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Autore: Moonfire2394    12/02/2020    0 recensioni
I genitori di Leona e Gabriel vengono uccisi brutalmente da un trio misterioso di vampiri in cerca delle mitiche "reliquie". Dopo il tragico evento, verranno accolti al campo Betelgeuse, un luogo dove quelli come loro, i protettori, vengono addestrati per diventare cacciatori di creature soprannaturali. In realtà loro non sono dei semplici protettori, in loro alberga l'antico potere dei dominatori degli elementi naturali: imedjai. Un mistero pero' avvolge quell'idilliaco posto e il subdolo sire che lo governa: le strane sparizioni dei giovani protettori. Guidata dalla sete di vendetta per quelli che l'avevano privata dei suoi cari, Leona crescerà con la convinzione che tutti i vampiri siano crudeli e assetati di sangue. Fino a quando l'incontro con uno di loro, il vampiro Edward Cullen, metterà sottosopra tutto quello in cui ha sempre creduto facendo vacillare l'odio che aveva covato da quando era bambina. Questo incontro la porrà di fronte a una scelta. Quale sarà il suo destino?
Una storia di avventura, amicizia e giovani amori che spero catturi la vostra attenzione:)
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro personaggio
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Precedente alla saga
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Capitolo 1 - L'incendio

Siracusa, 3 luglio 1946
Stavo seduta sulla panchina, alternando il movimento delle gambe, nel giardino di casa con indosso una coperta lercia e intrisa di fumo. Non capivo perché me l'avessero data, c’era un caldo tremendo. Mi fischiavano le orecchie, ogni rumore era ovattato, come se fossi stata chiusa dentro una scatola. Degli uomini con tute gialle e delle buffe maschere correvano a destra e a manca creando il caos: assomigliavano tanto a uno sciame d'api. Gridavano squarcia gola fra loro ma non riuscivo ad afferrare il senso nemmeno di una parola. La mia attenzione era rivolta altrove. La casa di fronte a me era avvolta dalle fiamme e non c'era modo di placare l'incendio. Il sole era coperto da una cortina nerastra a forma di fungo. Osservavo l'uomo-ape aggrapparsi alla chilometrica scala. Teneva fra le mani una pompa dell'acqua. Fantasticai un po’: chissà se con quella scala sarei potuta arrivare fin lassù nel cielo per abbracciare la mia mamma e il mio papà per l’ultima volta. Non esisteva nessun altro essere umano su questa terra che meritasse più di loro il paradiso. Sebbene fossi perfettamente consapevole che non sarebbero più tornati, feci credere allo zio di essermi bevuta la sua ridicola storiella sul loro fantomatico lungo viaggio. Mi aveva riempito di domande senza pietà, non vedeva che non riuscivo nemmeno a dischiudere le labbra?
Tentai comunque di ricostruire, come i pezzi di un puzzle, quello che era accaduto rivisitando più volte lo stesso ricordo confuso e frammentato.
Quella mattina i miei genitori avevano ricevuto una telefonata insolita. Mamma aveva insistito tanto affinché andassi con Camilla e Gabriel in paese, così io e mio fratello avremmo potuto giocare con i nostri coetanei al parco. Non mi andava di dirle che non avevo neppure un'amica, mi evitavano tutte come se avessi la peste bubbonica e non facevano che darmi della strega. Forse perché non amavo le bambole come le altre bambine della mia età, al contrario adoravo la natura e tutto ciò che la riguardava. Volevo solo passare una giornata serena nel mio orticello e prendermi cura delle mie piantine, nutrirle, dissetarle con un po' d'acqua e osservarle mentre danzavano per me, quando erano baciate dal sole. Così finsi di avere la febbre per poter poi sgattaiolare nel mio piccolo eden privato al momento opportuno. Era semplice, bastava che lo desiderassi intensamente e come per magia la temperatura cominciava a salire.
Mentre accarezzavo i petali di una rosa, una lieve brezza mi spostò i capelli e un lampo di luce improvviso catturò la mia curiosità. Senza che me ne accorgessi, alle mie spalle, una figura minuta bloccava la chiusura della porta. Non riuscivo a vederla bene in viso, per via del cappuccio, ma doveva essere senz'altro una ragazza. Delle lunghissime ciocche di puro argento fuoriuscivano dal copricapo e le sue braccia sembravano ricoperte da milioni di minuscoli diamanti quando colpite dalla luce solare. Il buon senso avrebbe dovuto suggerirmi di gridare, invece rimasi a fissarla incantata e terrorizzata allo stesso tempo. Portò lentamente un dito alle labbra violacee intimandomi di fare silenzio e svanì dalla mia vista così com'era apparsa. Mi alzai in fretta e ritornai a casa per inseguire quello strano essere. Magari era la fatina dei denti.
Tirai un sospiro di sollievo non appena capì che la porta non era stata chiusa dall'interno. Insieme al familiare cigolio d'apertura, però, avvertì immediatamente qualcosa di diverso. Cos'era quell'odore di fiori marci e appassiti?  Fetore di cimitero, lo conoscevo bene. Quando andavamo a far visita alla tomba di nonna Ferdinanda, ero costretta a tapparmi le narici. Un misto tra esageratamente dolce e secco, un connubio quasi perfetto che ricordava la morte. Lo detestavo con tutta me stessa. Levai le scarpe e le poggiai sul davanzale per non dare alito ad alcun suono. Calpestando la moquette a piedi nudi, attraversai il corridoio e provai a sbirciare cautamente in salotto. Mi guardai attorno ma non trovai nulla di sospetto, tutto sembrava al proprio posto: il gira dischi vicino al tavolo in mogano, il tendaggio color crema identico alla stoffa di cui erano rivestiti i divani su cui sovente Camilla trascorreva i pomeriggi a rammendare i calzini bucati di mio fratello Gabriel,  e il vaso con le camelie, i fiori preferiti di mamma. Cominciai a credere che mi fossi immaginata ogni cosa. Feci per andare via ma con la coda dell'occhio scrutai l'angolo della stanza. Mi aspettavo di trovare Pesciolino nuotare felice nel suo acquario, con la stessa espressione apatica tipica dei pesci rossi ma non fu così. Pesciolino non era mai stato particolarmente vivace ma intuì che quel ventre all'insù, la bocca aperta e le branchie immobili non significavano nulla di buono. E non era tutto: anche lo scenario era tramutato. Le alghe non più verdi e rosse, ora erano nere e marce. Le osservavo mentre si sbriciolavano lentamente dissolvendosi nel nulla. Fuggì via da quella stanza con il cuore che spingeva contro le mie costole. Poi sentì dei cassetti sbattere violentemente e delle voci provenire dallo studio di papà. Mi accostai allo stipite della porta e il tanfo di morte s’intensificò. Avevo una paura tremenda ma nulla poteva contro la mia malsana curiosità.
“E' tutto inutile” - disse il ragazzo col giubbotto di pelle nera - “Non c'é nessuna traccia, eppure dovrebbe essere qui, diamine!”.
Non mi aspettavo di trovare qualcuno in quella stanza così, spontaneamente, gettai un gridolino. Capendo il fatale errore, mi coprì la bocca con entrambe le mani anche se era troppo tardi. Avevo due occhi rossi come il sangue puntati su di me. Non avevo mai visto niente di così pauroso, andava oltre il mio peggior incubo. Il giovane però, nonostante avesse una brutta cicatrice che gli solcava metà zigomo, era di una bellezza indiscutibile.
“E tu da dove salti fuori?” - disse provando a sorridermi.
Era inquietante. Fece dei timidi passi verso di me come se volesse provare a toccarmi ma io indietreggiai.
“Lasciala stare, non ci provare nemmeno”.
Un uomo incappucciato di nero, come la ragazza di poco prima, stava seduto beatamente sulla poltrona di mio padre come se fosse stato invitato ad accomodarsi. La voce doveva provenire per forza da lui, non c'era nessun altro nella stanza. Era talmente immobile da sembrare una statua. Le sue mani bianchissime erano allacciate l'una all'altra sul suo grembo.
“Ci ha visto, non possiamo lasciarla scappare”.
Cosa? Che avevano intenzione di farmi?
“Sam, Sam, Sam, mio caro Sam” - interruppe la ragazza dai capelli argentei - “Lo sai che noi non uccidiamo gli innocenti. E' la regola. La ragazzina non parlerà. Non é così piccola?”.
Adesso non aveva più il cappuccio sulla testa ma il suo volto era ugualmente coperto da una maschera dorata.
“Oh come sei dolce con i tuoi occhietti tutti impauriti. Sta tranquilla non ti faremo del male. Dimmi un po' questo é tuo?” - mi chiese mettendo in bella vista Mr. Brown, il mio orsacchiotto di peluche.
“Adesso ti metti pure a rubare giocattoli, eh? Perché non mi aiuti invece di perdere tempo?” - disse il ragazzo con la cicatrice.
“Come osi rivolgerti in questo modo alla tua Regina!” - gli rispose lei alzando la voce. Era chiaramente furiosa.
“Non sei la regina proprio di nessuno, non mi fai paura”.
Detto questo, lei lo scaraventò con un calcio dall'altra parte dello studio. Fu velocissima, facevo fatica a seguirla con lo sguardo. Il ragazzo andò a sbattere contro la libreria e si creò un gran disordine. Lo raggiunse in un attimo, lo afferrò per la camicia e lo alzò finché i suoi piedi non si staccarono dal pavimento come se pesasse poco meno di una piuma. Poi, con il gomito all'altezza del viso, agitò le dita nere come la pece. Sembrava che le avesse infilate dentro un calamaio sporcandosele d'inchiostro. Sul viso del giovane spuntarono delle sporgenti vene bluastre e cominciò ad ansimare. Il rosso dell'iride lasciò il posto al nero delle pupille espandendosi fino a diventare due cavità vuote.
“Adesso basta giocare, dovete concentrarvi sulla missione” - disse l'uomo col cappuccio.
La ragazza ubbidì a malincuore e mollò la presa sulla camicia del ragazzo che cadde a terra tossendo convulsivamente.
“Sta volta ti é data bene, Sam caro. Ricorda però: non ci sarà sempre il mio fratellino a proteggerti. Non provare a provocarmi di nuovo o te ne pentirai”.
Poi successe qualcosa d'inaspettato. Qualcuno da fuori aveva lanciato una lattina apparentemente innocua. Ticchettò' sul pavimento finché a un certo punto si fermò. Click. La stanza si riempì di un gas verdastro e non riuscì a vedere più nulla. Qualcuno mi afferrò da dietro e mi trascinò via da quella baraonda. Quando riaprì gli occhi, mi trovai fra le braccia rassicuranti di mia madre. Fui così felice, avrei voluto piangere. Arrivati in cucina, mi mise sul bancone e si assicurò che stessi bene. Indossava degli indumenti stranissimi. Aveva l'aria di una tenuta da combattimento corazzata. Sui fianchi portava due foderi per pugnali e sulla schiena una faretra ricca di frecce dalla punta verde. I capelli erano raccolti in una treccia ordinata e la faccia era colorata con simboli di cui non conoscevo il significato.
Nelle stanze accanto udì l'insistente clangore di una spada che s'infrange su qualcosa di solido. Lessi la paura negli occhi neri di mia madre e capì che papà era di là a proteggerci. La guardai e le dissi: “vai”. Lei sembrava sull'orlo di una crisi di pianto ma riuscì a conservare la sua dignità fino alla fine. Mi baciò forte la fronte tanto da farmi quasi male e mi disse: “Vi amiamo tanto. Dì a Gabriel che non avremmo mai voluto lasciarvi. Non siate tristi. Voi non siete soli perché avete l'un l'altra, insieme sarete invincibili”.
Appoggiò la sua fronte contro la mia: “Segui sempre il tuo istinto mia piccola coccinella”.
Poi mi afferrò i polsi e aggiunse: “Non permetteremo che li trovino. Quando sarà giunto il momento, lo capirai. Chiedi alla persona di cui più ti fidi al mondo, lei saprà cosa fare” - senza capire a cosa si riferisse.
Sorrise per qualche strano motivo e lasciai la mano di mia madre ignara che quella fosse l'ultima volta che l'avrei vista viva.
Il ricordo da lì in poi diventava una rete fitta di nebbia. Il ragazzo col cappotto di pelle gridava: “Dove sono? Dove li avete nascosti?”.
Quando varcai la porta, trovai mia madre stretta al vampiro la cui identità era ignota, mentre le affondava, con i suoi canini affilati come rasoi, la carne. Vidi mio padre, accecato dalla rabbia, lanciarsi contro il suo nemico e battersi valorosamente come un guerriero. Una testa mozzata che rotolava. La macchia di sangue sul pavimento che si allargava sempre di più. Mi faceva male il cuore non riuscivo a smettere di piangere. L'ultima cosa che ricordavo era il calore che inaridiva i miei bulbi oculari. Il fuoco mi solleticava e basta, mi faceva semplicemente il solletico. E infine le urla.
   
 
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