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Autore: _Lightning_    20/02/2020    2 recensioni
[INCOMPIUTA]
«Mi sembrava che ne avessi bisogno,» sussurra Natasha, con voce velata, e Tony sorride appena a quello sfoggio di spavalderia che sanno entrambi essere inutile.
«Decisamente,» non la contraddice, ma aumenta un poco la stretta e sente la sua farsi quasi disperata a sottolineare quanto ne avesse bisogno anche lei.
Come se quell’abbraccio potesse alleggerire il dolore di entrambi, o fonderlo in modo da renderlo più comprensibile, meno oscuro.
Non sa se Natasha lo stia trascinando verso il basso per piantare un ormeggio sicuro, o verso l’alto, a fluttuare incerto a mezz’aria. Ma sfiora la terra con la punta dei piedi e rimane lì, in equilibrio, in bilico con lei.

In un universo in cui lo schiocco ha reciso e distrutto legami, chi è rimasto è costretto a ricostruirli, ritrovarli, o crearne di nuovi, con il costante interrogativo di quanto sia giusto andare avanti quando ci si è lasciati così tanto dietro.
[pre-Endgame // Hurt-comfort // IronWidow + Pepperony // PoV Tony]
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Pepper Potts, Peter Parker/Spider-Man, Tony Stark/Iron Man
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate, Violenza
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.15.

Ritmo

 

 

“E, a partire da quel momento, non avevo più un solo passo da fare,
il terreno camminava per me in quel giardino dove da tanto tempo
i miei atti avevano smesso di accompagnarsi a un’attenzione volontaria:
l’Abitudine mi aveva preso tra le sue braccia
e mi accompagnava fino al mio letto come un bambino piccolo.”

M. Proust – Alla ricerca del tempo perduto

 

 
 

Febbraio 2019, Complesso dei Vendicatori
 

Quando finalmente Bruce gli dà il via libera per alzarsi dal letto – ignaro che abbia già ampiamente sfruttato le ore notturne per misurare in lungo e largo la propria stanza – la prima cosa che fa è fiondarsi in cucina ancora in pigiama e versarsi una generosa dose di caffè fumante. Coglie l’occhiata bonariamente esasperata di Rhodey, affacciato sulla soglia della stanza. Lui lo scruta furbetto da dietro la tazza, alzando le spalle.

«Meglio caffeinomane che alcolista, no?» commenta, con la voce che gratta contro la gola per averla usata troppo poco nell’ultima settimana.

Rhodey scrolla la testa e sopprime chiaramente un sorriso, irrigidendo il volto in modo non molto convincente, per lui che lo conosce da una vita.

«Ti tengo d’occhio,» dichiara invece, con un gesto esplicativo con indice e medio verso di lui che vola tra le proprie pupille e le sue, e anche in quell’atteggiamento severo il suo sollievo è palpabile.

Tony alza la mano libera in segno di resa e lo osserva defilarsi, poi tuffa di nuovo il naso nel caffè nero e si poggia alla credenza sentendo le gambe deboli. Si sente debole in generale. Fiacco, un sacchetto di carta svuotato che un bambino si prepara a far scoppiare, per poi rendersi conto che ha troppe falle per sortire l’effetto desiderato. Sospira e beve un sorso di liquido amaro e corroborante, trovandolo insipido rispetto a quello a cui ha abituato la propria bocca negli ultimi mesi.

Sente una decisa morsa che lo prende alla bocca dello stomaco, a ricordargli che può prendere tutte le medicine che vuole, ma che è prima di tutto lui a doversi difendere dalla bestia annidata nei suoi visceri. I suoi occhi vengono catturati dall’armadietto degli alcolici e vi rimangono infissi come un coltello sferrato nel legno. Stringe il manico della tazza e sorseggia il caffè, con un tremito che è in parte fisico, in parte frutto dello sforzo mentale che sta facendo per non lasciarsi sopraffare.

Non è stato così difficile, la prima volta. Forse perché, da un certo punto in poi, il pensiero di doversi presentare a Pepper ogni mattina gli dava un motivo per apparire sobrio; forse perché all’epoca non aveva più – o ancora – dei motivi così seri per consumarsi il fegato. Forse, semplicemente, perché poteva ancora spacciarlo per un divertimento e uno stile di vita, e non come una tabella di marcia segnata da bottiglie vuote per uccidersi pian piano.

Fissa il fondo della tazza, coperto dall’ultimo dito di caffè. Sta pensando, disquisendo con se stesso. Non ricorda l’ultima volta in cui abbia rimuginato lucidamente su qualcosa, men che meno su se stesso e la propria condizione. Gli sembra di entrare in campo aperto sotto il fuoco serrato dei suoi stessi pensieri non più annebbiati, ma la mitragliata che si aspettava non arriva. C’è solo qualche sparo soffuso, distante, pochi bossoli che rimbalzano su una terra di nessuno. Pensieri... banali, innocui.

Pensa che è una bella giornata, anche se il vento inclina con impeto le cime dei pini e la neve è ancora ben radicata al suolo. Bianco su verde su azzurro, e poi di nuovo bianco negli stracci di nubi che avanzano pigri nel cielo terso. 

Non si era accorto di quanto fossero falsati i propri sensi, prima; di quanto corta fosse diventata la sua vista e quanto inaffidabili il tatto e l’udito. Il suo gusto è ancora leggermente sballato, con note acidule e stantie che non ha mai associato al caffè a patinargli la lingua, ma non gli sembra più di respirare alcol. Il piano della cucina è di solido marmo sotto i suoi polpastrelli, e il salotto è nitido, con linee regolari a definirlo. La sala comune è silenziosa, ma distingue il ronzio del frigorifero e lo stormire attutito delle fronde all’esterno, coperti fino a poco tempo fa da un’interferenza di fondo, un rotore d’aereo piantato nei timpani.

Un pensiero un po’ più forte degli altri risuona con un lieve boato; un’onda d’urto appena percettibile che gli invia comunque un dolore fantasma al costato. Lo scaccia, tappa le orecchie, ma quel suono vi si insinua lo stesso, venendo buttato fuori a forza in un sospiro muto: e adesso?

Rimane poggiato al bancone, volendo far scorrere un altro po’ di tempo inutile e vuoto davanti a sé. Il primo segmento di una lunga retta che si dipana da quel punto verso l’infinito. Si proietta lontano, troppo lontano, così si costringe a rimanere nella scatola temporale dell’oggi e del qui. Adesso... un toast, sperando di non carbonizzarlo. Una doccia bollente che occupi almeno mezz’ora. Una sistemata al pizzetto sfatto, magari. Poi deve passare da Bruce per farsi prescrivere una dieta in grado di rimettergli un po’ di carne sulle ossa. Magari riesce a convincere Natasha che è abbastanza in forma per un round di boxe... e a quel punto sarebbe già metà giornata, quasi sera, quasi un altro giorno. E poi un altro, e un altro.

Gli torna in mente Natasha che danza in punta di piedi nel cuore della notte: passi studiati, cadenzati, uno dopo l’altro in sequenza e in crescendo. Un ritmo apparentemente semplice da seguire, ma con dietro uno studio di anni per il passo più semplice da ripetere poi infinite volte. 
Un-due-treun-due-tre.

È fisica, è meccanica. Leve e forze e baricentri, gli stessi che muovono i fili del mondo e che lui è già in grado di individuare. Di comprendere, con un po’ di sforzo. Deve solo... applicarli, rispolverare il principio di azione e reazione per davvero. Un passo alla volta. In punta di piedi. Nel vuoto, in bilico su una fune.

Finisce il caffè in un sorso e si decide a staccarsi dal bancone per rovistare nelle credenze alla ricerca di qualcosa con cui fare colazione, sperando di non dar fuoco alla cucina.

Un-due-treun-due-tre.

 

§

 

Marzo 2019, Complesso dei Vendicatori
 

La routine che riesce a ricostruire, sebbene un po’ a sobbalzi e con molte avarie, come un’auto d’epoca maltenuta che si rimetta in moto, fa scorrere i suoi giorni. Tutti uguali, tutti viscosi come melassa, ma quasi indolori.

I bordi della voragine nel suo petto smettono di allargarsi, si fissano in un buco nero perenne che minaccia costantemente di risucchiarlo. Riesce a sentirlo nella sua pienezza, ora, non più offuscato. Esiste, è l’altra bestia in agguato nei suoi sogni; ma visto che esiste lo può vedere, e sentire, e arginare. Riesce ad ancorarsi da qualche parte nel buio, troppo vicino al centro e costretto a scalciare per rimanervi fuori. Ma le bottiglie d’alcool rimangono piene e sull’attenti sulle loro mensole, e qualcuno dei suoi pensieri riesce a sfuggire al vortice per proiettarsi verso l’esterno, verso… qualcosa, un punto di fuga all’orizzonte che non ha ancora disegnato ma che deve esistere per forza.

Rhodey ritorna una figura ai margini della sua visuale. Gli orbita attorno, a distanza, come se la forza di gravità che esercita su di lui si fosse affievolita, ma è sempre lì, a fargli da satellite. Entra nel suo spazio quando sono nella stessa stanza, ma non lo cerca quando sparisce. Tony sa che ha ancora paura. Paura di aprire la porta della sua stanza e trovarlo catatonico, o peggio. O peggio, soprattutto. È quel tipo di paura che non può strappargli di dosso in un paio di settimane, forse mai, ma si impegna ad allontanarla almeno da se stesso.

Si destreggia tra una giornata e l’altra come può, all’inizio, sbanda da un’ora all’altra e brama e teme la sera al contempo, quando rimane solo nel buio coi propri pensieri. L’insonnia rimane la sua amica fedele, gli tende la mano ogni volta che cerca di chiudere gli occhi, gli confonde la vista e poi lo precipita in sonni inquieti che gli fanno percepire quanto sia vuoto il suo letto singolo, quanto fredde le coperte. Sogna Pepper, la sogna quasi ogni notte. Si sveglia di scatto, avvampando, e rimane rattrappito nel suo letto singolo sapendo che la sua mano incontrerà solo il vuoto e non la curva delicata dei suoi fianchi, né le ciocche lunghe sparse sui cuscini. Sono tante, le notti in cui riprende a percorrere chilometri e chilometri da un capo all’altro del Complesso nel tentativo di scrollarsi di dosso quei picchi di desiderio inconcludenti e rivolti verso il nulla, che lo accendono e spengono come un fiammifero a un soffio di vento gelido.

Nonostante tutto, nonostante l’insonnia, l’incostanza e il suo essere quasi nevrotico, si sforza di mantenere un atteggiamento civile con gli altri. Un sorriso e una mezza parola a Rhodey, uno sguardo grato a Banner, un insulto rimangiato a Rogers. Ci prova, a tornare se stesso, quello che tutti conoscono, ma per la maggior parte del tempo evita i suoi ex-compagni, schivo come non è mai stato.

Evitare Natasha è impossibile, perché lei conosce la solitudine ed è brava a insinuarsi in quella degli altri, che lui lo voglia o meno. Prova anche a fidarsi, ma gli è sempre stato difficile farlo a parole: di solito sopperisce coi gesti, ma adesso gli vengono meno anche quelli. Altre volte sente che finirebbe per esasperarli finendo per farsi male, e li trattiene. Trattiene affetto e le sue esternazioni come ha sempre fatto, col modus operandi di chi si è ostinato a rendersi scostante per anni e anni pur di evitarsi strappi e lacerazioni che avrebbero disfatto le cuciture appuntate al suo cuore. È stato un percorso faticoso e non indolore, quello di scostare il sipario dalla propria anima per farla intravedere ad altri, col costante timore di esporsi troppo, di scegliere gli spettatori sbagliati. Ha scelto quelli giusti, che sono diventati loro stessi attori sul suo palco, ravvivando il suo spettacolo e trasformandolo grottesco a commedia piena e viva. Ora si ritrova con parti mancanti e dei fili recisi che gli penzolano dal cuore, dove fino a poco meno di un anno prima era cucito qualcuno, qualcosa. Persone perdute nella cenere che sfrega ogni giorno su quelle ferite infette.

Non sa come dovrebbe appuntarsi al cuore qualcun altro, scostare di nuovo il sipario col rischio di veder crollare l’intero palco. Non sa fidarsi davvero. Anche se vorrebbe, ora più che mai. Così rimane immobile, muto, lasciando che sia Natasha ad agire.

Alimenta quei silenzi condivisi, sospesi, di pensieri che poggiano l’uno sull’altro a sostenersi e integrarsi. Dei silenzi che aumentano, sembrano farsi abitudine e poi finiscono per diventarla di tacito accordo. Parentesi di quiete che vanno a punteggiare le costanti turbolenze dei suoi pensieri più lucidi. Si siedono fianco a fianco in palestra e tacciono dopo essersi sfiniti mente e corpo, rimangono seduti a tavola dopo cena lasciando scorrere insieme i minuti che li separano da un’altra notte insonne, se ne stanno entrambi sui gradini del patio a tarda notte, a guardare l’universo della volta celeste che continua a scorrere, indifferente alla cenere che lo occlude.

A volte, gli riesce troppo faticoso essere Tony Stark, o chiunque altro se è per questo. Vorrebbe tornare a imbozzolarsi nelle coperte, chiudere gli occhi e lasciarsi scorrere il tempo addosso, farlo andare avanti mentre lui aspetta il momento giusto per uscire dalla sua crisalide di ferro ormai arrugginito. Lo fa, una volta, o almeno ci prova. Rimane a letto per l’intera giornata, con gli occhi semichiusi che sfogliano pagine e filmati passati. Si perde in se stesso, guardandosi dall’esterno. Pensa che potrebbe rimanere così un altro paio di giorni, a dissolversi pian piano, a vivere in un altro tempo: gli sembra sempre che i suoi pensieri rallentino in quella sorta di beatitudine letargica in cui è pericoloso chiudersi e ancor più pericoloso credere.

Sfiora quell’idea, la accarezza, la lascia a galleggiargli nelle sinapsi fino a sera e poi quella finisce per scivolare via, come trascinata a valle dalla corrente. Preme sulla cicatrice che gli segna il polso, e sente il fantasma di un dolore lontano. Nessuna voce a incalzarlo, nessuna ombra ai margini della visuale, eppure porta le gambe oltre la sponda del letto e si alza, intorpidito ma pervaso da un formicolio che lo invita a non stare fermo. Simile, molto simile a quello che lo portava inevitabilmente in laboratorio, in un tempo in cui offriva ancora vie di fuga e non strade senza uscita. Lo ignora, ma cerca altri modi per evadere: corre a perdifiato sul tapis roulant e saltella sul ring fin quasi a collassare, ignorando l’uscita d’emergenza più vicina e racchiusa in bottiglie di vetro dai bordi taglienti.

Continua a correre sul posto mentre il tempo passa a falcate lente, superandolo. E per la prima volta dopo quasi un anno lui prova l’impulso di inseguirlo, di attaccarsi a una falda svolazzante del suo strascico e scoprire cos’altro ha ancora da mostrargli.



 



Note dell'Autrice:

Carissimi Lettori, dopo una vita e mezza di pausa, rieccomi ad aggiornare <3
Questo è chiaramente un capitolo di stallo, ma mi serviva come trampolino di lancio per i prossimi avvenimenti, che smuoveranno definitivamente la situazione di Tony, e anche di chi lo circonda.
Ringrazio infinitamente chiunque abbia letto e recensito fin qui, oltre a coloro che hanno aggiunto la storia alle loro liste <3 Grazie in particolare a
_Atlas_, Miryel, shilyss e T612 per il supporto, il tempo e la pazienza che hanno dimostrato e dimostrano nel seguire questo mio progetto e nel sopportare i miei scleri estemporanei :')
Alla prossima, spero con più prontezza,

-Light-

   
 
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