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Autore: Fanny Jumping Sparrow    06/03/2020    2 recensioni
Sono un grezzo marinaio con un passato ignobile, che a stento sto tentando di occultare, imparando a muovermi e a parlare come un impeccabile gentiluomo, ostentando buone maniere, cordialità, eleganza.
Come potrebbe comportarsi Capitan Jack Sparrow se venisse invitato ad un matrimonio aristocratico?
Slice of life ambientata nel controverso periodo raccontato nel libro "The price of freedom".
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jack Sparrow, Lord Cutler Beckett
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Daft like a sparrow

Restare impelagato per tre giorni di seguito nella bonaccia, su una barchetta senza vele e senza remi, tutto solo, con una bussola rotta, nel bel mezzo dell’oceano, molto probabilmente sarebbe meno tedioso che sorbirsi questa interminabile messinscena.
Non so più come intrattenermi per non sbadigliare vistosamente.
L’avvenente dama in giallo seduta nella fila di fronte, con la quale avevo intrattenuto un eloquente dialogo di sguardi fino a pochi minuti fa, di punto in bianco mi ha dato il benservito, lasciandomi col dubbio di aver frainteso le sue intenzioni. Perciò non mi resta che volgere la mia attenzione altrove, anche se c’è ben poco da osservare, tra austere figure di pietra che mi spiano con cipigli severi e oscure tele dipinte di immagini macabre e fantasiose che raccontano storie a me ignote.
Le vetrate colorate però non sono malaccio, volendo s’intonerebbero anche ad una nave.
Sì, sulla Wicked Wench farebbero proprio un bel figurone.
Quanto vorrei darmela a gambe e trovarmi già sul molo, pronto a salpare con lei per un nuovo orizzonte, fosse anche l’ultimo viaggio della mia sordida vita.
Il mare, sin da quando ho mosso i primi passi, ho imparato, se non a dominarlo – poiché per chiunque possieda carne e ossa è impresa pressoché impossibile – per lo meno a conoscerlo, prenderlo, amarlo e rispettarlo, anche quando si mostra inesorabile e ostile. Intrappolato tra queste fredde mura comincio a provare un soffocante senso di nausea.
Il mio vicino di posto, un pallido gentiluomo dalla lunga e finta chioma corvina tutta riccioluta, da cui sporge un nasone adunco simile al becco di un rapace, mi lancia un’occhiataccia colma di rimprovero, udendo l’imprecazione poco signorile che mi sono lasciato scappare tra i denti, squadrandomi dalla testa ai piedi con malcelato sdegno.
Ed io oggi mi maledico per la centesima volta, per aver accondisceso a quest’increscioso compromesso.
Con sguardo oltremodo spazientito vago in cerca di quello del responsabile di questa immane seccatura, ma riesco a scontrarmi solo col retro della sua testolina azzimata. Tutto tronfio nella sua nuova casacca di pregiato broccato turchese, se ne sta seduto in prima fila e pare completamente immerso nell’ascolto di questa soporifera omelia recitata da un omuncolo incartapecorito.
È a pochi passi dall’altare e dall’amata cugina, che un pomposo e pluridecorato rampollo della nobiltà britannica, avviato ad una brillante carriera militaresca, sta immeritatamente per impalmare. Un matrimonio di tutto rispetto e che porterà lustro ad entrambe le ricche famiglie, così dicono.
Quando ho conosciuto quella graziosa e amabile fanciulla, sono rimasto profondamente colpito e sconcertato dalla radicale differenza esteriore e caratteriale con il detestabile e impeccabile agente commerciale: tanto quello è algido e artificioso, quanto quella appare vivace e spontanea, con i suoi grandi occhi color del cielo che spiccano come purissimi zaffiri sul volto roseo incorniciato da boccoli ramati.
Eh sì, dopo che me l’ha presentata, di sfuggita e quasi di malavoglia, ho senz’indugio sognato di poter incontrare ancora quell’incantevole donzella, intuendo già che sarebbe stata condannata a non conoscere mai la travolgente, inebriante ebbrezza della passione, maritandosi con uno scialbo stoccafisso del genere.
«Uno stoccafisso, forse è più sveglio di quel coso lì», bofonchio tra me e me, sbirciandomi le unghie su cui persistono tracce indelebili di bistro, inchiostro di china e polvere da sparo che le anneriscono, rammentandomi sin troppo bene chi io sia in realtà, e chi stia fingendo di voler essere.
Sono un grezzo marinaio con un passato ignobile, che a stento sto tentando di occultare, imparando a muovermi e a parlare come un impeccabile gentiluomo, ostentando buone maniere, cordialità, eleganza. Ci ho messo davvero tutte le mie buone intenzioni, ma ho il sentore che cotali sforzi siano vani, sento che gli altri vedono sempre qualcosa di diverso, di criticabile, di profondamente sbagliato in me. Talvolta è un’espressione troppo colorita o un gesto eccessivamente audace, un’occhiata giudicata irrispettosa, oppure, eccola, sulle punte degli scomodissimi stivali di lucido cuoio nero, un’altra macchia, che tento di ripulire alla bell’e meglio, strofinando il piede dietro lo stinco dell’altra gamba, sperando che non vada a insozzare pure il pantalone.
I miei goffi movimenti, come prevedibile, attirano i mormorii di una rugosa megera con le guance grottescamente imbellettate di rosso, che non la fanno apparire meno prossima alla dipartita.
Forse sto semplicemente mentendo a me stesso: non ho niente da spartire con questo mondo intessuto di pettegolezzi e convenevoli, mostrine e parrucche, inibizioni e monotonia.
Non posso rinnegare ciò che sono sempre stato. Sono nato e cresciuto libero da regole. O almeno così credevo, ma ahimè, anche tra i peggiori furfanti esistono codici d’onore cui non si può sfuggire per sempre. Per orgoglio ho tradito la mia gente e quella, senza troppe cerimonie mi ha rinnegato, mentre questi qui mi hanno accolto tra le loro file. Così ho finito per cambiare fazione e sto ancora scontando il mio debito.
È stata davvero una scelta obbligata? Forse no, è stata dettata solamente da mero istinto di sopravvivenza e da un cocente rancore.
Ad ogni modo, adesso pagherei tanto oro quanto peso pur di potermi trovare al timone di un vascello nel bel mezzo di un uragano.
Finalmente qualcuno lassù in fondo sembra aver ascoltato le mie disperate preghiere.
Andate in pace”, proferisce il vegliardo prelato, come se fosse una gran concessione.
Tra un composto scroscio di applausi e un intenso fruscio di vesti, mi accorgo che tutti quanti si sono destati, dunque seguo il loro esempio e mi accodo anch’io agli ospiti agghindati che con passi misurati si fanno strada tra questa selva di colonne di marmo per avviarsi al sospirato rinfresco in giardino.
Spero che perlomeno il banchetto nuziale sia all’altezza di tanto sfarzo e che possa abbordarlo senza tanti salamelecchi.
All’aria aperta torno a respirare, pur se costretto dalla stretta fusciacca che mi impone di stare dritto come un bastone. E immancabilmente percepisco decine di facce esterrefatte appuntarsi alla mia, mentre mi aggiro in cerca di qualcosa che ancora non so, pur di sottrarmi alle loro analisi.
Devono giudicarmi una specie di animale esotico, nonostante mi sia abbigliato come molti di loro, lasciando in cabina i miei soliti comodi abiti marinareschi per infilarmi in una divisa che comunica a tutti il mio onorevole grado di Capitano. Beh, dovevo prevederlo: la mia pellaccia sudicia, abbronzata e intrisa di sale non può certo essere nascosta da un bel vestito inamidato.
Il sole velato e l’aria umidiccia intanto lasciano presagire l’arrivo di un bel temporale che porterebbe considerevole scompiglio tra questa congrega di imbalsamati.
Poco male: almeno ci sarebbe un po’ di movimento! Questo mortorio non somiglia affatto ad una festa, sto appurando, svicolando tra parrucchini impomatati, braghe di seta e sottovesti merlettate, per gironzolare tra le decine di tavoli imbanditi sotto chioschi addobbati con rigogliose ghirlande floreali.
In gioventù ho avuto occasione di assistere a qualche matrimonio pirata, spesso imbucandomi per sgraffignare impunemente qualche dolcetto e goccetto, nell’animalesca euforia generale.
Ricordi lontani e annacquati ma mai dimenticati si riaffacciano alla memoria nella loro prorompente bruttezza: sfoggio di tatuaggi e cicatrici, grottesche canzoni e balli sfrenati, l’odore pungente della carne affumicata sui boucan, qualche scazzottata e soprattutto brindisi a profusione accompagnavano la celebrazione dell’unione tra i due scellerati.
I matrimoni tra quelli della mia risma erano occasione di bagordi, eccessi, baldoria, abbuffate, gare di sputi, di spade e di spari. Qualche volta ci scappava anche il morto, ma l’atmosfera restava comunque sempre gioviale e scanzonata.
Qui invece i partecipanti sembrano tutti defunti e la noiosa musica di sottofondo somiglia ad una nenia funebre.
Tutto ciò continua irrimediabilmente a perplimermi. Avevo inteso che durante un matrimonio si dovesse celebrare questa suddetta forza misteriosa e invincibile che sottomette la ragione e avvince anime e corpi, lega cuori e menti, in un turbine di follia. E dunque la follia stessa dovesse dominare i festeggiamenti.
Ma nulla finora sta andando come me lo ero prefigurato. Sento l’urgenza di tracannarmi qualcosa di molto alcolico per riprendermi dalla pesante botta di sonno a cui rischio di soccombere.
Come mi avesse letto nel pensiero, uno zelante tizio in livrea mi passa accanto con un vassoio traboccante di calici di vino. Decido ben volentieri di aiutarlo, scroccandone un paio, così da alleggerirgli il lavoro.
Non è paragonabile al rum, ma non posso essere tanto schizzinoso. Il mio palato secco ringrazia. Adesso sì che cominciamo a ragionare, ciò nondimeno a quest’ora tarda del pomeriggio avrei anche un certo languorino, per cui decido di avventarmi su quelli che dovrebbero essere i primi.
Solo che … Mannaggia! Tra portate a forma di velieri e creature marine, composizioni di fiori color confetto e posate argentate, distinguere cosa sia commestibile e cosa puramente decorativo, è più arduo che attraversare il Capo di Buona Speranza in pieno inverno! Ed io non voglio fare altre figuracce con quei galantuomini che già mi osservano sogghignando con la puzza sotto il naso, schifati dalle mie volgari origini.
Dove diavolo è quel maledetto damerino quando serve?
Mi vendicherò per l’infida trappola in cui mi ha attirato, con la falsa promessa di una ridente giornata di divertimento.
Neanche ad averlo invocato ad alta voce, Cutler Beckett mi passa accanto, avanzando superbo con un vezzoso bastone dorato al fianco.
Lo aggancio, prima che mi sgusci via, mescolandosi con gli altri illustri invitati e intavolando qualche interminabile conversazione politica.
«Di grazia, vorresti rammentarmi perché diamine ho accettato di accompagnarti a questa buffonata?», lo esorto palesando la mia irritazione per quest’allontanamento forzato e insensato dall’amato veliero che lui stesso mi ha affidato.
Il signorino scosta il mio braccio dal suo, con un gesto affettato della mano guantata: «Lord Penwallow ha esteso l’invito a tutti gli alti ufficiali in servizio della Compagnia che non fossero impegnati in spedizioni all’estero», mi comunica senza degnarmi di uno sguardo, salutando con un riverente movimento del capo una coppia di vecchi bacucchi che ci passa davanti.
Dal suo atteggiamento sfuggente e distaccato, intuisco che la mia vicinanza gli incute imbarazzo. Posso certamente dilettarmi a fargliene provare ancora di più.
«Potevi spedirmi in qualche pericolosa colonia delle Indie Orientali!», lo tampino, sistemandomi il nastro che sorregge il mio già disfatto codino, «Almeno avrei rischiato il collo, ma non che mi cascassero i gioielli di famiglia!», incalzo salace, non curandomi che le orecchie di qualcuno possano scandalizzarsi del mio linguaggio non propriamente raffinato.
Le spalline di Beckett si irrigidiscono, mentre le sue gambette si arrestano all’istante per poi fare marcia indietro e muoversi flemmaticamente verso di me, affiancandomi, guardandosi attorno circospetto, pronto a replicare ad eventuali accuse che potrebbero essermi rivolte per la mia scarsa educazione.
So benissimo di essere il suo pupillo e il suo punto debole. Gli procuro sempre tanti grattacapi. E brividi. Ho un insano ascendente su di lui.
«Ah, ho capito … L’hai fatto apposta. La verità è che mi volevi qui con te, nevvero?». mi piego a sussurragli all’orecchio, con voce bassa e provocante.
Lui sussulta appena mentre le pupille si dilatano, frementi. Nonostante il fazzoletto che gli vela il collo, riesco a intravedere nettamente la giugulare aumentare le pulsazioni e neanche la cipria di cui si ricopre le guance può dissimulare un leggero rossore.
Non risponde alla mia provocazione, ma mi fa cenno di seguirlo alla volta della tavolata più variopinta del buffet, con tartine e altre ghiottonerie dolci e salate, invitandomi a servirmi con discrezione, senza perdermi di vista neppure per un soffio. Non ho idea di cosa siano tutte queste minuzzaglie, ma sono sempre stato un tipo curioso e non mi faccio problemi a degustare un po’ di tutto. Devo ammettere che sono di una bontà squisita! Non avevo mai assaggiato niente di lontanamente simile in vita mia.
Il rancio di un marinaio è assai povero e ripetitivo, i cuochi di bordo non hanno certo a disposizione una gran varietà di ingredienti per preparare i due miseri pasti giornalieri che ci spettano.
Ad ogni buon conto, non voglio dargli occasione di pensare che mi stia sollazzando, perché non è punto così.
«Vedo che apprezzi particolarmente la pasticceria italiana», mi volge un sorrisetto tirato e irritante, vedendomi leccare avidamente le dita dopo aver ingoiato un paio di dolcetti ricolmi di panna montata guarniti di piccoli dolcissimi frutti rossi.
Una giovinetta lentigginosa dalle vispe pupille si copre la boccuccia col ventaglio, assistendo alla stessa indecorosa scenetta che ho offerto con sconcezza ai presenti.
«Potresti farmene trovare un po’ la prossima volta che mi convochi nel tuo ufficio per vuote ciance, compare», gli propongo sfacciato, tracannando un altro sorso abbondante di vino liquoroso che mi scioglie ulteriormente la lingua e le membra.
Ora riesco a muovermi con maggiore disinvoltura, mentre il volto cereo di Beckett sembra un’inorridita maschera di pietra. Mi si avvicina, facendo scivolare un braccio sotto il mio, sottraendomi la bottiglia che avevo impunemente trafugato poco fa.
«Capitan Sparrow, la vostra permanenza nella Compagnia delle Indie Orientali è già precaria. Considerate quest’occasione come un segno di distensione diplomatica nei vostri riguardi», sibila intimidatorio, stringendo la mascella, ostentando la sua manierata impassibilità.
Si capisce che freme dall’urgenza di salutare qualche altro dei suoi conoscenti, ma non intende mollarmi. È troppo preoccupato dai danni che potrei combinare ed io, d’altro canto, non sono ancora soddisfatto della quantità di brindisi che sono stati elargiti agli sposi.
Per fortuna i camerieri sono così operosi che non c’è il rischio di restare a bocca asciutta, perciò mi consolo afferrando al volo un altro calice traboccante di nettare d’uva, senza che lui se ne accorga.
«Come proseguono le ricerche sull’isola di Kerma?», si lascia scivolare distrattamente, sbocconcellando dei pasticcini alla frutta secca.
La mia lingua s’impunta, senza articolare suono alcuno. Ecco, la pacchia è finita. Proprio non riesce a non parlare di lavoro. Il potere e la ricchezza sono le sue uniche ragioni di vita.
Lui li definisce ambizione e dovere. Vizi mascherati da virtù e crimini spacciati per affari.
È vero che ho bevuto, ma non così tanto da permettergli di rovinarmi lo spasso.
Oltretutto non vorrei che qualcuno di questi frivoli rammolliti fantasticasse su una qualche tresca tra me e lui. Ho già una pessima reputazione, le malelingue sul mio conto si sprecano. Non ci tengo ad alimentare altre maldicenze sul mio conto.
«Perdonami, Cutler. Siamo una coppia male assortita», mi congedo freddamente da lui, adocchiando una bella mora dalla procace scollatura che mi lancia occhiate languide ed inequivocabili.
Come accidenti avevo fatto a non notarla prima?
Il mio pedante capo persevera a pedinarmi e interrogarmi, stizzito dalla mia riluttanza ad assecondare la sua smania di controllarmi. Sta diventando un po’ troppo invadente, per i miei gusti.
Prima mi aveva deliberatamente ignorato, e adesso non si stacca più da me, la piattola.
Pianto i tacchi, manifestandogli le mie nobili intenzioni: «Ne riparleremo immantinente. Ma ora credo che andrò ad importunare qualche madamigella bisognosa di virile compagnia», ammicco allusivo, appropinquandomi all’affascinante creatura che mi sta inviando espliciti segnali di disponibilità, sottraendo ad un vassoio di passaggio un altro paio di bicchieri.
Il mio aspetto da intraprendente mascalzone impunito riscuote un qual certo successo, quello che il piccoletto non sarà mai in grado di ottenere con i suoi soli mezzi e per cui prova invidia e ammirazione.
Mi lascia un po’ di libertà per il momento, ma la mia coscienza ben sa che quest’intesa tra me e lui non potrà funzionare ancora per molto.  



Salve gente!
Dopo qualche anno rieccomi ancora una volta ad infestare queste acque con una nuova one-shot avente per protagonista il mio sempre adorato Capitan Jack Sparrow. ^_^

Tutto è nato da una battuta del primo film della saga su cui mi sono sempre interrogata, ovvero quel "Un matrimonio! Adoro i matrimoni, da bere per tutti!" E così ho cominciato ad immaginare in quale occasione il nostro sgangherato pirata preferito avesse potuto prendere parte ad un matrimonio ed è uscito questo slice of life/missing moment che ho voluto collocare però al periodo in cui si trovava a lavorare al servizio della Compagnia delle Indie Orientali.
Tutto qui, fanfiction senza tante pretese che ho composto a più riprese, ma giusto per distrarmi un po' e rimettermi in esercizio con la scrittura.
Ringrazio quanti sono arrivati fin qui e spero di essere riuscita a regalarvi qualche momento di svago.
Al prossimo approdo!)




   
 
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