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Autore: AmyJane    06/03/2020    1 recensioni
Questa storia parla del bianco, del nero e di tutto quello che sta al centro. Conviviamo con mille sfumature e oramai sappiamo che non esiste la purezza. Sappiamo che il buio non è eterno e che tutto incontra i cambiamenti. Nero e bianco coesistono. Si contrastano ma senza mai negarsi, accettando la consapevolezza di non poter esistere senza il proprio opposto. Si completano e quasi finiscono con l'essere solo una delle tante sfaccettature dell'altro. Un po' come i diamanti che, nella loro infrangibile purezza, si rivelano essere solo una versione del carbone. Il nero è l'assenza di colore, il bianco l'unione di ognuno. Eppure niente e tutto alla fine sono molto simili, quasi la medesima cosa. Lo Yin contiene in sé lo Yang e lo Yang fa altrettanto.Sherlock è nero quanto una minacciata ombra ma ha un cuore puro quanto il diamante. Ha scelto di mostrarlo piano piano e di lasciarlo luccicare per contrastare la propria oscurità. Gwendolyn, al contrario, ha scelto la luce per accecare gli altri e mascherare un cuore color carbone. Gli opposti si attraggono per poi lottare senza mai né morire né trionfare. Si cede solo a un fragile compromesso.
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L'islandese

1.

Il sole si addormentò dietro il verde, tingendo di rosso le malinconiche acque calme. Proprio al di sopra del giallo e dall'arancio, le sfumature della notte si andarono ad allungare verso la città, perennemente immersa nella gelida atmosfera frizzante dalla bassa stagione. Le coste rifletterono l'ultimo bagliore, giocherellando con lo scintillio del giorno intento a morire per cedere posto a una tela di stelle nascenti.

Gwen era sempre riuscita ad apprezzare il tramonto e le sue mille sfumature color magenta, i suoi cumuli di nembi caldi e simili a dello zucchero filato dal dolce gusto fruttato. Qualsiasi bimba si sarebbe chiesta come poter assaggiare il cielo, scoprire il sapore di quel bel tappeto nebuloso.

Le nuvole non sanno di zucchero filato...

Persino in quel momento ricco di tensione, la ragazza non si era negata quello spettacolo naturale, l'ultimo sprazzo di sole prima della tranquilla notte silenziosa. Fortunatamente, a Copenaghen il cielo era molto più bello, limpido. E i colori della città erano tanto accesi da risultare ardenti sotto l'ultimo saluto di sole morente.

«Surreale.»

Gli occhi di Gwen s'impregnarono di quel panorama grazie alla finestra del piccolo appartamento. Nello Yorkshire il cielo raramente era così magnifico e il sole, purtroppo, era sempre sepolto dal maltempo di un'Inghilterra moggia.

Godine finché puoi...

La ragazza si concentrò sul proprio attimo di meditazione, finché qualcosa di morbido le colpì la testa. Il bambino, persa la timidezza, si era sollazzato nel provocarla per gioco a causa dell'insopportabile noia.

Gwen squittì, prima di massaggiarsi con le dita la nuca appena offesa. Il monello, intanto, rimase nascosto dietro la parete della cucina, proteggendosi.

«È questo il tuo modo di ringraziarmi?»

Tante erano state le cure date a quel bambino, cure utili al raccoglimento di qualche informazione sul suo conto. Si chiamava Lars, aveva quasi cinque anni e viveva proprio a Copenaghen, a Hovedstaden, in una catapecchia posta accanto alle acque bluastre del mare. Suo padre era un umile pescatore, capace di guadagnare solo con il bottino della giornata e senza mai chiedere a nessuno, senza conoscere nessuno.

L'islandese...

Da anni l'islandese era solito uscire alla mattina per raggiungere il mare raffreddato dalla ore notturne, e poi tornare la sera con sulle spalle la pesca. Il suo piccolo Lars, nonostante l'età, era ben capace di badare a se stesso, di cucinare qualcosa e di nutrirsi. Nessuna educazione era riscontrabile in quel bambino, completamente ingannabile da qualsiasi adulto a causa della troppa fiducia.

Consapevole di tutto ciò, la donna raggiunse l'attentatore, intento a sghignazzare. Dopodiché, incrociò la braccia e lo sgridò con una certa gentilezza. «Non è corretto colpire alle spalle. Du slår ikke baud!»

Lars, accovacciato contro la parete, sorrise contraendo la pelle e dando movimento a ogni singola lentiggine. Con aria vispa, aprì la bocca e disse un beffardo «Piraterne er ikke forkerte!»

«Oh, i pirati non sono corretti?» ripeté Gwen, retoricamente. Nel frattempo si inginocchiò per meglio stabilire un contatto visivo. «Più che un pirata, tu sembri uno dei bimbi sperduti.»

«Du er sjov!» esclamò il bambino.

«Ti sembro buffa?» tradusse la ragazza, alzando un sopracciglio.

Con naturale scioltezza, diede un buffetto al rosso che, per quanto irrequieto, sapeva come giocare le sue carte nel miglior modo. Sorrideva sempre, quasi come se non conoscesse il destino del padre da giorni scomparso.

«Prima o poi tornerà, lo fa sempre» aveva ripetuto in continuazione, come per meglio crederci.

Sicuramente c'era qualcosa di molto strano in quella situazione e sarebbe stato impensabile lasciare un bambino al timone in un oceano di solitudine. Era stato necessario rifocillarlo per bene, metterlo al caldo e, soprattutto, offrirgli una compagnia.

«Oh, hai anche la Jolly Roger [1]» recitò la donna, entusiasta. Sull'aquilone – attaccato alla mano di Lars come una protesi – era stato disegnato un teschio bianco e ringhiante. «Peccato! Manca solo la nave. E per essere un pirata serve sempre una nave. Et skib, Lars.»

«Jeg har et skib» pronunciò il bimbo con impertinenza.

«Chiedo scusa!» esclamò Gwen, teatralmente. «Spero tu non mi faccia percorrere l'asse.»

Così continuò, ripensando al peschereccio dell'islandese. Evidentemente, per un infante niente era meglio di quel ammasso di legno privo di ciurma e nostromi.

«Du kan ikke komme på skibet, du er en pige!» la sgridò il bimbo.

E la ragazza restò allibita da quel commento. «Quindi non posso salire sulla tua nave perché sono una donna. Questo è un molto sessista, Lars. La tua merenda è a rischio dopo l'ultima affermazione. Le donne sono capaci di tutto. Persino di comandare una flotta e–»

Il suono metallico del chiavistello tolse le parole dalla bocca dei Gwen. Sherlock era in procinto di entrare nell'abitazione, così preannunciando lo scompiglio dettato dall'intrusione di un bambino durante delle indagini delicate.

«Hvem er det?» chiese il rosso, alterato.

«Tranquillo. È solo capitan Uncino!»

2.

«Siamo tutti condannati!»

L'esclamazione dell'ennesimo paziente torturò le orecchie di John, intento a concludere la giornata all'ambulatorio. In teoria, avrebbe dovuto solo leggere un elettrocardiogramma, ma il destino lo aveva costretto a seguire quell'assurdo monologo senza senso, come un noioso terapeuta inchiodato dalle altrui prediche deliranti.

«Non esiste più la privacy al giorno d'oggi. Tutti sanno tutto di te. O forse anche di più. È davvero stressante! Una volta se vedevi un donna bastava parlarle. E invece adesso non puoi nemmeno avvicinarti a lei senza lasciarle esaminare tutta la tua cartella personale. Non si tratta più di un profili social. Quelli sono dei fottutissimi curricola... E se le tue credenziali non le soddisfano, ti scartano. Ma io ho chiesto un appuntamento, non un di colloquio per fare lo stagista. È davvero stressante... Forse, ho già detto È davvero stressante, no?»

«Sì, l'ha già detto. Tre volte, Mr. Barlow» rispose il medico apaticamente. Con un solo gesto nascose lo sguardo esausto dietro la cartella per alienarsi da tutta quella situazione scomoda.

«Ah bene! Per non parlare del profilo degli altri, basta googlarli e si trova qualsiasi genere d'informazione. Non puoi più nemmeno nasconderti. È come se una dannatissima spia av–»

«Sì, ho capito il concetto!» Lo interruppe John, sospirando. «Il suo cuore sta bene, comunque. Non c'è più traccia dell'extrasistole. Le chiedo comunque di fare affidamento a un cardiologo. Rifaccia gli esami, se può.»

«Be', almeno posso tirare un sospiro di sollievo. Grazie dottor Watson. Non sa quanto mi faccia piacere sentirlo.»

Il medico chiuse la cartella e, con lo sguardo stanco, la diede al suo paziente. 

«Se fossi in lei perderei qualche chilo ed eviterei lo stress» disse infine, con tono severo. «Niente Facebook, Mr. Barlow!»

Il paziente sospirò a causa dell'ammonizione. «Va bene...»

Quando John tornò a casa, quelle fastidiose parole uscite dalla bocca del paziente gli ronzarono in testa, sopprimendo qualsiasi altra riflessione.

Basta googlarli e si trovano informazione di ogni genere...

Mangiato dai dubbi, immerse tutta la faccia nell'intento alone emanato dal monitor e con le dita digitò qualche lettera per poi notare il nome Gwendolyn Blomst nella pagina principale di un comune motore di ricerca.

Gwendolyn Gerda Blomst, Sheffield (YOURSHIRE - UK)

John esaminò tutte le pagine e bazzicò persino sui profili social della ragazza, dove tante fotografie erano state postate negli anni addietro. Molte di essere raffiguravano una Gwen ancora adolescente e con una chioma lunga e dorata. Proprio al suo fianco era ritratta un'altra donna con capelli rossicci e occhi chiari; Scarlett Blomst, nonostante un'età marcata da un maggior numero di anni, era l'esatta copia di sua sorella: stesso aspetto, colori decisamente differenti.

John fece scorrere le immagini, fino a scorgere un profilo alquanto particolare, quello di un uomo molto appariscente: alto quasi due metri e con un aspetto tanto massiccio quanto inquietante. Cristoffer Blomst non era esteticamente il miglior esempio di un padre affettuoso: gli occhi piccoli, gli zigomi affilati e la bocca lunga erano facilmente collegabili a all'aspetto di un uomo freddo, a tratti un po' inquietante.

Le foto si susseguirono, ricalcando la dissomiglianza tra le sorelle Blomst e il loro unico enorme genitore. John, intanto, deglutì e ringraziò il cielo di non essere stato costretto a incontrare un simile elemento. L'idea delle ipotetiche minacce di quell'uomo sembrarono quasi plausibili in quel momento e fu meglio ritornare alle pagine precedenti.

«Incidente nella A6178» lesse l'ex soldato, sussurrando. «Auto va fuori strada e si ribalta. L'impatto uccide una giovane donna. Scarlett Lene Blomst, 31 anni, muore sul colpo. Il corpo viene ritrovato... Oh... Carbonizzato a causa di un circuito elettrico. Si sospetta una qualche distrazione da parte della... Non si registrano altri feriti. 23/01/2013.»

La parole sopraggiunsero e il medico le inghiottì con la mente, una dopo l'altra. Nonostante avesse sofferto, Gwen non si era mai permessa di trasmettere alcun dolore. Si era dedicata solo al futuro e senza implorare la pietà di nessuno.

Ha perso il padre, la madre e la sorella...

«John, caro...»

Mrs. Hudson irruppe nel silenzio e John, per semplice riflesso, chiuse il portatile con un unico celere scatto, perfetto nel destare l'attenzione dell'anziana.

«Mrs. Hudson!»

«Spero di non averla disturbata in un momento inopportuno.»

«Assolutamente no. No!»

L'uomo sentì il bisogno di nascondersi.

«È scappata!»

Sherlock, con falcate ampie, calpestò la moquette del soggiorno, esponendo tutta la sua altezza. L'iperattività l'obbligò ad adottare un comportamento frenetico, quasi inarrestabile.

«Chi è scappato?» chiese Gwen, spuntando fuori dalla parete.

L'aria da finta tonta non le donò molto, ma ancora troppa era la preoccupazione per la presenza del piccolo Lars.

«Hanno attaccato La Donna. Hanno tentato di farla fuori, questo pomeriggio» spiegò il detective, strepitando e uccidendo tutta la propria pazienza. «E non sono riuscito a prevederlo. È riuscita scappare, ma non può continuare così. Se solo avessi un indizio... ma niente!»

«Cosa?» La bionda cercò di connettere ogni singolo concetto, ma la sua mente smise di funzionare nel momento in cui l'occhio cadde sul metallo scintillante stretto nella mano dell'uomo. «Oddio, Sherlock cosa tieni in mano?»

Colto l'allarme, Sherlock aggrottò la fronte e schiuse le labbra. Dopodiché diresse il ghiaccio degli occhi sulla la mano destra, saldamente stretta attorno a una pistola scintillante.

«Oh sì, ecco perché la gente urlava!»

Gwen rimase sbalordita nello squadrare il bruno dimenarsi con un'arma letale senza alcun timore. Quell'uomo era immune alla percezione del pericolo e si era abbandonato al rischio con spensieratezza inumana. Proprio come John.

«Dove l'hai presa?» chiese lei.

«Solo un regalo da parte della nostra cliente.»

Era stata Irene Adler a lasciare quel piccolo presente nero a Sherlock, posizionandolo sul pavimento del piccolo appartamento-bunker di Thorsgade. Quell'arnese, però, non mostrava alcun segno sospetto, nessun indizio.

Il detective, abituato ai tranelli e a possibili interpretazioni, smontò il caricatore e solo allora riuscì a sfilare della comune carta piegata con precisione maniacale.

«Oh, un regalo dentro al regalo» cantilenò, soddisfatto.

Gwen si fece prossima al collega ma, nel mentre, sperò che Lars fosse rimasto nascosto e non avesse assistito a nulla di allarmante; all'inglese sconosciuto dalla pistola scura.

«È solo un foglio vecchio» convenne lei, notando la carta ingiallita dal tempo.

Le lettere stampate, assottigliate dagli anni, componevano una semplice frase dallo stile poetico, forse anche filosofico.

Alla nostra morte, fine e inizio del vivere, un confine solo rimane.

(Ludwig Johansen) [2].

Gwen non si espresse per non essere costretta a dare una spiegazione senza senso, e anche per non finire umiliata a causa di scarse capacità deduttive. Sherlock invece, stirato il foglio, si divertì ad analizzarlo con la solita sollecitudine. Espose la carta alla luce, in cerca di altri indizi, lo posizionò in orizzontale per osservarne lo spessore e, infine, lo annusò.

«Molto interessante» farfugliò, assorto.

La ragazza lo puntò, cercando di riuscire a comprendere tutte quelle bizzarre tecniche e, solo quando il bruno sembrò riacquistare contatto con il mondo reale, trovò il coraggio di chiedere altre informazioni riguardanti eventuali prove.

«Cosa è interessante?»

«Non lo capiresti» confessò l'uomo, sbrigativo. «Il foglio è stato strappato da un vecchio libro, ma Irene attualmente non possiede una biblioteca. Qualcuno ha cercato di avvertirla del pericolo imminente, aiutandola con questo semplice pezzo di carta. Lei, prima di fuggire via dai suoi aguzzini, ha ritenuto adeguato lasciarlo a me.»

La donna cominciò a massaggiarsi il mento e le labbra con il pollice. «Non mi pare di aver letto qualcosa di importante.»

«È perché tieni il cervello a riposo, Blomst!» asserì lui con un po' entusiasmo per poi accettare una legittima occhiataccia. «No, non guardami così. Lo fate tutti. Preferite non affaticare troppo la testa. La tenete spenta e ignorate i continui stimoli di ciò che vi circonda. Sembrate quasi in letargo... Immagino siate sempre rilassati.»

La giovane alzò lo sguardo al cielo per insopprimibile esasperazione. «Bene. Ora che ti sei preso un momento per insultare me e la specie umana... desideri illuminarmi o no?»

Sherlock le porse il foglio.

«Una parola ogni due» comandò, testando l'accompagnatrice come un insegnante impassibile.

Gwen inspirò e prese la carta timidamente, per poi raccogliere tutta la concentrazione. La logica presto sopraggiunse e, seguita la semplice istruzione, permise la lettura di in concetto insito nelle semplici parole.

Alla nostra morte, fine e inizio del vivere, un confine solo rimane.

Alla fine del confine.

«Sono al confine» spiegò la donna.

Una scarica titillò i suoi lobi cerebrali e tutto si fece elementare: finalmente erano giunti a un'informazione concreta e utile alla caccia contro il nemico silenzioso.

«Il problema è quale confine» evidenziò Sherlock, impaziente.

«Probabilmente è solo il confine della città» ipotizzò Gwen, cercando di sfruttare la spiegazione meno laboriosa.

«O forse altro» convenne lui, per poi far tamburellare le dita sul muscolo della gamba sinistra. «Lo scoprirò presto! Occorre un aiutante... Quindi mi auguro tu riesca a liberarti della piccola peste prima che sia troppo tardi.»

La ragazza, a quelle parole, sentì il sangue gelare all'istante. La mani cominciarono a sudare, le palpebre si aprirono completamente, il cuore aumentò il battito e la lingua mutò in una serie di tremolii simili a quelli di una foglia in ottobre.

«Come... Come sei riuscito... Tu...»

«Niente di troppo impegnativo. Le fette di pane lasciate sul ripiano del soggiorno. Morsi troppo piccoli per appartenere una donna adulta. La tua espressione da ebete al mio rientro e l'odore di zucchero proveniente dalla cucina sono solo state le conferme definitive.»

Il detective, allora, percorse qualche metro fino a giungere in uno degli sportelli inferiori posti al di sotto del lavello. Con un gesto secco, lo aprì e li trovò il piccolo intruso con la scapole incastrate contro il legno, le braccia attorno alla Jolly Roger e le sottili gambe intrecciate. Ciuffi rossi riscaldavano la sua pelle bianca e costellata da lentiggini chiare e scure.

«Sherlock, dannazione!» lo rimproverò Gwen, timorosa per il bambino che, purtroppo, si era spaventato a tal punto da rintanarsi come un topo all'interno di un buco.

La pistola. Lo ha terrorizzato...

«Non provare a spaventarlo!»

Il bruno invece di sproloquiare con l'aria da solito saccente restò fermo e muto per qualche secondo, ibernandosi nei minuti. La donna, intanto, senza comprendere il freno ai modi del collega, si limitò a un tono docile.

«Sherlock...»

Il bruno assottigliò il taglio degli occhi e pronunciò una sola parola. «Barbarossa...»

3.

Frammenti del passato ritornarono a occupare la memoria di Sherlock. Non esistette più alcuna Copenaghen, ma solo un infinita collina di grano abbracciato dalle miti corrente dell'estate al di sotto dei tiepidi baci del sole di luglio. Proprio in mezzo a tutto quell'oro, una testa rossa sfrecciava accanto a lui e, libera come un uccello, sprizzava energia con ogni gesto ingenuo e ogni singolo urletto consacrato al gioco.

Nella mente del detective non c'era più posto per le parole di Gwen, che quasi sembrarono soffocate da un lastra trasparente. Tutto si era disintegrato e lui si era sentito come separato dal resto del mondo, isolato in un bolla contenente solo le nostalgiche ombre di ciò che era stato: due bambini intenti a starnazzare tra l'eterno mareggiare di rigogliose spighe gialle.

«Sherlock» lo chiamò la ragazza, pensierosa. «Spero tu mi stia ascoltandolo. Si chiama Lars Jepsen. Suo padre è scomparso da cinque giorni. Lui ha solo cinque anni. È perfettamente autosufficiente. Ma non può continuare a restare da solo. Io ho cercato di fare del mio meglio.»

Il bruno, con la testa adagiata sullo schienale della poltrona, strizzò gli occhi un paio di volte, come per mettere a fuoco il viso del bambino stretto alla gamba della giovane.

«Ho notato» sibilò il bruno.

«Il padre si chiama Jørgen. È un pescatore ed è scomparso assieme al suo peschereccio. Non è più tornato a casa. Il che è molto strano secondo Lars. "Lui torna sempre!"»

Così specificò la ragazza, provando a esternare il concetto e infine la mente di Sherlock riuscì a liberarsi da quelle tristi reminiscenze, per meglio concentrarsi su un pensiero prossimo alla soluzione del caso. Quella bolla era appena scoppiata.

«Finalmente una bella notizia!» esclamò, senza però esaltarsi in maniera troppo scomposta.

«Da quanto la scomparsa di una persona è una bella notizia?» La ragazza si morse il labbro per non passare a qualche schiaffo comandato dall'indignazione. «Potresti sforzarti a essere più umano. È solo un bambino.»

«Bambino o no. Non ha importanza» confessò, scollando il capo scuro dal morbido schienale di una poltrona. «Come ho fatto non pensarci prima. Era evidente, troppo evidente!»

La bionda poggiò una mano sulla testa fulva del piccolo Lars, l'altra andò verso il setto nasale. La presenza prolungata di Sherlock era ottima nel generare uno stato di emicrania.

«Sto solo cercando di non impazzire nel seguire le tue dannate deduzioni.»

Il detective, sempre più euforico, con un balzò si mise in piedi e cominciò a gironzolare per tutta la stanza, piroettando come una ballerina. Si fermò solo dopo un po', per attaccarsi alla finestra esposta sul mare, nero quanto il petrolio ma cosparso di dinamici luccichii.

«Ho sprecato il tempo cercando a terra, quando avevo la risposta davanti ai miei occhi. Il mare... È lì che si nascondono. Goldschimdt e Moore sono abituati all'acqua. E sanno gestire un peschereccio perché hanno operato in Asia. Ci tengono d'occhio, senza nemmeno fare un passo nelle strade. Ecco perché non c'è traccia di loro in tutta la città.»

Gwen non poté fare a meno di ignorare una parola.

«Hai detto un peschereccio?» chiese, deformando le sopracciglia. Il ragionamento del bruno era impeccabile e sin troppo lontano dai inutili abbagli. «Tu pensi sia quello del padre di Lars. Non è vero?»

«Oh sì. È sicuramente quello.»

«Questo vuol dire che loro lo hanno rubato. Lo hanno ferito! Ecco perché non è più tornato a casa... Oh mio... Loro hanno ferito un uomo solo per sfruttare un posizione strategica in pieno mare.»

«Loro lo hanno ferito, nella migliore delle ipotesi» specificò il detective. «Sono due ex agenti della CIA in cerca di vendetta, e non nessuno dei due gradirebbe un testimone troppo scomodo. Parliamo di gente senza molti scrupoli, Blomst. Gente capace di tante cose.»

Gwen sentì la tristezza colpirla con violenza. Istintivamente, si piegò a terra e strinse le spalle di Lars, come per proteggerlo dalle brusche parole di Sherlock Holmes.

«È davvero necessario pensare al peggio?»

4.

Sherlock pensò a diverse ipotesi inerenti alla scomparsa di Jørgen, ma nessun era uscita a surclassare quella effettuata su di un possibile omicidio. Goldschimdt e Moore, essendo stati cacciati dalla CIA, non avevano più disposizione nessuno mezzo e, per forza di cose, dovevano aver rubato il peschereccio per poi rifugiarsi in mezzo alle acque, dove non avrebbero destato alcun sospetto.

Avrebbero potuto semplicemente sottrarre una delle tante navi, ma una denuncia seguita da costanti ricerche sarebbe stata inevitabile. Tutto sarebbe andato a monte. Per di più, poche erano le zone di pesca autorizzate e, se Jørgen fosse stato colto da malore, qualche pescatore si sarebbe accorto del peschereccio e si sarebbe fatto sentire.

I dubbi crollarono, uno dopo l'altro: era molto più semplice uccidere un uomo senza contatti con la società, nascondere il corpo e sottrarre il mezzo, così da impedire il sopraggiungere di ritorsioni e querele.

«L'islandese solitario...»

«Kaptajn Krogh!» [3]

Il detective non riuscì più a pensare nel momento in cui una le innocenti parole lo destarono con uno strano appellativo. Lars, dimenticata la paura, aveva trovato il coraggio di avvicinarsi allo strano uomo aveva infestato l'appartamento.

«Kaptajn Krogh!» ripeté il bambino.

Sherlock sconnesse le iridi dall'orizzonte per condurle sulle gote scarne del suo rifugiato. Lars non aveva mai mostrato tristezza, né di preoccupazione, poiché probabilmente gli era impossibile supporre la fine del padre.

«Non è così che si impugna una spada» lo rimbrottò il bruno, cercando di limitare i suoi ignobili istinti.

Il piccolo, in effetti, aveva da poco un preso in prestito un mestolo della cucina, per poi usarlo come spada contro il nemico e proporre giochi innocenti. «Brug sværdet!»

«Tanto per cominciare dovresti infilzarli con la punta» rivelò l'uomo.

Lars, completamente immune all'inglese, fece uno slancio in avanti per colpire Krogh con la parte tonda, ma Sherlock fece in tempo a prendere un cuscino e usarlo come scudo. Dopodiché usò ogni singolo riflesso per stroncare ogni fendente. Continuarono per un intero minuto, fino a quando il rosso non poggiò il legno sullo stomaco dell'avversario, senza troppa pressione. Il detective, allora, lanciò il proprio sguardo sopra la pancia sfiorata dal mestolo.

«Sei riuscito a colpirmi» convenne, sorpreso. «E proprio in mezzo al pancreas! Un colpo molto subdolo e che mi causerebbe un fine rapida e dolorosa. Be'... Sai essere crudele per essere solo un bambino.»

«Krogh døde.»

Døde... Dead... Morto...

«Oh sì, dovrei essere morto adesso.»

Il bruno non era solito accettare le sciocchezze, ma il fanciullo dentro al suo inconscio si era messo a strillare da parecchi minuti per un'altra possibilità. Perciò, abbracciata lo spirito goliardico del gioco, Sherlock Holmes lasciò da parte il suo essere per accasciarsi al suolo simulando un lamento. Lars rise come il più felice dei bimbi e, porgendo all'altro una piccola mano, chiese ancora un duello.

Intanto Gwen, rintanata nella cucina, girò il cucchiaio nel latte caldo cercando di non pensare alla deduzione di Sherlock, di ignorare le riflessioni rimestate nella mente. Era molto meglio sperare in un errore e nutrire l'anima con del sano ottimismo piuttosto che con teorie dannatamente logiche.

L'acciaio continuò a mescolare il latte, sino a quanto degli schiamazzi echeggiarono e attirarono la donna verso il soggiorno sconquassato dai giochi. Tutto il mobilio era stato spostato e Gwen, con il bicchiere ancora in mano, non riuscì a credere ai suoi occhi. L'algido Mr. Holmes si era impossessato dell'intera casa, rendendola una qualche Isola-che-non-c'è a causa dell'ingenuo desiderio di interpretare un pirata.

«Ecco il Kraken [4], Spugna!» recitò Sherlock, con l'indice puntato contro la donna. «Provvedi tu? Ti consiglio vivamente di sfruttare il cannone. È sempre efficiente contro l'attacco di un orrido mostro com quello.»

«Orrido che?» sibilò lei prima di essere colpita da un cuscino. Il latte traboccò dal dal bicchiere, schizzandole il petto e la maglia. Gli occhi neri presto si ridussero a due fessure e la bocca si spalancò per l'oltraggio incassato.

«DRÆBT!» urlò il bimbo, con gioia.

«Ottimo colpo, Spugna!» pronunciò Sherlock, sorpreso.

Gwen prese il cuscino da terra, si avvicinò alla folle coppia con aria minacciose e quasi finse uno sguardo sprezzante in direzione dell'adulto, così celandosi nelle dolci millanterie del gioco di ruolo. «E quindi tu saresti Uncino? E io che pensavo fossi Peter Pan... Pieno d'arroganza, presuntuoso e, soprattutto...» continuò, pronta a colpirlo. «Mai cresciuto!»

Sherlock fece in tempo a parare i colpi con gli avambracci e persino Lars, impugnato un secondo cuscino difese il capitano, colpendo più volte la ragazza sul fianco con fare spensierato. L'uomo d'un pezzo e la candida compagna si svillaneggiarono con sciocchi insulti per un po', fino a quando non dovettero riprendere fiato a causa del continuo combattimento.

«Pronto a soccombere, Peter?» chiese lei, con aria di sfida.

«Giammai, Wendy!» esalò Sherlock, stanco. «Arrenditi, o ti venderò alla ciurma e sarai costretta a leggere favole per il resto dei tuoi giorni.»

Gwen rise a quella minaccia così buffa e idiota. Era chiaro che Sherlock avesse letto Peter Pan, altrimenti non avrebbe mai avuto una conoscenza così approfondita delle idee di Barrie. Forse era a informato su tutta la cultura piratesca concepita nei tanti scorci di mondo durante i secoli.

«Allora risparmiami, Peter» recitò lei, lanciando occhiate al bimbo e al malfattore. «E ti darò il mio bacio.[5]»

Sherlock restò interdetto. Stando alle sue memorie, il bacio di Wendy era qualcosa di molto differente rispetto al contatto di un paio di labbra, era un simbolo concreto, materiale. Di certo, Gwen non si sarebbe arresa alle labbra e per questo si era già messa a frugare nella tasche dei jeans in cerca di un oggetto minuscolo da regalare.

«Sono a corto di ditali, credo» rispose, colpevole.

«Be', se questo è il problema» Sherlock cercò di rientrare nel personaggio in tempi rapidi. «Sconterai la tua pena raccontando storie. Spugna dovrebbe adorarle.»

Il rosso quasi sghignazzò a causa di quelle esilaranti figure.

«Come vuole, Pan!» rispose la ragazza, sorridendo.

Ignorando il fatto di essere stata troppo maliziosa, passò oltre quel piccolo screzio e, sedendosi sul sofà, dedicò ogni sguardo al piccolo Lars, già bell'e pronto per una storia da gustare.

«Conosci Den Lille Havfrue, Lars?»

Lei cominciò a raccontare, ma la sua mente vagò agli attimi che si erano appena consumati al di sotto di quel tetto. Mai e poi mai si sarebbe aspettata di scoprire uno Sherlock così sciolto, così deliziosamente umano. Era come se qualcuno fosse riuscito a sciogliere quella muraglia di ghiaccio, farla crollare per meglio svelare un bambino che mai era riuscito a crescere.

  
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