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Autore: lagertha95    02/03/2020    8 recensioni
Nel 1958 Aberforth è un uomo anziano e solitario che dimostra la metà dei suoi anni e che ha un fratello che ama e odia al tempo stesso. Minerva è una donna giovane e già ferita dall'amore.
Aberforth si innamora di lei con lentezza, conoscendola pian piano, ma la freccia di Cupido lo colpisce fin dal primo istante. Minerva lo considera un amico e intanto porta avanti la sua vita, sposandosi, vivendo felice.
Nel 1998 sono entrambi anziani e soli e la guerra da cui si sono salvati ha messo in luce altre necessità.
Con "Non è mai troppo tardi" vi accompagnerò ad osservare un nuovo aspetto dell'amore, quello silenzioso e in disparte, quello di attesa e affetto e forse, chissà, anche con un lieto fine.
Storia partecipante al contest "Who put crack in my amortentia?" indetto da GiuniaPalma /LadyPalma sul forum di EFP
Genere: Fluff, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Aberforth Silente, Minerva McGranitt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Salve a tutti/e!
Eccomi di nuovo, con questa OS senza pretese che vuole raccontare di un'età di cui non si parla mai e di un argomento che, in quest'età, sembra un tabù.
L'amore ha tante facce e non esiste solo quello impetuoso dei giovani o quello maturo degli adulti. C'è un terzo tipo d'amore (ma sono sicura ce ne siano ancora tanti tanti altri) che è quello tranquillo della tarda età, quello degli anziani, che non sempre è amore come lo intendiamo in genere, ma è affetto e fiducia e rispetto e voglia di compagnia.
Spero di essere riuscita nell'intento di presentare così questa improbabile coppia che ho scelto tra le cinque propostemi da /GiuniaPalma/LadyPalma nel suo contest "Who put crack in my amortentia?" sul forum di Efp, contest a cui questa storia, come avrete capito, partecipa.
Non mi dilungo oltre e, ringraziando tutti quelli che passeranno a leggere, vi lascio alla lettura di "Non è mai troppo tardi".

Baci, Lagertha

P.S: Sì, il titolo è spudoratamente ripreso dal film con Morgan Freeman e Jack Nicholson, a cui però si rifa solo e soltanto il titolo, essendo completamente differente il tema.

 

Non è mai troppo tardi

 
Settembre 1998

Sulle rive del lago nero, a due passi dalla maestosa tomba in marmo bianco di Albus Silente, in un buio pomeriggio settembrino camminavano Minerva McGonagall e Aberforth Silente.
La prima completamente immersa nei pensieri sul futuro: essere la preside di Hogwarts era qualcosa che non aveva mai richiesto e per cui, sinceramente, non si sentiva neanche adatta.
Aberforth invece rifletteva su come, tanti, forse troppi, anni dopo, stesse guardando Minerva con gli stessi identici occhi di quarant’anni prima.



Settembre 1958, Hogsmeade.

Aberforth Silente camminava per le strade di quel piccolo, insignificante villaggio magico sperduto e nascosto in Scozia.
Come al solito, nessuno si curava di lui, di quell’uomo cupo e barbuto che pareva un mendicante e lui si sentiva libero di osservare la gente, immaginando storie, ponendosi domande, dandosi risposte.
A settantacinque anni, Aberforth Silente aveva visto e vissuto cose che la maggior parte della gente non avrebbe mai né visto né vissuto. Non era un gran chiacchierone, Aberforth. In generale era quello che, da sempre, se ne stava zitto e cupo in un angolo.
Non che fosse sempre stato così, ma aveva imparato a sue spese che esporsi non sempre portava buoni risultati: ancora bruciava nel suo vecchio cuore la ferita infertagli dal suo stesso fratello, da Albus.
A settantacinque anni, Aberforth ne dimostrava al massimo una quarantina ed era, al di sotto della trascuratezza e della disordinatissima barba, un bell’uomo, con brillanti occhi cerulei e un sorriso burbero e affascinante al tempo stesso.
Quel primo giorno di settembre l’aria scozzese era clemente e alla stazione erano tutti in fermento: quella sera sarebbero arrivati gli studenti di Hogwarts a portare, dopo la pausa estiva, gioia e vivacità sia al castello che al villaggio.
Una donna giovane, alta e dal fisico longilineo spiccava tra la folla. Era vestita di scuro, come se portasse il lutto, aveva i capelli neri raccolti in una severa crocchia e il viso era privo di qualsivoglia accenno di trucco.
Nell’austerità che emanava dalla sua figura, Aberforth trovò una solidità pura che non aveva mai trovato in nessun altro e per un momento, un unico brevissimo istante, trovò la pace.


Qualche giorno dopo Albus lo invitò, in un ennesimo e sterile tentativo di riappacificazione, a pranzo da lui.
Appena entrato nel castello percepì quel senso di pace di pochi giorni prima e si guardò intorno senza poterne fare a meno, cercando inconsciamente la giovane donna dall’aspetto severo che aveva scorto alla stazione.

“Aberforth! Eccoti finalmente!” Albus, con la sua solita calma, lo accolse a braccia aperte in quello che – Aberforth lo sapeva – reputava ormai il suo regno.

“Salve Albus, volevi vedermi?” rispose il fratello più giovane, ricambiando con freddezza l’abbraccio.

“Non può un uomo voler vedere il proprio fratello, ogni tanto?”

Ad Aberforth venne quasi da ridere: Albus Silente non faceva mai niente per niente, neanche chiamare suo fratello per un the. Albus voleva qualcosa, Aberforth lo sapeva così come sapeva di aver avuto, un tempo, una sorella: se lo sentiva dentro.

“Andiamo, che cosa ti serve? Sappiamo entrambi che se non ti servisse qualcosa non avresti mai convocato il grezzo proprietario della Testa di Porco al castello.” Disse, volutamente scortese, cercando di raschiare via quella patina di cortesia che ricopriva i modi del fratello.

“Vieni, preferirei parlarne nel mio ufficio.” Sospirò infine il preside, dirigendosi verso la torre ovest.



Quando uscì dall’ufficio del preside, Aberforth non vedeva l’ora di tornarsene in quel pub tetro e sporco che era il Testa di Porco, tanto che quasi corse per le scale, nel tentativo di allontanarsi il più velocemente possibile da quel castello che un tempo aveva tanto amato e che adesso non vedeva che come il simbolo del potere e dell’ambizione di Albus.
Percorse le scale e imboccò il corridoio d’uscita così velocemente e senza prestare attenzione a chi e che cosa lo circondasse, che non si accorse di una giovane e severa insegnante che, schiena dritta e testa alta, aveva appena svoltato l’angolo.

BAM!

Aberforth si ritrovò a vacillare – d’altronde, era decisamente più alto e pesante della sottile professoressa contro la quale aveva sbattuto – mentre Minerva McGonagall, nuova insegnante di Trasfigurazione di Hogwarts e pupilla di Albus, si ritrovava per terra, con le gambe in aria e circondata da pergamene e tomi che fino ad un momento prima erano tenuti a mezz’aria da un perfettamente controllato wingardium leviosa.

“Godric benedetto! Ma si può sapere a che cosa stava pensando?”

La voce di Minerva McGonagall già allora assomigliava al leggero grattare della piuma sulla pergamena. Non era e non sarebbe mai stata una voce musicale – troppo rigida e severa – ma ad Aberforth parve di sentir cantare le sirene del lago Nero.
Imbambolato, rimase a fissarla mentre raccoglieva quello che le era caduto e soltanto un attimo prima che lei gli voltasse le spalle
Aberforth riuscì a ritrovare la voce e a chiedere, balbettando “Per farmi perdonare, potrei offrirle una tazza di tè?”
Minerva McGonagall guardò quell’uomo così più grande di lei e così poco curato con occhio critico, ma la buona educazione prevalse e con un cenno rigido del capo annuì.

“Questo sabato alle cinque in punto ai Tre Manici di Scopa. Non tollero ritardi."



Aberforth Silente aveva scoperto quanto potesse essere divertente Minerva a partire da quel pomeriggio ai Tre Manici di scopa, dove lei aveva bevuto tè la prima volta per passare al whiskey incendiario già la seconda, quando si erano spostati a La testa di porco.

I loro non erano appuntamenti – Merlino sa quanto Aberforth avrebbe voluto chiamarli tali – erano solo incontri tra due persone caratterialmente molto diverse che avevano scoperto, nonostante l’esplosivo inizio, di trovare piacevole la compagnia reciproca.

Minerva, tutta presa prima dal dolore per aver dovuto lasciare Dougal, poi da Elphinstone Urquart, il suo anziano ex-capo al Ministero e irriducibile nonché – Aberforth fu costretto ad ammetterlo almeno a se stesso – affascinante spasimante, non si era mai accorta di come gli occhi azzurri – dello stesso azzurro di Albus – di Aberforth la guardassero e, secondo il vecchio proprietario de La testa di Porco, mai l’avrebbero notato.

A centoquindici anni, Aberforth sapeva di essere una causa persa, di come i suoi sogni non si sarebbero mai avverati, di quanto il mondo e il destino potessero rivelarsi crudeli nel prendersi gioco delle persone, eppure non aveva e non avrebbe mai dato la colpa a Minerva.

Minerva, che aveva amato solo due uomini e che aveva perso entrambi.
Minerva, così pura e chiara da non poter dare spazio, nei gesti e nelle parole, a fraintendimenti: Aberforth era e sarebbe sempre stato soltanto un amico.
Un amico che non l’aveva giudicata nemmeno quando era, alla fine, capitolata di fronte alle insistenti e longeve avances di Urquart perché sapeva che Minerva aveva fino a quel momento rifiutato ogni proposta soltanto per proteggere – chissà poi da che cosa – l’uomo.

Il purtroppo breve matrimonio di Minerva, benedetto però da una tranquilla felicità, non aveva intaccato il rapporto della donna con Aberforth.
Una sera ogni tanto, Minerva usciva dal castello e, invece di andare direttamente a casa, raggiungeva il pub, si sedeva su uno degli alti sgabelli al bancone e aspettava che tutti se ne andassero per poter parlare tranquillamente con quello che, dopo Albus, era diventato il suo più vecchio amico.
Quello che a Minerva piaceva di Aberforth era il suo non essere insistente, il suo essere un burbero e silenzioso uomo.
Minerva poteva parlare di chiunque e di qualunque cosa, certa che non una parola sarebbe uscita dalle labbra del Silente minore.



Hogsmeade, gennaio 1982

Elphinstone era morto e Minerva era distrutta.
Albus le aveva, qualche giorno prima, dato semplicemente un paio di pacche sulla spalla e lei, donna forte e stoica, non aveva ancora versato neanche una lacrima.

Aberforth, non appena l’aveva vista entrare al pub, aveva cacciato tutti gli avventori, aveva chiuso la porta e le aveva servito, ancor prima che lei aprisse bocca, un generoso bicchiere di whiskey babbano.
Minerva aveva bevuto in silenzio e Aberforth non l’aveva interrotta, aspettando come da quasi trent’anni aspettava.
Poi, quasi senza preavviso, eccezion fatta per il leggero tremolio della mano nel poggiare il bicchiere sul bancone, Minerva era esplosa.
Piangendo e singhiozzando aveva dato sfogo a tutto il dolore e la frustrazione – “Volevo proteggere lui e ho lasciato scoperta me e adesso sono sola!” aveva urlato, tra un singhiozzo e l’altro – e la rabbia nei confronti di quell’uomo che aveva giurato di proteggerla e che invece l’aveva lasciata.
Aberforth era rimasto zitto, d’altronde non era richiesta la sua partecipazione, non realmente: lui era lì perché lei si sfogasse, perché bevesse senza essere vista, affogando nell’alcol quell’immenso dolore che Aberforth riusciva a capire perfettamente.
Versò un bicchiere anche per sé, dopo aver riempito di nuovo quello vuoto di Minerva, e in silenzio bevve e la guardò bere finché, ubriaca e sfinita, Minerva McGonagall non si addormentò con la testa poggiata sul bancone lercio e la bocca semiaperta.

Aberforth, con una dolcezza che aveva riservato solo ed esclusivamente ad Ariana, la prese in braccio e la portò nella stanza più pulita del pub. La mise a letto, la coprì per bene e poi tornò al piano di sotto, servendosi una generosa dose di alcool e cercando di annegare quel sentimento che, nonostante i quasi trent’anni passati, non era scemato di una virgola.



Sulle rive del lago nero spirava un vento gelido.
Quel settembre che aveva inaspettatamente visto la riapertura di Hogwarts dopo la battaglia era freddo come il dicembre più duro, eppure Minerva e Aberforth erano lì, come tante altre volte, insieme.

Aberforth si schiarì la voce.
Erano entrambi adulti e soli e in quel momento nessuno meritava di stare solo, avendo un’alternativa.

“Minerva…” borbottò, come suo solito, fermandosi subito. Che cosa poteva dirle? Che cosa voleva chiederle? Aberforth si diede dell’idiota e si disse di lasciar perdere, ma a Minerva era saltata la mosca al naso e adesso lo guardava con una curiosità che riportò Aberforth al giorno in cui l’aveva conosciuta, quarant’anni prima. “Io…” si fermò di nuovo Aberforth e mai come in quel momento sentì tutti i suoi anni pesargli sulle spalle. “Sono innamorato di te.” Bofonchiò, diviso tra la speranza di essere risultato inintelligibile e quella di essere stato compreso. “Lo sono da quel giorno in cui ti ho investito facendoti cadere le pergamene. Non ti ho mai chiesto niente, mi sono accontentato di essere l’amico che spero di essere stato per te, invisibile, silenzioso e degno di fiducia. Ti ho guardata scegliere un altro e ti ho vista felice, ma adesso siamo sopravvissuti fortunosamente alla Seconda Guerra Magica e io non voglio più sprecare tempo. Sono vecchio e innamorato e non voglio morire col rimpianto di non avertelo mai detto.”

Aberforth Silente non era mai stato un uomo da prima linea. Preferiva le retrovie, l’agire senza che nessuno lo sapesse, senza dover accettare onori e meriti.
Ma in quel momento, con un coraggio che non sapeva di avere, affrontò Minerva McGonagall a testa alta e con le spalle dritte, nell’esatta replica della donna che da sempre amava.
Gli occhi di lei, lucidi, erano solidi smeraldi che si fissavano nell’acquosità mobile di quelli di Aberforth e il silenzio che li avvolgeva si faceva, minuto dopo minuto, sempre più soffocante.

“Se non-” provò a dire Aberforth nel tentativo di uscire da quell’infelice situazione nella quale, maledicendosi, si era infilato, ma Minerva non glielo concesse.

“Aberforth, tu sei uno dei miei più cari amici.” Iniziò decisa la preside di Hogwarts. “Il mio cuore ha sofferto troppe volte e troppe volte si è dovuto chiudere all’amore. Sono vecchia e stanca e non ho più la testa per certe cose.”

Aberforth prese seriamente in considerazione di annegarsi nelle gelide e nere acque del lago, sperando che la piovra gigante avesse pietà di lui e lo divorasse in sol boccone, risparmiandogli il dolore e la fatica di doversi uccidere.

“Ma qualcuno con cui condividere gli anni che mi restano, qualcuno da ritrovare la sera a casa, con cui sedersi davanti al caminetto, bere una tazza di the e parlare, beh, una persona simile mi piacerebbe.”

Aberforth non credeva alle sue orecchie e la guardava in silenzio e con gli occhi sgranati.
Certo, quella di Minerva non era la promessa di amore eterno o assoluto, ma non avevano più l’età per un amore simile.
Aberforth aveva da poco compiuto centoquindici anni, Minerva ne avrebbe compiuti a breve sessantatré: l’amore esplosivo degli adolescenti non faceva per nessuno dei due.

“Se ti andasse di condividere quest’ora tarda della vita con una donna che per te prova infinito affetto, immensa stima e incommensurabile rispetto, avrei piacere di poter essere quella donna.”

Minerva aveva le guance scavate e segnate da rughe leggermente arrossate, ma lo sguardo era quello fiero e fermo di sempre.
Aberforth la fissava, quasi incredulo perché quello che aveva appena sentito era ciò che da tanto, troppo tempo desiderava.
Annuì, e le tese la mano grande, callosa e macchiata che si ritrovò a stringere quella piccola, rugosa e macchiata di Minerva.
Per mano, ripercorsero a ritroso la strada che dal lago portava al castello.
Alle loro spalle, la tomba di Albus era illuminata da una calda lama di luce.

 
   
 
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