'iniziale euforia, le cose proseguirono invece più lentamente del previsto. Scoprirono con rammarico che l'ostetrica aveva semplicemente voluto dire che da lì a qualche punto temporale prima della fine del mondo, Kate avrebbe partorito. Per questo non erano stati mandati a casa ad attendere il momento giusto. All'ingresso in ospedale era dilatata di pochissimo, e, nonostante i dolori fossero diventati gradualmente più intensi e ravvicinati, non c'era stata nessuna progressione significativa.
A intervalli regolari e secondo uno schema che aveva imparato a riconoscere, Castle si accorgeva dell'arrivo della successiva contrazione, spiandola sul monitor. Kate chiudeva gli occhi, stringeva i denti, tratteneva il fiato e si ripiegava su se stessa. Lui moriva un pezzetto per volta, vedendola soffrire senza poter fare niente per aiutarla. Dopo un tempo interminabile, finalmente si rilassava e lui riprendeva le sue funzioni vitali.
Non sapeva come facesse a sopportarlo con tanta compostezza, lui di sicuro avrebbe gridato come un'aquila.
Ogni tanto Rotty si degnava di tornare da loro per controllare la situazione. Aveva parlato un'unica volta, per ordinarle di alzarsi dal letto e camminare, sostenendo che avrebbe alleviato il dolore.
Scommetto che da Guantanamo ti chiamano per avere delle consulenze, aveva pensato Castle, cercando di mantenere un'espressione imperturbabile.
Non sembrava che stare in piedi avesse migliorato la situazione. La differenza sostanziale era che adesso, al sopraggiungere delle contrazioni, si aggrappava al muro e a lui, chiedendogli di premerle con forza le mani sui reni, cosa che lui si affrettava a fare, ricordandosi di averlo visto in qualche film.
Aveva anche iniziato a tremare violentemente nelle fasi più dolorose, convincendolo che ci fosse qualcosa di tremendamente sbagliato in tutta la faccenda. Ma a nessuno sembrava importare delle loro traversie.
Ebbe più volte la tentazione di prenderla in braccio e fuggire per portarla in un vero ospedale, perché non era convinto che quello fosse il tipo di assistenza che un Paese civile dovesse garantire ai suoi cittadini.
Con il passare del tempo, Kate cominciò ad apparire stanca e provata. Nonostante l'ammirevole compostezza fin lì mantenuta, ammise di non farcela più. Che cosa aspettava l'anestesista? Un mandato? Vai a cercarlo, Castle, gli ordinò, facendolo sobbalzare. Non si era aspettato il ritorno della vecchia Beckett in versione autoritaria.
Fece come gli era stato detto. Uscì in corridoio, agguantò il primo medico che si trovava a passare di lì, lo convinse a entrare e infine mandò un messaggio furente al ginecologo di Kate, imponendogli di intervenire o li avrebbe denunciati tutti. Non ne poteva più. Perché non scrivevano anche "Partorirai nel dolore" e "Pentiti di aver commesso atti impuri" sui muri, già che c'erano?
Finalmente, quando erano ormai oltre la soglia della tolleranza, l'anestesista di turno si fece vivo con passo flemmatico. Con comodo. Non voleva fermarsi a fare uno spuntino, prima?
I dolori diminuirono. Kate si rilassò e lui con lei. Stesa sul letto, girata dalla sua parte, i capelli legati, una mano abbandonata tra le sue, riuscì perfino a ricominciare a scherzare.
"Grazie", gli disse con un tono molto dolce che non riconobbe come suo. Perché lo ringraziava?
"Non ce l'avrei mai fatta senza di te", aggiunse. Era vero il contrario, probabilmente.
"Sei stata bravissima, invece. Non so come tu abbia fatto a essere tanto stoica. Io a quest'ora sarei già morto".
"Perché c'eri tu".
L'epidurale doveva averle dato alla testa. Le accarezzò i capelli. Si rese condo ti non averla mai amata tanto come in quel momento, fragile e sfinita tra le lenzuola candide.
Passarono altre ore. Fuori iniziò a imbrunire, scese infine la notte. Non si accorsero di niente. Il loro mondo era limitato alla loro stanza. Parlarono a bassa voce, si sorrisero molto. Lei sonnecchiò e lui appoggiò la testa alle sbarre del letto, per tenerla d'occhio e, in fondo, proteggerla.
Beckett
Era mattina, poco dopo l'alba. Era distesa sul letto, incapace di dormire, la porta chiusa per isolarla dal rumore della attività ospedaliere di routine. Osservava suo figlio, Jamie Alexander Castle, che dormiva quieto tra le sue braccia.
E, quindi, sei tu, Jamie, gli sussurrò, le labbra contro la pelle morbida della fronte.
Provava una curiosa sensazione di familiarità. Le sembrava che ci fosse stato da sempre.
Che cosa ho fatto fino adesso, in tua assenza? Come è passato il tempo?
Il ricordo di quello che era successo la notte prima era vago e confuso. A un certo punto le cose avevano preso il volo, era stata trasportata in sala parto, la stanza si era riempita di gente che gridava ordini Non spingere, Kate, non spingere e poi Sì adesso sì, spingi.
Per qualche istante paralizzante aveva ceduto al panico, perché non capiva come mettere in pratica le istruzioni.
Poi, in un momento imprecisato, e senza sapere come, era scesa dentro di sé in un posto che non sapeva esistesse, oscuro e palpitante, in cui lei e il bambino erano stati una cosa sola. Ne sarebbero usciti insieme, ce l'avrebbero fatta. Era stata raggiunta da un'energia sconosciuta, si era sentita concentrata e imbattibile e aveva dato retta a un istinto potente e irresistibile che la invitava con forza a farlo nascere.
Non aveva più sentito le voci, i rumori, si era si era dimenticata che Castle fosse lì con lei. Di colpo, Jamie era scivolato fuori dal suo corpo, e, con sua incredulità, se l'era ritrovato appoggiato sulla pancia, caldo e vivo.
Era stata davvero capace di farlo? Era proprio il suo bambino?
Nel corso dei mesi si era chiesta spesso come avrebbe reagito quando lei e suoi figlio si sarebbero incontrati per la prima volta, ma non era successo niente di quello che si era immaginata. Non si era commossa, non aveva pianto, Castle non era svenuto – e questo, in effetti, era bizzarro. Aveva solo pensato: "Ci siamo dati appuntamento tanto tempo fa, e adesso ci siamo ritrovati. Perché hai aspettato tanto?"
Il bambino, Jamie, aveva aperto gli occhi e l'aveva fissata con uno sguardo così serio e solenne da arrivarle dritto al cuore e impiantarsi nella sua anima.
Lei, sorprendendo tutti, perfino se stessa, non aveva pronunciato una frase importante e simbolica che suggellasse il loro primo, significativo, incontro, come: "Ciao, sono la tua mamma", o "Eri tu ad avere quei terribili gusti in fatto di gelato?", ma lo aveva guardato per un attimo e aveva esclamato: "Cazzo, Castle, è identico a te!", con una voce talmente venata di rimprovero da far girare molte teste in direzione del padre colpevole lì presente.
Castle si era dovuto difendere da numerose occhiate sospettose balbettando che, magari, era solo un'impressione. Ridacchiò nel ricordarlo. Anche il suo ginecologo, che aveva appena iniziato il turno, era arrivato a dare la sua opinione ammettendo una leggera somiglianza tra padre e figlio.
Non li avevano lasciati soli abbastanza a lungo, dopo che Jamie era nato. La necessità fisica di vicinanza era rimasta inappagata ed era ora il suo più grande rimpianto. Lei avrebbe voluto cacciarli via tutti e chiudere a chiave la porta per avere il tempo di riconoscersi in questa nuova identità. Lei e Castle. Dovevano guardarsi negli occhi e prendere atto di quello che era successo, che li avrebbe cambiati per sempre.
C'era stato solo qualche minuto rubato in cui erano stati loro tre e basta, il bambino ancora disteso su di lei e Castle in silenzio, che non osava toccarlo. Si era limitato a spostargli delicatamente i capelli, che aveva in abbondanza e che sembravano incollati alla testa. Come lui, appunto.
Avrebbero avuto bisogno di calma per riuscire a comunicarsi le emozioni che stavano provando e riunirsi dentro al cerchio magico del loro amore. Le sarebbe soprattutto piaciuto tornare a sentire la voce di Castle, visto che, da quando Jamie era nato, non aveva ancora commentato l'evento. Incredibile da dirsi.
"Io... non riesco...", aveva farfugliato deglutendo, incapace di fare altro che fissarli alternativamente con incredulità e riverenza, come se fossero stati due esseri divini che avevano appena finito di compiere un miracolo.
Irrompendo nella loro bolla senza alcun riguardo, le avevano portato via il bambino per sottoporlo a ulteriori visite. Aveva fatto cenno a Castle di seguirlo. Era la cosa più importante.
Si erano ritrovati più tardi, lei piena di adrenalina e lui esausto come non l'aveva mai visto. Gli aveva suggerito di andare a casa, provare a dormire e tornare al mattino. Aveva calcato la mano per convincerlo, perché si era accorta che lui non avrebbe voluto lasciarla, pur non avendo recuperato la sua solita loquacità. Il che era allarmante. Prima di andare via l'aveva abbracciata forte senza parlare. Aveva capito che era il suo modo di dirle tutto quello che si agitava in lui e che non riusciva a esprimere.
Non era riuscita a dormire. Si era sentita svuotata. Letteralmente. Le era sembrato strano che Jamie non fosse più con lei. Si era toccata la pancia incredula che lui non ci fosse più. A dire il vero, continuava a sentire i suoi movimenti e a pensarsi incinta.
Pensieri che non avrebbe mai pensato potessero ronzarle in testa avevano iniziato a opprimerla. Che cosa farò se gli succede qualcosa? Come farò a renderlo felice? Sono completamente responsabile di un altro essere umano e non ho ancora imparato a esserlo di me stessa. Avrebbe voluto riaverlo dentro di sé, per tenerlo al sicuro. Le mancava. Era qualcosa di indescrivibile che non era ancora riuscita a decifrare del tutto.
Al mattino erano arrivati a portarglielo.
Era stato strano aver cambiato improvvisamente identità. Non era più Beckett, Kate, o, al limite, Detective. In reparto le chiamavano tutte "Mamma", e per lei era una cosa talmente nuova che quando erano entrati chiedendo della "Mamma di Jamie", non aveva risposto. L'infermiera della nursery aveva ricontrollato il braccialetto, l'aveva scrutata e le aveva domandato se andasse tutto bene. Girandosi per rispondere aveva scorto la culla con dentro il bambino, si era accorta di quello che era successo e si era profusa in scuse.
Voleva godersi ogni istante con lui, prima che numerosi visitatori ansiosi ed entusiasti irrompessero per conoscerlo. Voleva imprimersi nella mente ogni lineamento, ogni piega nascosta, imparare a memoria ogni centimetro del suo corpo, tracciare con le dita il bordo delle minuscole orecchie e delle palpebre e annusarlo nella piega del collo.
Non riusciva a smettere. Era come una droga, ammise con se stessa, accarezzandogli i piedini sotto la coperta.
Stava pensando che forse il momento meritava qualche discorso madre-figlio, tipo "Jamie, tuo padre è molto meglio di me, ma io ti insegnerò a dare la caccia ai cattivi", quando sentì bussare alla porta e vide la testa di Lanie fare capolino.
"Ciao, ti hanno lasciato entrare così presto?". Era contenta di vedere l'amica, ma non le sarebbe dispiaciuto avere Jamie solo per sé un po' più a lungo.
"Ero già qui. Ho portato dei campioni in laboratorio". Fece un gesto con la mano. "Non è vero, volevo essere la prima a vedere Baby Caskett", ammise, concentrata sul bambino, a cui faceva da lontano sorrisi e smorfie.
"Baby Caskett? Usi anche tu quel nomignolo?", le chiese con aria di disapprovazione.
Non l'ascoltò, avvicinandosi al letto."Ma tu sei davvero Baby Caskett, vero Jamie? Vero, piccolino? Lo sai che la mamma per anni non ha voluto saperne niente del tuo papà e poi, d'un tratto, eccoti qua? Ti ha già raccontato questa storia?", riprese con voce cantilenante, rivolgendosi solo a lui.
"Ehi! È troppo giovane per sapere queste cose", si lamentò Kate, che se lo teneva stretto temendo che, da un momento all'altro, Lanie le proponesse di prenderlo in braccio, prospettiva che la metteva a disagio. Era suo e non voleva farlo toccare a nessuno. Non sapeva da dove arrivasse quell'istinto, se fosse normale, o sano, ma era quello che sentiva.
Lanie in realtà non le chiese niente e non lo toccò nemmeno. Si limitò a guardarlo e a sorridere, facendola rilassare.
"Non è strano?", esordì Kate un po' imbarazzata dopo qualche minuto di silenzio.
"Il bambino è strano? Deve aver preso da Castle, allora", rispose prontamente Lanie.
"No, non lui. Io, in questa situazione. Avresti mai pensato di vedermi così? Con un bambino?". Pronunciò la parola "Bambino" come se intendesse "Piccolo di istrice".
Lanie la osservò, prima di dare la sua opinione.
"Sì, è strano", concluse lapidaria. Sapeva di poter contare sulla sua onestà. "Però non mi sembra che tu te la stia cavando male", la rassicurò.
"Già. Anche io mi trovo meno peggio del previsto", le confidò.
"Gli hai contato le dita?", si informò l'altra.
"No, perché?", si allarmò Kate. "Dovrei farlo? Nessuno mi ha detto niente".
"È quello che sostengono tutti di fare appena nasce un bambino. Pensavo fosse una specie di tradizione segreta delle madri".
A una successiva conta, tutte le dita si rivelarono essere al loro posto, con grande sollievo di madre e zia.
Lanie si concentrò successivamente sul viso del bambino, studiandolo. "Ha davvero preso tutto da Castle", si stupì. "È incredibile, sono identici".
"Vero? Ho cercato qualcosa di mio, ma non sono riuscita a trovarlo". Ne era un po' dispiaciuta.
"Fammi vedere meglio. Deve pur assomigliarti in qualcosa". Strinse le labbra. "Forse la linea del naso, proprio qui?", indicò, sempre senza toccarlo.
Kate si concentrò sul punto in questione, lo valutarono insieme, ma infine Lanie fu costretta ad ammettere che, no, Jamie era proprio uguale a Castle in tutto e per tutto. Kate sbuffò delusa e risero insieme.
Lanie se ne era andata da poco, quando la porta si aprì di nuovo. Questa volta, quando riconobbe il visitatore, non le venne l'istinto di sguainare la spada per difendere il suo pargolo.
"Guarda chi c'è, Jamie", si rivolse felice al bambino, mostrandogli il nuovo arrivato.
Castle si fermò all'ingresso della stanza a rimirare la scena.
"Castle, hai quell'espressione", lo richiamò all'ordine.
"Quale espressione?".
"Quella di quando stai per donarci oro, incenso e mirra", lo prese in giro.
Castle le fece una smorfia, le sorrise e si chinò a baciarla sulla tempia, accarezzando la testolina di Jamie.
Glielo allungò, perché lo prendesse in braccio. Castle lo accolse con grande delicatezza. Lei aveva una fame da lupo e intendeva concedersi tutto quello che le era stato vietato in gravidanza. Addentò il panino che Castle le aveva portato, dietro sua precisa indicazione. Era squisito.
Castle
Andò verso la finestra, lasciandola alle prese con la sua inconsueta colazione. La verità era che voleva rimanere finalmente da solo con suo figlio, dopo la confusione della notte precedente, di cui non era sicuro di ricordare perfettamente gli eventi. Non avrebbe voluto tornare a casa quando tutto si era bruscamente concluso, avrebbe preferito stare con lei, con loro, ma Kate lo aveva praticamente costretto ed era stato troppo stanco per protestare. Probabilmente non gli avrebbero permesso di rimanere in ospedale in ogni caso.
Una volta raggiunto il loft, esausto, si era accasciato sul divano, senza avere la forza di farsi una doccia e sdraiarsi sul letto, convinto di perdere i sensi all'istante. Al contrario, avevano continuato a scorrergli davanti caotiche immagini di quello che era successo.
Non l'aveva ancora detto a nessuno, a quel punto. Il che era difficile da spiegare anche per lui, considerando che era sempre stato convinto che sarebbe uscito a gridarlo al mondo intero e visto che uno dei loro problemi più grandi era stata la segretezza che lei gli aveva imposto all'inizio. Aveva voluto invece prolungare il più possibile il momento in cui sarebbero esistiti unicamente loro tre, prima di tornare a far parte del mondo.
Si guardò riflesso nel vetro. Era al corrente del fatto che tutti credessero che lui non aveva problemi con i neonati, che gli piacevano – il che era vero -, e che essere padre era per lui come una seconda natura.
Cullando il piccolo Jamie tra le braccia, felice e atterrito insieme, si fece viva un'inconsueta sensazione di smarrimento. Si chiese se sarebbe stato all'altezza. Quando era nata Alexis lui era stato giovane e spensierato e aveva vissuto tutto con allegra noncuranza. Era stato sicuro, con una certa dose di incoscienza, che sarebbe andato tutto bene, anche se crescere una figlia da solo non era stato sempre semplice. Sarebbe stato in grado di farlo anche questa volta? Li avrebbe resi felici? Ce l'avrebbero fatta?
Era iniziato tutto un giorno d'estate caldo e frizzante, che li aveva fatti ubriacare di euforia, e adesso, meno di un anno dopo, si trovano legati da qualcosa di più grande della semplice somma di loro stessi. Sentì di avere tra le mani qualcosa di prezioso e importante. Non voleva rovinarlo.
Tornò da lei, si sedette sul letto e posizionò il bambino in mezzo a loro, con le teste vicine a osservarlo. Da fuori dovevano sembrare due idioti che non riuscivano a smettere di toccarlo, fare commenti e poi ridacchiare a bassa voce. Jamie si era limitato a guardarli entrambi, lievemente seccato.
"Scusa per stanotte. Non intendevo davvero spararti", gli disse Beckett.
"Non ti basteranno le scuse, hai spaventato a morte tutti i presenti", le rispose molto serio. Era andata proprio così, anche se lei credeva scherzasse.
"Immagino siano abituati a sentire i padri venire minacciati di morte dalle future madri".
"Naturalmente. Fino a quando non hai aggiunto, con quella vena che ti pulsa sempre in fronte quando sei leggermente contrariata: 'Guardate che sono un poliziotto e ho davvero una pistola. Io lo ammazzo sul serio se non lo fate smettere!'"
Beckett ridacchiò. "Castle, eri insopportabile, ammettilo. Non facevi che ripetere a pappagallo le istruzioni del medico, come se sapessi di cosa stavi parlando. Dovevo zittirti in qualche modo".
"Mi hanno proposto una scorta, tanto sei stata convincente. Non ho ancora rifiutato".
Per frenare ulteriori proteste, si chinò verso di lei e la baciò sulle labbra. La notte prima si era sentito così sconvolto e sopraffatto dalla magnificenza di quello che era successo, da non aver saputo che cosa dire.
Le era immensamente grato per avergli permesso di entrare nella sua vita, aver tenuto duro e aver compiuto da sola quel prodigio. Aveva trovato solo parole banali per comunicarglielo. Aveva preferito starsene zitto.
Adesso sarebbe stato il momento perfetto per un gesto importante, quello per cui era pronto da molto tempo e che aveva rimandato solo perché lei glielo aveva chiesto. La vide felice e volle bearsi di tutta la sua gioia, senza oscurarla. All'ultimo non ebbe il coraggio di rischiare di sentire un no come risposta e rovinare così i loro primi momenti insieme a Jamie. Guardò il bambino tra di loro e pensò che bastava quello, per ora.
"Se non avessi visto con i miei occhi che l'hai partorito tu, penserei di averlo clonato. Beckett, come hai fatto?!", cambiò discorso, scegliendo un terreno meno scivoloso.
"È quello che ho sostenuto dall'inizio – e con me l'intero reparto - mentre tu dicevi che era solo una mia impressione".
"Mi sembra di far parte di uno di quegli angoscianti romanzi sul tema del doppio che ho studiato al college. Tipo William Wilson di Poe".
"Non avevi una citazione meno inquietante?", replicò Beckett tagliente.
"Guarda che è davvero straniante. Non avresti voluto che assomigliasse un po' anche a te?"
Lo fulminò. "L'ho solo tenuto in grembo nove mesi e qualche giorno e l'ho appena partorito dopo ore di sofferenza, perché mai dovrebbe importarmi di non condividere con lui nemmeno un piccolo tratto fisico?", lo rimbeccò.
"Hai guardato bene? Le mani, forse?", le suggerì Castle, che voleva smettere di avere l'angosciante sensazione di specchiarsi in se stesso, in piccolo.
Kate mise la sua mano vicina a quella del bambino, le paragonò entrambe, ma infine dovette ammettere, ancora una volta, che era il ritratto di suo padre. Ovunque.
"Il prossimo assomiglierà tutto a me, se non ti spiace", gli sorrise, riprendendosi il bambino tra le braccia e baciandolo sulla fronte.
Lui la guardò allibito. Il prossimo? Voleva rifare tutto da capo? Doveva riprendersi o tutte quelle emozioni l'avrebbero messo fuori combattimento. Era più che felice. Si sentì benedetto dalla sorte.
...
Uscirono nell'aria primaverile. Jamie era al sicuro nella navicella che lui teneva saldamente in mano. Beckett camminava accanto a loro con la borsa a tracolla.
Si fermò e si girò verso di lui, prima di arrivare all'auto, costringendolo a smettere di camminare a sua volta. "Da quanto tempo vai in giro con l'anello in tasca?", gli chiese con il suo miglior tono inquisitorio. Mancava solo la lampada puntata negli occhi.
Cercò di dissimulare la sorpresa, chiedendosi come avesse fatto a saperlo. Aveva cercato in ogni modo di non farsi scoprire ed era anzi sicuro che non glielo avesse mai trovato addosso. Ma era una detective, doveva averlo sospettato e averne avuto la certezza dopo averlo interrogato nel sonno.
Con tutta la dignità che aveva, fece la sua confessione.
"Mesi", ammise. Non aveva senso negare.
Lei non si arrabbiò, la vide invece illuminarsi e lui, per la prima volta, sentì nascere dentro di sé la speranza.
"Posso... ?"
"No", si affrettò a rispondergli bruscamente. Poi si mise a ridere, lo prese sottobraccio, e gli disse con semplicità e con un tono carico di promesse: "Vedremo, Castle. Adesso andiamo a casa".
The end -
Grazie per aver seguito di nuovo questa storia con me! Silvia