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Autore: AmyJane    06/03/2020    1 recensioni
Questa storia parla del bianco, del nero e di tutto quello che sta al centro. Conviviamo con mille sfumature e oramai sappiamo che non esiste la purezza. Sappiamo che il buio non è eterno e che tutto incontra i cambiamenti. Nero e bianco coesistono. Si contrastano ma senza mai negarsi, accettando la consapevolezza di non poter esistere senza il proprio opposto. Si completano e quasi finiscono con l'essere solo una delle tante sfaccettature dell'altro. Un po' come i diamanti che, nella loro infrangibile purezza, si rivelano essere solo una versione del carbone. Il nero è l'assenza di colore, il bianco l'unione di ognuno. Eppure niente e tutto alla fine sono molto simili, quasi la medesima cosa. Lo Yin contiene in sé lo Yang e lo Yang fa altrettanto.Sherlock è nero quanto una minacciata ombra ma ha un cuore puro quanto il diamante. Ha scelto di mostrarlo piano piano e di lasciarlo luccicare per contrastare la propria oscurità. Gwendolyn, al contrario, ha scelto la luce per accecare gli altri e mascherare un cuore color carbone. Gli opposti si attraggono per poi lottare senza mai né morire né trionfare. Si cede solo a un fragile compromesso.
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Solitario

1.

Londra, Baker Street.

Era febbraio e il giorno non era cominciato con aurora argentata. Sui monumenti più conosciuti della capitale inglese, il blu della notte era regredito, così convertendosi in un giallo accecante. Sfumature rosse contornarono il sole, che da poco si era svegliato, inaugurando il mattino. Gradualmente le finestre di ogni edificio iniziarono a ospitare le soffuse luci degli appartamenti. La gente cominciò a riempire le strade, proprio sotto quell'insolito telo color arancia.

Persino John, frastornato dalla stanchezza, sbadigliò. Il brutto richiamo della sveglia lo aveva costretto a mettersi seduto sul letto, come per riprendere il controllo sulle proprie funzioni. Scemata la sonnolenza, ripassò il programma quotidiani: portare Rosie l'asilo nido e andare all'ambulatorio.

Si preparò in fretta e furia, prese la figlia e poi raggiunse il portone principale. L'aria al di fuori dell'abitazione era frizzante e per nulla collegabile una mattina così limpida e colorata; tuttavia, l'uomo non demorse e s'inabissò tra gli spifferi che si erano incanalati per le strade. Infine, raggiunse la costosa Bentley da settimane parcheggiata davanti al palazzo.

John la squadrò e, trattenendo il ghigno, e con la mano prese la chiave dentro la tasca dei jeans. Seppur senza permesso, sistemò Rosie nel seggiolone agganciato ai sedili posteriori, e poi si mise al volante.

«Rimanga tra me e te, intesi?» farfugliò, lanciando un'occhiata alla figlia.

La bimba si limitò a uno sguardo innocuo e un risolino. L'ex soldato, allora, fece rombare il motore. 

Raggiunto l'ambulatorio, i primi tarli cominciarono ad apparire. Sherlock da un settimane era scomparso nelle terre danesi, ma non aveva ancora lasciato un messaggio al proprio collega. Questi, perciò, dovette chiedere informazioni.

«Dannazione, Sherlock, perché non rispondi mai alle chiamate?» domandò, quando finalmente una cacofonica sequenza di bip lasciò posto alla note baritonali del collega.

In una piccola stanzetta – arredata con un lettino e altri marchingegni medici – continuò a parlare con il bruno. Nemmeno si accorse della paziente appena giunta.

«...È passata una settimana, una settimana. Non so mai se pensare al peggio. Potresti anche mandarlo un messaggio.»

John tirò un sospiro di sollievo quando il collega gli fece ben intendere di essere in salute e con la mente lucida.

«Ricordi gli accordi. Non saltare i pasti e non fare qualcosa per cui potrei prenderti a pugni.»

La donna dentro allo studio, pur sentendo quella chiamata, diede poca importanza all'uomo che era di spalle. Piuttosto si sistemò e posò la borsa.

«Niente sparatorie, Sherlock. Se è possibile...»

Il tempo trascorse e la pazienza riconobbe subito John Watson, un suo ex fidanzato lasciato tempo addietro poiché troppo rapito dall'ambiguo rapporto instaurato con il coinquilino e collega Sherlock Holmes. La loro relazione era naufragata nel peggiore modo e solo a causa di una gelosia indefettibile.

«Spero tu le abbia dato il tempo di mangiare. Il cibo rallenta i tuoi processi mentali, non di certo i suoi. E se anche fosse non ha bisogno di spremersi le meningi.»

Le parole scivolarono rapide e la conversazione ebbe presto fine. L'ex soldato, rassicuratosi, disattivò la chiamata, mise il cellulare in tasca e sistemò il camice bianco. Pur avendo appena notato quell'ombra, si girò con noncuranza e, solo quando riconobbe la donna nella della stanza, restò sbalordito.

«Janette?» chiese, fingendo di non ricordare.

«John» fece lei, alzando un sopracciglio scuro.

L'imbarazzo si impadronì di tutta la spazio, ma l'uomo accettò lo scherzo imposto dalle coincidenze.

«Ora ricordo. Be', n'è passato di tempo» disse l'uomo.

«Oh sì, tranne che per un piccolo incidente» rispose l'altra, mostrando una cartella da esaminare. «Ho un piccolo problema alla mano...»

La donna, ancora inviperita dal ricordo di quella relazione, non lasciò sfuggire quella punta di acidume in ogni parola. John si accorse dell'astio, ma non si scompose.

«Sono delle lastre? Fammi dare un occhiata!» Tese il braccio, evitando il contatto visivo con la donna. Si limitò a prendere la cartella e a esaminarne il contenuto.

«Congratulazioni, Janette!» esclamò con disinteresse.

«Per cosa?» chiese la corvina, dubbiosa.

Quasi inconsciamente gettò gli occhi sulla mano, spoglia di accessori se non di un piccolo solitario agganciato a un filo argenteo e brillante. Il diamante raccoglieva la luce e, nel suo piccolo, la rifletteva in tante pagliuzze sparse intorno al dito. «Oh, ho capito, sì. Strano che proprio tu l'abbia notato. Forse, quando sei da solo ti concentri meglio.»

John girò le pupille e solo in seguito riuscì a convogliare tutti i proprio sforzi mentali nella comprensione delle lastre. Solo dopo qualche minuto, notò una micro-frattura sul metacarpo.

«È solo una piccola frattura. Non ha bisogno di ingessature. Basterà qualche giorno di riposo e degli antidolorifici. Nient'altro» spiegò, scollando la lastra dallo schermo luminoso.

Janette sorrise, ma solo per falso compiacimento. Osservò ancora la mano fratturata, ma l'attenzione fu tutta rapita dal gioiello al proprio anulare. Era contenta di essere riuscita a conquistare la persona giusta e, se non fosse finita con John, le cose forse sarebbero state meno liete.

«Bene. Peggio di una contusione, ma niente per cui lamentarmi. Non sopporto le ingessature» dichiarò. «E tu, tutto bene?»

«E io cosa?» Il medico mostrò una smorfia.

«Era solo un modo per sapere come stai. Sai, ho saputo per sbaglio che hai una figlia. È grandioso.»

«Ah, sì certo.» John fece rimbalzare il viso da parte a parte e mosse le braccia con fare impacciato. Non amava quel genere di chiacchierate. «Be', è recente come cosa, a essere onesto. Non so come tu lo sappia.»

«Ho origliato la chiamata. Non di proposito...»

«Come, scusa?» 

Janette prese la cartella. «Te l'ho detto. Ho sentito la chiamata, tu e il tuo coinquilino. Insomma, era abbastanza chiaro che prima o poi... Sono felice che tu abbia finalmente accanto la persona giusta. E poi con una bambina.» 

L'ex soldato, a primo acchito, non riuscì a dar senso alle parole della paziente. Nessun filo logico riuscì a collegare tutte la frasi appena ricevute e, solo dopo la reiterazione di qualche ricordo, riuscì a a capire.

«Oh, tu pensi che...» Rise spasmodicamente e, preso dalla tensione, cominciò a mettere insieme le parole per rispondere. «Oh no, io e Sherlock. No, io non sono gay. Non sono gay!»

Alzò il tono, come per confermare con decisione la propria posizione. Era stanco dei tanti fraintendimenti, di tutte quelle sciocche supposizioni. Lui e Sherlock non erano una coppia, né lo sarebbero mai stati.

«Oh, certo» farfugliò Janette, sarcasticamente. «Non hai bisogno di nasconderti. Il passato è il passato. Non ce l'ho con te.»

Tuttavia, il medico non resse più.

«Si chiama Gwen e non è mia figlia. È complicato.»

Il bisogno di confessare delle notti passate con una donna premette sulla sua lingua. Pure lui si era abbandonato migliori compagnie e di certo non con il suo migliore amico. La donna sorrise forzatamente, in segno di poca accettazione nei confronti di quella affermazione così impacciata. Fece finta di ingoiare il rospo, per poi dire: 

«Va bene, John!»

John e Gwen. John, Gwen e Sherlock.

Lei ci era già passata, dopotutto.

2.

Era giunta la notte e Copenaghen si era fatta tutta blu e dorata. Le luci aranciate sulle stradine avevano gettato chiazze luminose nelle acque del canale. Proprio lì, macule auree continuavano a dilatarsi, disgregandosi e amalgamandosi nel freddo mare del nord. Lungo quegli edifici immacolati, una donna percorse parte del proprio cammino.

Gwen sentì addosso gli effetti collaterali dell'alcol, perfetto nel riscaldare le membra, alleggerire il peso della testa e far tremolare ogni passi. In mezzo ai turisti, arrancò fino a raggiungere il Hans Tvsens Park, cercando di trattenere un buona fluidità di pensiero. Purtroppo, ogni senso cominciò pian piano a perdere di consistenza; l'esofago le bruciò e le immagini sembrarono farsi sempre più farraginose.

«Oh!» esclamò, quando il cranio cominciò a dolere.

Non era stata una buona idea ingerire quel distillato solo per un po' di gelo da sopperire, ma il richiamo del dolce nettare, era stato capace di corrompere ogni disciplina. Inoltre, inconsciamente, bere era un modo per impedire ai ricordi di riaffiorare e sconquassare le giornate.

Gwen scosse la testa e ottenne solo una fitta peggiore e un più accentuato senso di nausea. Si maledisse per la pessima scelta messa in atto e, in seguito, si appoggiò al muro più prossima per non oscillare come un pendolo impazzito.

«John» pronunciò, senza nemmeno rendersene conto.

Lo stato d'euforia non era riuscito a smorzare completamente la sua lucidità e le gambe si trascinarono all'interno del parco per infine raggiungere una panchina spolverata di neve.

Solo pochi minuti, erano sufficienti solo pochi minuti, prima di riacquistare le forze e continuare fino alla meta. Bastava lasciare che il senso di nausea si affievolisse.

«Sei così stupida...» 

Cantilenando frasi, Gwen si raggomitolò in quel parco colonizzato solo da leggiadri cristalli ghiacciati. Il dolore allo stomaco era mutato in un fastidio sopportabile e lei, infreddolita e stanca, rimase ferma fino a quando uno scricchiolio di passi batté sulla quiete.

Il rumore anticipò la venuta di scure ombre. Si trattava di due adulti, prestanti e dal massiccio fisico prestante.

«Ehi, guarda un po' lì» farfugliò uno dei due.

La bionda staccò il viso dalle rotule e, lottando contro la sonnolenza e cercò di identificare quei due sconosciuti. Una testa color grano e un'altra più scura emersero dalla pioggia di fiocchi. Incredibilmente, erano proprio due turisti inglesi.

«Ehi, stai bene?» chiese il più alto. La sua chiara chioma fu spenta dalla notte, ma i suoi occhi risultarono accesi dall'alone luminoso attorno. «Ti serve aiuto?»

La mascella squadrata si mosse, enunciando parole zuppe di premura e Gwen costrinse la palpebre a rimanere spalancate.

«No, grazie. Mi sento meglio.»

Nonostante la sbronza, riconobbe l'accento Cockney. Non si trattava solo di connazionali, ma di abitanti dall'East End.

«Sei inglese, quindi.» Il secondo sconosciuto cominciò a parlare, ma senza riuscire a finire l'affermazione. «È incoraggiante, lo sai. Quando un danese parla si comprendono metà delle sue parole. Lingua strana...»

«Sta' zitto, Jimmy!» Il biondo allora ricominciò a dare fiato alle parole e, nel frattempo, si mise ad analizzare giovane con la stessa attenzione di un medico intento a fare diagnosi. «Sicura? Non hai una bella cera.»

«Molto sicura» barbugliò la donna.

L'alito dell'uomo – appesantito dall'alcol – stuzzicò le sue narici e così incrementò la nascita di altri conati.

«Possiamo darti qualcosa per la sbronza. Medicine o qualcos'altro.» Il bruno si mostrò gentile.

Gwen era debilitata a casa del distillato assorbito dal sangue, ma era riuscita a captare un sensazione sinistra in quella circostanza: i panni del samaritano addosso a quei due erano troppo stretti.

«Non ho intenzione di accattare niente da nessuno, men che meno da voi» rispose lei con il mal di testa e la prima fiammella di rabbia nel petto.

«Paul, è più testarda di quello che immaginavamo.»

«Oh sì, Jimmy. Molto testarda, ma noi non abbiamo scelta.»

La ragazza, sempre più schiacciata dai sintomi, si chiuse in un guscio di silenzio. Niente grida e niente azioni per porre fine alle sfortune che erano piombate giù come le tessere di un domino.

«Siamo persone educate» continuò Paul, serio. «Abbiamo affittato un appartamento per qualche settimana e si trova lì, alla fine del parco. È caldo e spazioso. Qui fa troppo freddo, ti consiglierei di seguirci senza lamentarti. Non abbiamo delle brutte intenzioni. Siamo qui per farti stare meglio.»

«E se rifiutassi?» Gwen lo fulminò con gli occhi.

«Forse, non hai capito. Qui fa freddo, e tu non sei nelle condizioni di muoverti. Sei sola, in un paese straniero. Fossi in te accetterei l'ospitalità.»

Non sono straniera. Non qui...

«Ha detto che rifiuta.»

Corde profonde e familiari squarciarono l'atmosfera, risollevando le sorti della situazione. Sherlock, riemerso dall'oscurità degli alberi e, ricoprendo il ruolo di giustiziere, avanzò sul morbido manto. I fiocchi danzarono con il vento, sbattendo sul suo cappotto scuro, sul suo viso spigoloso e la folta capigliatura scura.

«Ehi... chiunque tu sia, non ti intromettere!» fece il biondo, minaccioso.

«Ma l'ho già fatto!» specificò il bruno.

Gwen, ancora presa dalle emozioni, riuscì solo a respirare con più tranquillità. Fino a poco prima, si era sentita spinta in una gabbia ma, in quel momento, tutta la rabbia si era sciolta per lasciare posto a quel dannatissimo stato di sonnolenza. La presenza di Sherlock, invero, le aveva tolto ogni tensione.

«Sta bene, Miss?» chiese il detective. 

La ragazza non poté fare a meno di notare, da parte del collega, un linguaggio insolitamente formale.

«Oh sì, sì» ripeté, reggendo il gioco.

«Bene» sentenziò Sherlock dinnanzi ai malcapitati. «Cosa abbiamo qui? L'accento dell'East End ereditato dal padre, a giudicare dalla parlata non-rocatica e dalla glottalizzazione. È un dialetto molto conosciuto nel ceto medio-basso e appartiene alla zona limitrofa alla foce del Tamigi, un area portuale. Non dal Bermondsey, troppo abbiente, ma dal Millwall o–»

«Chi sei?» chiese Paul.

Il bruno piegò il labbro in un sorriso ricco di soddisfazione e, in seguito, mise la mano dentro il cappotto per tirare fuori un documento preso appositamente per chissà quale evenienza.

«Ispettore Lestrade, di Scotland Yard» recitò, con fare fermo. «Stavo dicendo, proveniente dal Millwall. Figlio di un addetto al porto, uno non molto importante. Forse un gruista o un carrellista. Suo padre guadagna abbastanza da concederle una vacanza qui, tuttavia non può permettersi un albergo. Quanto a lei, lavora al porto saltuariamente e nemmeno con piacere. Be', ho informazioni sufficienti, adesso. Cercherò di aprire un'inchiesta, il prima possibile. Sia paziente!»

«Ehi Ehi Ehi» ripeté il biondo, incalzante. La mano destra si infilò nella tasca interna del giubbotto e prese un mazzo di banconote. «Non siamo criminali o cosa, ma turisti. Ci hanno pagato. Ci hanno pagato per riportarla a Londra, non per farle del male. Mi creda.»

Gwen restò interdetta.

«Sia più preciso» comandò Sherlock.

«Una donna, ci ha pagato per tenerla d'occhio. E poi ci ha detto di portarla a Londra. Ma senza farle niente. Ci ha detto che era per questioni di sicurezza.»

«Be', è un tono molto convincente il suo» evidenziò Sherlock, corrucciando la fronte. «Chi l'ha pagata non sarà molto contento, ma nemmeno i miei colleghi scherzano. Spero cominci a capirlo.»

Parola dopo parola, i due escogitarono una scusa per scappare e impedire che tutto degenerasse. Il detective rimase fermo, in mezzo al bianco e imperterrito fioccare. Infine, inspirò, come per trattenere l'impulso di tallonare che quei due.

La ragazza, ancora contratta nel dolore, abbandonò la rabbia e la paura. Si limitò a ricambiare l'occhiata del bruno e a farfugliare un ingenuo «Grazie!»

«E di cosa? La loro intenzione era quella di portarti al sicuro. Quello che ti trattiene in questo inferno, sono io.»

Rimasero immobili, come le statue di bronzo, mimetizzandosi con l'ambiente attorno. Lei candida era come la neve raggrumatasi nelle strade e lui nero come le ombre della lunga notte danese.

«Non avresti dovuto seguirmi» la sgridò Sherlock, nervoso. «Non quando cerco di stanare un criminale. È troppo pericoloso e, se ti succedesse qualcosa di male, John non me lo perdonerebbe.»

Gwen abbassò lo sguardo, come un criminale dopo la sentenza. «Mi dispiace molto. Non pensavo a quello che stavo facendo. È che preferivo avere accanto te e non quella donna. Non mi piace per niente. È così...»

«È Irene Adler. Il suo nome non porta mai nulla di buono. E tu non sei nei suoi piani, in base a quello che è appena successo.»

«Per questo ti ho seguito, ma dopo...»

«Ho fatto in modo che perdessi le mie tracce.»

La ragazza alzò il viso, catturando con il naso i fiocchi.

«Ma, adesso, tu sei qui» constatò, sforzando la ragione. «Sei stato tu, dopo, a seguire me. Perché lo hai fatto?»

Sherlock non rispose, ma accolse la quiete. Raggiunse la giovane e subito dopo s'inginocchiò per meglio prenderle il braccio destro. In un attimo, Gwen si ritrovò appiccicata alla busto del suo inaspettato amico, un busto molto utile come appoggio per il cammino rimanente.

Decollarono le reminiscenza su John, pronto a farle da bastone, e un sorriso apparve. Sherlock non era delicato come il suo collega, era irruento nei suoi gesti. Inoltre, la spiccata altezza lo rendeva incredibilmente scomodo.

«Sei troppo alto» annunciò la giovane.

«Stiamo ancora continuando a bere?» ironizzò il bruno. «Sto tenendo il conto su di una mano, ma se continui così userò anche le altre cinque dita. Mi auguro sia un problema passeggero, John ha già sua sorella a cui pensare. Lo faresti esasperare.»

La bionda sorrise, ma molto amaramente.

«Che predica senza senso. Hai mai girato per le strade di Londra nel fine-settimana. Sono piene di gente sbronza dalle sei.»

Sherlock, sentendo la pressione della testa della donna sulla parte inferiore del torace, gettò l'occhio in quella direzione e notò fili argentati impigliati nel tessuto del cappotto. Lei, in quell'istante, era molto più rilassata e teneva la pelle a contatto con il soprabito, come una bambina in cerca di conforto.

«Tu non sei come gli altri.»

L'uomo parlò e la ragazza restò sbalordita da tale dichiarazione. Tutti erano disposti a scoprire in lei fragilità e limpidezza, anche a costo di fraintendere qualsiasi cosa.

«Tu non sei come gli altri? Ti sembro davvero così... pura?» chiese lei. «Tu sei Uncino, il perfido, freddo e insensibile Uncino. Mentre io sono solo Wendy, la mamma. Quella che grida di prendere la medicina e racconta le storie.» Una pausa occupò il tempo e i suoi occhi cominciarono a luccicare per la lacrime. «Ma che ne sai tu delle mie storie?»

Sherlock passeggiò per la strada deserta, fingendo poco interesse per le parole della donna. In realtà, qualcosa all'interno del proprio petto sembrò muoversi più velocemente, amplificando uno strano senso di disagio.

«Sono orribili le mie storie, Sherlock» confessò Gwen.

Sentì un peso sulle spalle e, più teneva quella storia dentro la sua testa, più il dolore le mangiava il cuore. Quella confessione trattenuta era come bile, pronta a corrodere tutta ciò che di buono aveva nell'anima. Forse, era tempo di espellerla.

«C'era una donna di nome Gerda Høeg, che è stata costretta a raggiungere l'ospedale dopo un incidente nel centro commerciale di Sheffield. Era solo un piccolo incidente, ma lei era al nono mese. È stata costretta a partorire qualche ora dopo ma le cose non sono andate per il meglio. Non ha resistito molto.»

Le parole s'introdussero nell'orecchio di Sherlock, raggiungendo subito mente e cuore. Gwen, aiutata dall'alcol, aveva dato fiato a parole sempre taciute.

«È stato molto difficile per i familiari accettare una morte del genere, ma c'era un bambina a cui badare. Il padre è stato straordinario. Non gli ha mai fatto pesare nulla, ma le cose sono peggiorate con il tempo. Era una bambina troppo sensibile per tutti, per sua sorella. Scarlett non mi ha mai perdonata per quello che ho fatto. Ha cercato di fingere fino a quando ha potuto.»

La donna tirò su col naso. Le lacrime cominciarono a rigarle le guance candide e lei stessa fu costretta ad asciugarle premendo le gote contro il bel cappotto del suo accompagnatore.

«L'adolescenza è stata la parte peggiore. Troppi attacchi di panico, troppo di tutto. Era come essere costantemente congelati» confessò, afflitta. «Sono iniziate le ricerche per un buon psichiatra e l'assunzione dei farmaci. Gli effetti collaterali erano odiosi. Sono anche stata selezionata per partecipare a una diagnosi sperimentale. Ero una ragazzina ma ero già capace di distinguere una tomografia assiale computerizzata da una tomogrofia a emissone positronica. Il neuropsicologo scoprì che ero capace di amplificare le emozioni. Ero una specie di specchio deformante...»

Le sue labbra tremarono, ma non per il freddo.

«Sempre la stessa storia fino al mese di dicembre. Mio padre è morto per un ischemia cerebrale. Era diabetico. Mia sorella non ha sopportato tutto questo. È scomparsa per mesi. Era depressa, troppo depressa per occuparsi del suo monolocale, mangiare... o guidare. Il suo incidente è stata un'altra tragedia.»

I due si trascinarono per qualche metro.

«Quanto alla bambina difettosa... Be', lei ha pianto per mesi, fino a consumarsi gli occhi. Ma dopo le lacrime sono finite... e non solo quelle. Niente panico, niente di niente. Le mie ansie si erano alleggerite. È stata la mia cura, Sherlock. La cosa sbagliata ma efficace. Erano loro la mia malattia.»

Sherlock perse un battito nell'ascoltare tutto quel racconto. Non si chiese quante anomalie erano presenti in quei due decessi consumatasi in un lasso di tempo così stretto. Tutt'altro, smise di essere un Holmes e continuò a guardare negli occhi di Gwen, in cerca dell'anima.

«Cosa c'è di sbagliato in me?» soffiò la bocca di lei.

«Niente. È l'uomo a essere sempre sbagliato.»

La donna, ferma quanto il proprio sostegno, ricambiò lo sguardo. Cercò nell'accompagnatore qualcosa oltre il cinismo.

«Se ci pensi, anche Wendy è un'egoista. E Uncino è una brutta persona solo perché ha perso la sua mano. Era parte di lui e d'un tratto ha smesso di esistere. Chi era la tua mano, Sherlock?»

Il detective si sentì paralizzato da quell'affermazione, dal momento che Gwen aveva già capito tutto e senza nemmeno il bisogno di un resoconto dettagliato. Si era limitata ad attirare verso di sé il pagamento per la confessione appena fatta. Il bruno, allora, non riuscì a negare, ma rimase in silenzio con addosso la tensione e l'incombere dei ricordi.

«Era Barbarossa!» esclamò lei, traducendo il silenzio.

«Sì. È così»

Fu questione di un solo attimo e l'uomo sentì le braccia della ragazza cingerlo con determinazione. Non riuscì a capire il perché, ma dopo comprese il tutto. Preso da un raro momento d'umanità, ricambiò con un solo braccio la stretta. Con gentilezza, trascinò la mano attorno alla schiena dell'altra ed eseguì una giusta pressione. Il suo naso fiutò il odore, il suo petto invece ospitò del sale fresco.

Non seppe in che direzione guardare e, di conseguenza, distrasse gli occhi puntandoli in alto, sulle stelle splendenti come tante lucciole. In seguito, puntò gli occhi in basso, sulla vetrina di un negozio già chiuso da ore. Il riflesso di questa dipinse due figure, una bianca e l'altra nera, strette in un abbraccio affettuoso, un segno di pura complicità. Lui e Gwen, sotto l'alone di un lampione, erano come due pezzi degli scacchi, l'alfiere nero e la regina bianca. Pallidi e sfaccettati quanto un diamante e duri quanto un minerale. Due solitari sporchi e abbagliati dalle finta luce di tutti gli altri.

  
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