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Autore: AmyJane    06/03/2020    1 recensioni
Questa storia parla del bianco, del nero e di tutto quello che sta al centro. Conviviamo con mille sfumature e oramai sappiamo che non esiste la purezza. Sappiamo che il buio non è eterno e che tutto incontra i cambiamenti. Nero e bianco coesistono. Si contrastano ma senza mai negarsi, accettando la consapevolezza di non poter esistere senza il proprio opposto. Si completano e quasi finiscono con l'essere solo una delle tante sfaccettature dell'altro. Un po' come i diamanti che, nella loro infrangibile purezza, si rivelano essere solo una versione del carbone. Il nero è l'assenza di colore, il bianco l'unione di ognuno. Eppure niente e tutto alla fine sono molto simili, quasi la medesima cosa. Lo Yin contiene in sé lo Yang e lo Yang fa altrettanto.Sherlock è nero quanto una minacciata ombra ma ha un cuore puro quanto il diamante. Ha scelto di mostrarlo piano piano e di lasciarlo luccicare per contrastare la propria oscurità. Gwendolyn, al contrario, ha scelto la luce per accecare gli altri e mascherare un cuore color carbone. Gli opposti si attraggono per poi lottare senza mai né morire né trionfare. Si cede solo a un fragile compromesso.
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Marea

1. 

Le nubi, quel giorno di febbraio, avevano risucchiato il sole, costringendo Copenaghen a lasciar perire ogni proprio squillante colore. Hovedstaden, una piccola porzione settentrionale della città sporta sul mare, era per lo più composta da labirinti di baie composte da legno scricchiolante e piccole imbarcazioni consumate e stinte. 

Presso questa zona poco conosciuta, era esposta una boscaglia misera e tetra, i cui gracili arbusti spogli – come tanti aghi – bucavano la neve, arginando la costa di gelida roccia nera. Il mare invece, inanellando scaglie di lucido metallo, si era messo a frastagliare le pietre con le proprie onde, menando anche contro i pali di una minuscola casetta scarlatta.

L'abitazione di Lars Jepsen sicuramente non era comune come le tante disseminate per la periferia, ma somigliava tanto a una palafitta. In un certo senso era proprio una palafitta ben costruita, isolata e sospesa sui giochi di gelide acque irrequieto. Perfettamente amalgamata all'ambiente naturale, la semplice struttura era lo specchio del suo proprietario, il quale non doveva essere né molto avvezzo ai rapporti sociale, né abituato alla moderata confusione urbana della capitale.

Sherlock ne era convinto: la piccola abitazione era il contenitore delle risposte, risposte tacite e ancora protette da quattro mura di legno corrotto dal sale. Quindi, nel primo mattino, era giunto assieme alla collaboratrice e il piccolo pirata presso un ponticello di assi cigolanti. Tutti e tre percorsero il legno e giunsero presso la porta, all'apparenza sbarrata con un catenaccio arrugginito.

«Forventer!» comandò il piccolo, deciso.

«Aspetteremo!» pronunciò Gwen lanciando un'occhiata gentile al bruno e poi a Lars che, come un forsennato corse per tutto il ponte, traendo da esso una lunga sequenza di battiti stridenti e lunghi cricchi acuti.

La bionda e Sherlock scrutarono per un po' il confine, patendo sulla pelle il soffiare indisposto del clima. Smisero solo quando il bimbo tornò trotterellando, con in mano una chiave. Lars, giunto presso la porta, strizzò un occhio, inserì il ferro dentro l'apertura e poi srotolò le catene, così spalancando l'ingresso. Infine, si girò verso i suoi ospiti e li invitò a entrare con un semplice cenno della testolina rossa.

«Ottimo lavoro, Lars!» Il detective arruffò la chioma al suo piccolo aiutante ed entrò in casa, così inaugurando la caccia di indizi utili al percorso delle indagini.

Gwen, titubante, lo seguì e lì poté notare le reali condizioni dell'abitazione. L'interno della struttura era stata inghiottito dal disordine, così come dalla sporcizia. Cucina, camera da letto e soggiorno erano state concentrate nello stesso spazio, considerando l'organizzazione dei tanti mobili. Il giaciglio, pieno di spesse coperte sdrucite, era stato spinto contro la parte più lontana, accanto a un baule, un armadio e un arcolaio. La parete più vicina, invece, era stata adibita alla consumazione dei pasti, dacché erano presenti un obsoleto cucinino a legna, un dondolo logoro e un tavolo occupato da ciarpame.

«È un caos qui dentro. Questo non ti complica le cose?» chiese la ragazza, sorpresa.

«Certo che no, Blomst. Le semplifica.»

L'uomo acciuffò uno strano bagliore con gli occhi, proprio nel momento in cui notò il muro orizzontale, che era stato adornato con reti, remi e altri oggetti appesi al chiodo. Degli ami decoravano il legno, consumato e scosso dalle tempeste dell'ultimo inverno. Per quanto l'ambiente apparisse repellente, a lui sarebbe piaciuto passare i giorni in un luogo tanto autentico, così a contatto con il ruggire del mare burrascoso e il sorgere di mille storie da intraprendere. Era ancora forte il desiderio di abbandonare la terra per raggiungere un confine dimenticato, senza stagioni né certezze. Sarebbero stati solo lui e Victor. Esiliati dal mondo e con tutto l'infinito davanti.

«Tutto bene?» La bionda raggiunse collega e, adagio, posizionò la mano sulla sua schiena, con l'intento di esprimere un semplice gesto d'affetto.

Ciononostante Sherlock, sapendo quanto Gwen fosse abile nell'individuare qualsiasi emozione altrui, si sottrasse a quel tocco minaccioso per meglio mascherare il sentimento della nostalgia. Dopodiché diede comandi insignificanti.

«Bada a Lars, non a me!»

«Va bene» mormorò la ragazza, retrocedendo.

L'uomo, allora, cercò di liberare la mente dalle memorie passate e si concentrò su di un unico fine: rintracciare qualche elemento che confermasse qualche pessimo intreccio tra Goldschmidt, Moore e Jøren Jepsen. Tuttavia, durante la perlustrazione Gwen sentì addosso la morsa del gelo. Fu proprio il piccolo Lars a notare il come la donna stringesse le braccia intorno alla corpo in cerca di una fonte di calore.

«Cerca di fare in fretta o congeleremo qui dentro.»

Il bambino non era uno sprovveduto e perciò, da ottimo tuttofare, si catapultò fuori e tornò con dei legni secchi. In pochi secondi, li ammucchiò ordinatamente nella stufa del cucinino e si cimentò nel dare vita al fuoco con un fiammifero. La ragazza, seppur sconcertata da quelle tante abilità, raggiunse il piccolo rosso e lo aiutò.

«Ehi, aspetta!» disse, prendendo un altro fiammifero dalla scatolina. «Lo faccio io. Può essere molto pericoloso accendere un fuoco. Soprattutto in un casetta di legno come questa. Det er ikke sådan? Et kan være meget farligt, Lars.»

Gwen sfruttò la carta abrasiva, ma nemmeno dopo l'ennesimo struscìo riuscì a generare una fiammella. Il gelo era penetrato nel legno, bagnandolo, e fu necessario graffiare le testa del fiammifero in continuazione, ancora e ancora. Fu solo un impaziente tono baritonale a mettere fine a quel sibilo.

«Blomst!» tuonò il detective, scocciato.

«Scusami» rispose lei.

Non era sua intenzione essere d'impiccio.

«Giv mig!» comandò Lars, protendendo la mano.

La giovane, seppur reticente, decise di dare il fiammifero al bimbo che, riscaldata l'estremità con soffi caldi, riuscì a far nascere la prima fiamma. In poco, il fuoco divampò dentro le pareti della stufa e tutta la casa riconobbe calore e luce. L'alba non era ancora giunta del tutto, ma Lars era riuscito a trasformare quella catapecchia in un faro luminoso in mezzo a una cupa notte morente.

«Sei molto bravo, Lars! Du er god!» sussurrò la ragazza.

E il bimbo sorrise.

Passarono i minuti e Sherlock non si era risparmiato in nessuna deduzione. Era riuscito a raccogliere molto riguardo al misterioso Jørgen, il suo pescatore solitario. L'intera abitazione, invero, non era solo pregna d'acqua salmastra ma dell'intera essenza del suo ingombrante proprietario.

«Quarantatré anni, costituzione robusta e atletica. Solitario, affetto da una forte dolore lombare divenuto cronico. Molto legato al figlio.» Il detective cominciò a sproloquiare e, intanto, il suo viso ricadde su Lars che, ancora inconsapevole della situazione, si godeva il fuoco. «Non lo avrebbe mai abbandonato.»

«Sembra una spiegazione davvero coerente» dichiarò la bionda, strofinandosi le mani. In fondo, era anche riuscita a esaminare qualche dettaglio all'interno del soqquadro, ma senza scoprire radici così profonde. «Come hai fatto?»

Sherlock espose il petto, accogliendo il complimento insito nelle domanda. In seguito, squadrò la sua collega notando un sorriso perlaceo, un sorriso che mai nessuno si era preso il disturbo di dargli. Nessuno tranne John Watson. Il ghiaccio erano tornato a gocciolare sotto al calore di un bel gesto e l'uomo, per non deludere le labbra della donna, tese il braccio contro una delle pareti.

«Cosa vedi?» le chiese, spronandola a un esame delle fredde ferraglie consunte.

Gwen cercò analizzò tutto ciò che doveva essere analizzato.

«Vedo degli ami e... in alto degli scompartimenti con delle bottiglie di birra. Sono piene... Be', alcune sono piene. È strano, sembrano messe lì solo per prendere la polvere.»

«E questo cosa ti porta a pensare?»

Sherlock sembrò in tutto e per tutto un insegnante pronto a istruire la propria seguace.

«Che ama bere ma non sempre.»

«Sbagliato!» pronunciò il detective intransigentemente, per poi puntare la mano sul pavimento. «Adesso guarda giù, proprio ai piedi delle credenza. Ci sono delle scatole con dentro molte altre bottiglie di birra. Sono uguali. Stessa marca e stessa quantità.»

Gwen focalizzò la propria concentrazione sul vetro vuoto che occupava un parte abbondante del pavimento. Quel puzzle di bottiglie era stato occultato da un sacco di iuta. Jørgen aveva cercato di nascondere la birra per via del piccolo Lars.

«Queste sembrano vuote» confermò la ragazza, ispezionata la scatola incriminata. Spostò la copertura, in modo da poter esaminare meglio la presenza di liquido all'interno di ogni singolo recipiente. Tirò su per il collo ogni bottiglia, ci sbatté le unghie e confermò quella che era stata la prima supposizione. «Non è che sembrano vuote. Queste sono vuote. Tutte quante!»

Sherlock spiegò il perché di quella sottigliezza.

«È per via del dolore lombare cronico. È un pescatore, è abituato a lavorare con la schiena. Non riesce a distendere bene la colonna vertebrale e, proprio per questo, preferisce tenere le bottiglie a terra. È abituato a piegarsi, ma non sopporterebbe il dolore inflitto da un'impennata. Ha un figlio di soli cinque anni e ama faticare in solitudine. Nato negli anni settanta, a giudicare dalle vecchia foto all'interno del suo baule. Il soggetto ha quarantatré anni.»

La ragazza, ancora inginocchiata, farfugliò. «Fantastico!»

«E non è tutto. La parete è colma di effetti personali. Non c'è un singolo spazio libero, eccezion fatta per l'angolo destro.» Il bruno indicò con il dito il punto appena citato. «C'è una rete lì, abbandonata e senza alcun valore. Tuttavia accanto a essa c'è uno spazio vuoto. Probabilmente era lì che si trovavano quelle nuove. Il nostro uomo le ha prese il giorno della sparizione e le ha caricate sul peschereccio. La sua era solo una giornata di lavoro, ma qualcuno deve averla tramutata in qualcosa di molto diverso.»

Gwen ingoiò quello sproloquio nel comprendere che quella teoria era sempre più attendibile: qualcuno aveva fatto del male al padre di Lars senza troppo pensare.

«Questo vuol dire che...»

«Che possiamo escludere l'ipotesi di fuga intenzionale.»

Gwen tirò su col naso e diede un'occhiata allo strano arredamento della struttura. La polvere e le chincaglierie erano prove inconfutabili dell'emotività dell'islandese. C'era tanto altro. Non solo un sciocco dolore cronico.

«Soffriva di una lieve forma di distimia» confermò la donna, allarmata.

Sherlock per un po' la fissò, poiché sorpreso dall'aggiunta.

«Si nota dall'ambiente» continuò lei. «Tendeva a raccogliere tutto, ma senza buttare niente. Aveva un forte tendenza all'accumulo. Le persone emotive lo fanno. Non si liberano mai dei ricordi. E lui aveva bisogno di ricordare. Ha tenuto tutto il suo passato dentro la casa. Guarda che confusione!» La bionda s'alzò. «Questo posto è marcio!»

«È un indizio troppo sentimentale. Ma è corretto» disse il bruno, sorpreso.

Esaurite le parole, gli adulti restarono a fissarsi per qualche secondo, senza mai dare inizio ai soliti battibecchi. Sherlock ben presto si era abituato a osservare una nuova versione di Gwen. E Gwen era riuscita a non sentire più il bisogno di mascherare le proprie vulnerabilità dinnanzi al cinico Sherlock. Intanto il piccolo Lars, rifugiatosi sul suo lettone, cominciò a mangiare del pane di segale stantio e del danablu [1], prima contenuto in una scatola di latta.

«È così ingiusto» biascicò la giovane, riferendosi al bambino. Lars era solo al mondo, senza una madre e, in quel momento, senza nemmeno un padre. «Cosa dobbiamo fare con lui?»

Sherlock non emise suono, ma nel suo silenzio si fece chiara la risposta. Entrambi, per un solo giorno, avevano voluto bene al bambino. Non era dignitoso tenerlo con loro durante le indagini, tanto meno costringerlo a passare il tempo in mezzo al nulla.

«Dobbiamo avvertire la polizia»

Il detective rispose e Gwen riconobbe quell'unica soluzione; accolse il silenzio senza nemmeno eseguire un cenno. La tristezza, tuttavia, la avvolse come un velo, costringendola a trattenere poche lacrime.

«Penso di aver bisogno del bagno» confessò, per poi uscire dalla casa verso la cabina esterna, dove avrebbe potuto trovare un po' di solitudine e abbastanza acqua sufficiente da togliere il sale sgorgato sulle ciglia scure.

2.

«Non abbiamo trovato molto. Aveva iniziato a frequentare un istituto poco distante, il Saint Joseph, ma nessun insegnante poteva notare la mancanza degli alunni. Siamo a febbraio, ci sono le vacanze invernali [2], e Lars non poteva risultare assente. Nessuno ha sospettato niente, ma vedremo di avvalerci di un aiuto da parte della Politiet [3]. Per adesso, il bambino starà da una famiglia disposta ad accoglierlo. Naturalmente cercheremo di non sconvolgere del tutto le sue abitudini. Ogni passo sarà graduale, può starne certo!»

Sherlock fissò con freddezza la donna che avrebbe portato via Lars, fingendo un certa inconsapevolezza nei confronti di tutta la circostanza. Nascose tutte le sue congetture e, con l'animo a terra, limitò il cuore a una sola e semplice domanda.

«Starà bene?»

L'assistente sociale sorrise.

«Faremo tutto il possibile affinché sia felice, Mr. Holmes. Non si preoccupi!»

Gwen, intanto, prese un piccolo giubbotto e con fare materno lo infilò lungo le braccia del piccolo che, addirittura, si ribellò con qualche scossone.

«Så jeg bliver alene!»

«So che sai farlo da solo» osservò la ragazza. «Ma volevo farlo io.»

Il detective registrò con la mente l'attimo in cui la collega si prese cura del suo bambino. Quella donna proprio come Wendy, si era immedesimata nella mamma di un solo bambino sperduto, accudendolo fino all'ultimo momento nonostante la malinconia crescente. Pochi minuti e Lars Jepsen sparì per sempre dalle loro vite.

Sherlock amava il suo palazzo mentale, poiché era come una realtà parallela in cui rifugiarsi in ogni momento di difficoltà. Da anni aveva imparato questa tecnica mnemonica, così da riuscire a ricordare meglio, ma molte anche per dimenticare un passato troppo crudele. La prematura scomparsa di Barbarossa aveva squassato la sua infanzia con l'impetuosità di un terremoto. E cogliere Lars gridare per non essere separato da Gwen era stato come assistere una scossa d'assestamento; molto meno brutale, ma ancora difficile.

Per cancellare il brutto ricordo della giornata, il bruno tornò alla sua legnosità e si concentrò ancora su tutti i dati accalappiati per la soluzione del caso. Moore e Goldschimdt, rubata l'imbarcazione, si erano gettati in alto mare, ma era difficile comprendere quale fosse il punto esatto del loro nascondiglio. Ovviamente, non era impossibile passare intere giornate in acqua, poiché erano necessari i viveri e un punto d'appoggio su cui poter contare.

Sherlock strizzò gli occhi finché la sua mente non riprodusse la mappa dell'intera città. Proprio presso la casa del bambino, era rintracciabile una minuscola isola artificiale conosciuta come Middelgrunden, un ammasso di erba secca schiacciata da qualche modesta abitazione.

«Niente rende attraente un uomo quanto il pensare.»

Il detective sentì strade disgregarsi e gli oceani scivolar via dalla testa. Perciò, riaprì gli occhi e li puntò contro il muro del soggiorno, ospitante l'ombra di una donna, della Donna.

Irene Adler aveva sfruttato la notte per evadere dalla completa latitanza, nascondersi tra i turbinii di coriandoli bianchi e ritornare dal suo unico uomo.

«Molti non sono dello stesso parere. Tutt'altro» confessò Sherlock.

Irene, come una pantera, sfilò in direzione del detective, palesando il suo aspetto. Quella notte, il corpo non era fasciato da un abito elagente, né abbellito con gioielli. I tessuti erano scialbi, ma anche estremamente comodi. Solo i settori capelli scuri resero giustizia a una così raffinata bellezza.

«La conoscenza è potere. E il potere è sexy.»

«Il potere?» chiese l'uomo, freddo. «È una visione interessante. Poter decidere la morte o la vita al posto di qualcun altro, farlo soffrire o meno. C'è sempre una forte componente attrattiva nel manipolare le persone, ma questo è ciò che tu sai meglio. Ti è piaciuto essere il burattinaio, ma adesso non lo sei più. Sono io a reggere i fili, stavolta.»

La Donna sorrise.

«Non è importante se sei tu a portare avanti il gioco. E sai perché?» Mosse le braccia attorno al bruno ma con delicatezza. «Sai, c'è gente che obbedisce solo a se stessa. Si tratta di persone che hanno piena consapevolezza del potere, persone come Jim, o Smith. Poi ci sono quelli come te e il dottor Watson. Voi preferite non sfruttare le potenzialità perché siete troppo legati a un codice morale dalla dubbia esistenza. Non mi lascerai mai affondare.»

L'uomo sentì del profumo fare breccia nelle narici. Irene era intelligente, troppo intelligente per non saper come ottimizzare il significato della parole. Era capace di usare tecniche degne di un sofista e solo per ammaliare persone dalla mente acuta.

«Cosa te lo fa pensare?» chiese lui, interessato.

«Perché è il tuo codice morale a imporlo. Salvi sempre le persone che ami e tu sai di provare amore per me, anche se in un modo tutto tuo. Come puoi notare, non si tratta di manipolazione. Non più almeno.»

Sherlock notò il viso della dominatrice farsi sempre più prossimo. Le sue pupille era dilatate, ma non a causa dell'ansia e della preoccupazione; la sua bocca, priva del rosso, sembrò desiderosa di un contatto poco casto. Lei lo bramava. Proprio come un tempo.

«Non pretendo che tu ce la faccia. Solo che ci provi. Tu non puoi sempre prevedere il futuro, come io non posso sempre sopravvivere. Ma adesso siamo qui, vivi e soli. Il destino mi ha concesso una seconda possibilità. Ma non so se questo durerà. Quindi ceni con me, Sherlock?»

Il detective sentì la punta del proprio naso sfiorare quello della Adler, già in attesa di una risposta ovvia, tangibile. Però, non sentì alcun desiderio nel soddisfare ancora quell'offerta. Il suo affetto per Irene era indecifrabile, ma non era il momento di cedere a comportamenti poco pudici.

«No!» 

E il sorriso della dominatrice scomparve.

Gwen non riuscì a dormire a causa dei ricordi e di quel pomeriggio conclusosi con tanta amarezza. Si sentì come una carogna, una volta abbandonato il cucciolo. E Inutile fu il rigirarsi nel letto, mentre il sonno era ancora intento a combattere contro il senso di colpa.

Disperata, la ragazza restò con gli occhi impigliati nella finestra, nella luna opalina dentro al nero della notte. Infine, chiuse gli occhi in attesa di uno sbadiglio, ma solo fino a quando un forte cigolio la destò. Sherlock si era affacciato alla porta, con addosso un'espressione cerea.

«Sei ancora sveglio?» domandò lei.

«Vestiti e prepara la valigia!» ordinò l'uomo.

«È successo qualcosa?» La testa di lei stilò un ampia gamma di ipotesi riguardanti il caso.

«Irene Adler è in casa. È fuggita questa notte e ha bisogno di un posto in cui dormire. Tu–»

Irene.

Gwen non era mai riuscita a digerire il suono di quel nome appartenente a una donna così superba. Sicuramente non si sarebbe sacrificata per lei. In nessuno modo.

«Oh, sei completamente impazzito?» chiese. «Non mi caccerai per lasciare un posto caldo alla tua amante. Siamo a Copenaghen, nel mese di febbraio, e non ho intenzione di morire per assideramento. Fuori, in mez–»

Sherlock ascoltò quelle parole. «Non lo faccio per lei. Lo faccio per John.»

La ragazza, con ancora il broncio, sollevò il sopracciglio e divenne più attenta, per meglio capire se l'uomo stesse solo bluffando attraverso della falsa premura. La Donna era importante. Lei, al contrario, non era mai stata una priorità.

«Non mi farò abbindolare dalla retorica.»

«Irene Adler è un bersaglio, Blomst» rispose l'uomo, con apatia. «Così come lo sono tutte le persone che la circondano. Ho premesso a John che ti avrei tenuta fuori da questa storie. Ma lei è qui, adesso. Solo io posso proteggerla. Non ti chiederò di passare tutta la notte al gelo. Ti sto solo chiedendo di non essere in pericolo.»

La bionda restò sorpresa da quell'ultima affermazione, poiché non aveva letto in essa né malizia né falsità. Sherlock, forse, aveva finalmente parlato con il cuore e non con la mente. Con il petto leggero, Gwen, diede la sua risposta all'uomo con un unica mossa: si buttò sul materasso e soffocò la faccia nel cuscino in cerca del sonno tanto desiderato.

«Presumo che non hai intenzione di ascoltarmi.»

E lei non stette a sentire. Dopo aver manifestato un ampio dissenso nei riguardi della fuga, invitò Sherlock ad andare a coricarsi per meglio riassorbire le energie. Questi, tuttavia, comprese di non poter occupare un letto già preso dall'ospite che si era infiltrato nella mura. Così fu costretto a raggomitolarsi sulla poltrona del soggiorno. Il tonfo a terra, però, fu imprevedibili.

«Non avrai intenzione di dormire per terra, spero» disse Gwen, raggiunto il collega. Il botto era stato forte, troppo per essere ignorato. «E comunque mi hai spaventata. Avevi intenzione di uccidere il pavimento, schiacciandolo?»

«Oh, il pavimento se lo meritava» [4], dichiarò l'altro, sarcastico.

Qualche secondo ed entrambi si ritrovarono ai margini dello stesso letto, con sopra la pelle delle coperte lanose e la luce delle stelle. L'imbarazzo appesantì tutta l'atmosfera, costringendoli a essere due pesci fuor d'acqua, nel posto sbagliato e probabilmente anche al momento sbagliato.

Solo Gwen si diede alla lingua. «Buonanotte!»

Sherlock non rispose e si limitò a lasciar posto al silenzio utile a ogni riposo. Rimase immobile, fino a quando le palpebre si fecero pesanti. Fino a quanto sentì le coperte venir meno.

La bionda, come una bimba, tirò la lana verso di sé, lasciando il collega al freddo e all'umidità. Sherlock, a causa di ciò, grugnì leggermente e dopo, con altrettanta infantilità, tirò le coperte dal proprio lato, dando inizio alla guerra.

«Vuoi smetterla?» chiese lei, sul punto di perdere equilibrio e cadere dal materasso.

Non riuscì a comprendere come un essere così intelligente, in alcune occasioni, potesse sembrare così stupido. Mr. Holmes, in certe occasioni, era solo un bambino troppo cresciuto.

«Se, magari, non avessi iniziato.»

La donna inspirò, spazientita.

«Bambinone.»

«Pessima babysitter» rispose l'altro, cocciutamente.

La ragazza sorrise e per poco riuscì a dimenticare il dispiacere della giornata. Forse la tristezza non si sarebbe allontanata in poco tempo, ma quella buffa scena era stata benefica. Il ricordo di Lars intento a giocare fu l'unico presente e accese solo tutta la spensieratezza dei momenti passati.

«Buonanotte, Uncino!»

E il silenzio ripiombò.

  
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