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Autore: AmyJane    06/03/2020    1 recensioni
Questa storia parla del bianco, del nero e di tutto quello che sta al centro. Conviviamo con mille sfumature e oramai sappiamo che non esiste la purezza. Sappiamo che il buio non è eterno e che tutto incontra i cambiamenti. Nero e bianco coesistono. Si contrastano ma senza mai negarsi, accettando la consapevolezza di non poter esistere senza il proprio opposto. Si completano e quasi finiscono con l'essere solo una delle tante sfaccettature dell'altro. Un po' come i diamanti che, nella loro infrangibile purezza, si rivelano essere solo una versione del carbone. Il nero è l'assenza di colore, il bianco l'unione di ognuno. Eppure niente e tutto alla fine sono molto simili, quasi la medesima cosa. Lo Yin contiene in sé lo Yang e lo Yang fa altrettanto.Sherlock è nero quanto una minacciata ombra ma ha un cuore puro quanto il diamante. Ha scelto di mostrarlo piano piano e di lasciarlo luccicare per contrastare la propria oscurità. Gwendolyn, al contrario, ha scelto la luce per accecare gli altri e mascherare un cuore color carbone. Gli opposti si attraggono per poi lottare senza mai né morire né trionfare. Si cede solo a un fragile compromesso.
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Delirium

Copenaghen, Nørrebro.

Gerda Høeg se ne era andata soffiando l'ultimo respiro sotto l'alone malinconico dell'etero biancheggiare etereo di astri morenti. Di lei era rimasto niente: il suo aspetto materiale si era dissolto in pochi giorni e le sue parole si erano per sempre spente assieme al baluginare dell'aurora. Tutto si era fatto nullo, inconsistente quanto un pensiero e lontano quanto un ricordo. E lei, difatti, era mutata in pensieri e ricordi nella mente delle persone amate; soprattuto in quella delle due figlie ancora troppo immature per affrontare l'assenza del genitore.

Sia Scarlett che Gwen erano tali e quali alla madre; con il correre degli anni erano sbocciate con gli stessi angelici tratti nordici. Le guance tonde e la lunga chioma robusta si erano amalgamate in un connubio particolarmente grazioso, tanto delicato quanto esotico. Il sangue, sicuramente, non era riuscito a mentire e non si era posto freni nel far sbocciare due rose carnose, ma dalle sfumature differenti.

Tutto dalla madre...

Ricordando le parole del suo farmand, Gwen si rimirò nello specchio del bagno. La ricrescita, leggermente più scura, era iniziata a comparire pian piano, esacerbando le condizioni della pelle che, da ore, era stata depauperata da quel dolce tono rosato e trasformata in un pallore quasi mortale.

Le ciocche lanose si mostrarono bruciate dalle continue decolorazioni attuate da circa due anni. I capelli erano stati cambiati a causa di una strana forma di protesta; per cancellare un po' della somiglianza con la sorella maggiore. Non era mai facile lasciar riaffiorare la figura dell'arcigna Scarlett allo specchio, ogni mattina e ogni sera. 

Le sorelle Blomst erano quasi del tutto identiche e la minore si era presto stancata di fare i conti con quell'immagine intrappolata nelle lastre lucide di qualsiasi luogo. Deturpare la propria testa con una pettinatura si era mostrata la migliore scelta, ma solo per certi aspetti. Cambiare era stato il miglior modo per cancellare Scarlett. Ma anche il peggiore per cancellare quella madre mai conosciuta.

«Solo un cadavere. Sembro un cadavere» sussurrò la ragazza a se stessa, quasi colpevolizzandosi per quella carnagione così chiara e funerea. Il sole sfortunatamente non le aveva mai regalato abbronzature, ma dolorosi arrossamenti. [1]

Due dita magre e ceree si sollevarono fino a palpare le scure occhiaie al di sotto delle iridi color carbone. Il distillato aveva prosciugato tutta la buona fase del sonno, lasciandole un riposo poco rigenerante e privo di sogni. Tuttavia, non era riuscito a cancellare nemmeno un singolo ricordo della giornata precedente.

Gwen sapeva di non aver dato il peggio di sé: non aveva urlato, ma aveva sciolto la lingua, permettendo alla bocca di sciorinare dettagli poco piacevoli su un passato ancora troppo amaro; aveva sfruttato il detective di Baker Street come un amico conosciuto in tempi lontani.

Riportare le lancette indietro era impossibile, ma ancora persisteva quella piacevole sensazione di intimità cresciuta con così poco preavviso. Parlare con il bruno senza mezzi termini e disseppellire il pezzo oscuro di una scialba esistenza era stato un atto meravigliosamente catartico.

Poteva andare peggio.

Con timidezza, Gwen cercò con i polpastrelli il punto in cui Sherlock aveva impresso il suo tocco. L'abbraccio, che ambedue si erano scambiati, si era marchiato sulla pelle, lasciando come un tocco fantasma. Quell'uomo non era di certo adatto alle manifestazioni fisiche d'affetto e, perciò, quel gesto era stato singolare.

Ti ha abbracciata.

Un sorriso tirò le labbra della ragazza, contenta di aver diroccato la muraglia di Holmes, un uomo e allo stesso tempo un bambino pieno di insicurezze. I sentimenti in lui non erano stati ripudiati a causa dell'arroganza, ma di ben altro.

La ragazza tenne per sé quelle considerazioni e uscì dal bagno con ancora la testa dolorante, ma quando il soggiorno rivelò la figura inconfondibile di Irene Adler, percepì il proprio volto corrugarsi. La Donna, seduta sul sofà con la stessa grazia di una sofisticata madame, fissò la preda con l'occhio affilato.

«L'intelligenza emotiva è sopravvalutata, non credi?» disse, con la malizia nel cuore e nella bocca color rosso sangue.

Lentamente accavallò le gambe con fare provocante e, nonostante gli abiti fossero tutt'altro che seducenti e, continuò a sfruttare i propri modi da donna ammaliatrice nei confronti di chiunque volesse mettere in soggezione.

«Ne esistono di molte, ho sentito. Conoscevo un medico, una volta. Uno psichiatria. Diceva che esistono molti tipi di intelligenza. C'è chi sa ingannare con le parole, chi sa muovere un corpo meglio degli altri. Esistono le menti analitiche e quelle introspettive. Ma qual è il senso dell'intelligenza emotiva? Essere volubili, soffrire. Esporsi senza nemmeno volerlo. Cosa c'è di brillante in questo?»

Gwen ascoltò quella bocca e il suo animo ne uscì rabbuiato.

«Anche lei sa come leggere le persone» disse «Come?»

Irene sorrise, schernendola.

«Non è importante il come. È importante scopo! Comprendo molto di più, adesso. Sherlock in passato si è divertito a sfruttare ciò che ho provato e solo per punirmi. Per un solo momento ho creduto di non riuscire ad analizzare un uomo come lui. Non del tutto almeno. E poi ecco che compare dal nulla una come te. Mi sono posta le giuste domande e sono riuscita a trovare il Santo Graal. È stato commovente conoscere Sherlock nei suoi momenti di vulnerabilità. Mi è sembrato così comune. Fragile...»

La bionda deglutì, leggendo nella Donna una forte felicità. Irene li aveva spiati per tutto quel tempo, fugacemente. Fu ancora oscuro il come tutto fosse successo. L'immagine dei due inglesi in cerca di compagnia, allora, tornò, spiattellando la risposta.

«Erano le tue spie. Lavoravano per te. I due ragazzi dell'East End. Non è così?»

«Beccata!» soffiò Irene, alzando le mani. [2]

Gwen collegò gli eventi a delle motivazione improvvisate.

«Volevi liberarti di me.»

«Liberarmi di te. No, casa. Solo riportarti a casa» spiegò la Donna, in vena di chiarificazioni. «Sherlock non ha bisogno di te, adesso. Ha bisogno di tempo. E tu glielo stai togliendo.»

Il profondo tono della Adler divenne molto più aggressivo, intimidatorio e la ragazza, sentendo addosso la bellicosità delle parole, stette zitta. Impassibile. Irene non puntava a un discorso sarcastico, ma aveva ceduto a toni minacciosi.

La giovane ripensò alla cara Sirenetta e al come tutto era iniziato. Forse Irene, come la sfortunata creatura dei mari, non era stata ricambiata dal suo amore e aveva gettato le sue frustrazioni su di una capro espiatorio.

«Tu sei gelosa.»

Lo sguardo dell'altra si fece più acido.

«E di cosa, esattamente?» ironizzò la Donna.

Si appoggiò allo schienale, rilassando la schiena e ignorando la verità emessa da Miss Blomst. Impossibile fu rettificare quella frase, poiché troppo amaro era l'amore percepito per Sherlock Holmes, l'irraggiungibile. Tanti erano stati i tentativi, ma lui si era fatto il tassello mancante, l'unico pezzo della collezione.

«Dimmi di cosa?» ripeté Miss Adler, dispiaciuta. «Lui non è interessato alle persone come me. E probabilmente nemmeno a quelle come te. Giusto?»

La ragazza tenne strette le braccia al petto, cercando di proteggersi.

«Non ama molto chi assomiglia a noi» continuò la Donna, pungente. «Ha sempre preferito un altro genere di compagnia. È come me, del resto. Lui e il suo soldatino sono una coppia molto affiatata. Sherlock è molto bravo a nascondere le sue emozioni. Le soffoca. Lo fa anche quando è costretto a proteggere il nuovo giocattolino dell'uomo che adora.»

Irene ritornò a seminare zizzania, poiché non aveva altro modo per allontanare l'altra. Gwen, con i proprio modi, era diventata fonte d'attrazione. Per questo, era utile fare qualcosa prima che il cuore di Sherlock si facesse troppo affollato.

«È molto deprimente, ma tu devi averlo già capito, non è così?» domandò la dominatrice. «Tu devi per forza averlo capito. A cosa diavolo serve il tuo super-potere, altrimenti?»

Blackout.

Il cervello della giovane si congelò istantaneamente e non riuscì più ad assorbire alcuna sensazione. Le parole di Irene si erano catapultate nella sua cognizione, contaminando ogni funzione, ogni sinapsi, ogni singola attività cerebrale. Non c'era niente che la potesse destare da quello stato di stasi.

Le spalle si scontrarono contro il muro e la mente funzionò correttamente solo dopo qualche minuto. Nessun parola fu emessa; era meglio impedire a quelle sensazioni di emergere dal buio e lambire la luce.

Finalmente, fu chiaro il perché dei comportamenti di Sherlock, il quale era geloso e si era fatto prendere dalla paura nata a causa della relazione con John. Fin dal proprio arrivo, lei non aveva fatto altro che intralciare le indagini, minacciare il suo stato psicologico e allontanarlo dal suo migliore amico.

Lui ha fatto bene a odiarmi...

La giovane trattenne le lacrime e si morse il labbro. La sua testa minacciò di esplodere per le troppe informazioni ottenute e codificate in poco tempo. Il cuore invece ospitò un piccolo squarcio inferto dalla tanta umiliazione.

Sono stata così cieca. Come ho potuto lasciare tanti cocci per strada? Come ho fatto a non intuirlo?

«Hai perso la lingua?» chiese Miss Adler a quella bambina con gli occhi grandi e il vizio dell'ingenuità.

Spezzare giovani anime era davvero semplice per chi, come lei, si era dilettata nel dominare ogni genere di persona.

Gwen scosse la testa, fingendo dissenso, ma senza essere sicura. La vergogna la vestì come un mantello, spingendola a mutare in una creatura refrattaria. Sgusciò fuori il desiderio di fuggire, raggiungere Sherlock per gridargli «Scusa! Scusami, tanto!», ma mancò la forza. Di conseguenza, la ragazza ritrasse le lacrime e fissò la faccia compiaciuta della Donna che, nel corso di un secondo cambiò, facendosi attornia.

Gwen non diede alcuna spiegazione a ciò e restò ferma alle proprie considerazioni, fino a quando un dolore lancinante le percosse tutta la testa. In breve, si ritrovò a terra e con le gote schiacciate contro la moquette. Non ebbe nemmeno il tempo di urlare, poiché i sensi l'avevano già abbandonata, lasciandola come un corpo senz'anima.

2.

Gwen era abituata a percepire le emozioni altrui, ma ogni esperienza era sempre differente, inedita. Nei momenti di tristezza era più semplice elaborare qualsiasi sentimento negativo; invece nei momenti di gioia la tristezza era assimilata come leggermente attutita. L'angoscia, l'ansia e la paura erano le emozioni più facili da amplificare. La gioia era solita passare quasi di sottecchi, tanto era fugace. L'amore era ancora peggio dacché non era quasi mai distinguibile dal resto.

«L'amore non è un sentimento, ma un interesse e un intenzione» era sempre stato detto nell'ambiente accademico e, in fondo, come concetto era terribilmente reale. L'amore era confondibile con la felicità, con il dolore o il risentimento. Non era assolutamente classificabile come una singola emozione.

L'amore è molto di più...

Se solo Gwen avesse saputo come riflettere amore da parte degli altri – e non solo inutili infatuazioni – avrebbe avuto una vita molto più dolce. Sfortunatamente, la sua mente aveva una buona predisposizione nei riguardi di tutto ciò che era negativo e quasi mai si dilettava nello sfiorare belle sensazioni.

Questi pensieri si rimestarono nella testa della giovane, che cominciò pian piano a riacquistare coscienza; espulse i rimasugli dei precedenti ragionamenti, per poi concentrarsi sull'ambiente umido in cui si era stata rinchiusa.

Del legno oscillante costituiva interamente quel luogo buio, lercio e dall'odore acre. Si trattava, molto probabilmente, della stiva di un'imbarcazione media, perfetta nel rinchiudere due donne. Irene, con un vistosa ferita alla testa, scosse il corpo con la stessa aggressività di una pantera e, a ogni singolo movimento, le catene cantarono con voce stridente. Entrambe, legate come bestie, si ritrovarono sole e indifese.

«Oh no, no» piagnucolò la bionda, realizzando ciò che effettivamente era successo. Le avevano prese e poi portate lontano, sfruttando una lurida imbarcazione, o meglio il peschereccio di Jørgen Jepsen.

L'immagine del piccolo Lars fu seguita da quella di un detective pirata sempre più docile ed entusiasta. La paura intanto crebbe a causa dalla situazione incresciosa.

«No, no...»

«Io direi di sì» disse la Donna.

Dopo qualche minuto anche Gwen cominciò a sbattere le catene contro il legno, ma senza successo. Era stata legata a un anello arrugginito delle manette dalla misura alquanto larga.

«Non ti aiuterà a scappare. Ti lusserai solo un muscolo, così.» La bionda rimproverò Miss Adler, illuminandola sul come fosse inutile tentare una fuga con un metodi sciocchi.

«Il legno è marcio. Prima o poi si spezzerà.»

«Ma potrebbero sentirci» evidenziò la giovane, spaventata dall'idea dei rapitori.

Stanca del pericolo, sospirò e poi analizzò le proprie condizioni. Le energie si erano esaurite ed era scemata anche la tensione. Quando anche la dominatrici si calmò, la situazione sembrò mutare e farsi meno angosciante.

«Non doveva andare così» ammise Gwen, lasciandosi cullare dalle onde.

«Con lui va sempre così. Rapimenti, omicidi, fughe. Sono questo genere di cose che lo fanno sentire vivo. Non puoi separarlo dai suoi passatempo preferiti.» Irene la corresse.

Convivere con Sherlock era un po' come stare sulle montagne russe, su di una una continua altalena di eventi. Nessun altro era capace di narcotizzare la noia con missioni sempre più complesse e respiri mozzati. Eppure Miss Blomst non si era ancora abituata a quel modo di campare.

«Dov'è adesso? Avrebbe dovuto proteggerti?»

«Molto più vicino di quanto pensi» confessò Irene.

«Come puoi dirlo?»

«Perché è sempre stato così.» 

Restarono per molto a contatto con il legno umido, fino a quando il battito dei passi misurò il tempo con un precisione prossima a quella di un metronomo. Presto, Adam Moore spiattellò la porta da un lato, permettendo l'ingresso di una luce dorata, ma poco tiepida.

«Irene Adler» pronunciò l'uomo.

Gwen, ammutolita e con il cuore impazzito, analizzò il loro rapitore, un uomo caucasico, tozzo, basso e senza capelli; quei duri tratti facciali ben erano lo specchio di tutta l'impertinenza di una certa mentalità americana.

«Adam» sussurrò Irene con voce melliflua quanto lo sciroppo d'acero.

«Ci rivediamo, finalmente» disse l'altro.

«Per l'ultima volta.»

Gwen, presa da un attacco di adrenalina, spinse le mani fuori dalle manette. Fortunatamente, riuscì a far scivolare le dita dal metallo. Lo sbattere delle catene sorprese il nemico che, d'istinto si girò contro la seconda preda. La bionda sospese il respiro e tenne le mani libere dietro la schiena con l'intento di non creare alcun allarme.

«Oh, spero le catene non ti diano così fastidio, cara» recitò Adam. «Be', potrei allentarle se ti fanno male. Non sono inglese, ma conosco la buona educazione. Purtroppo ho come il presentimento che ne approfitteresti e non ho intenzione di uccidere tutte e due lo stesso giorno.»

Moore si voltò nuovamente verso Irene, spiegando il perché avrebbe preferito risparmiare l'altro ostaggio.

«Un inglese vivo può diventare un ottimo guadagno. Un inglese morto, invece, rimane un inglese morto. Il governo britannico è molto legato ai suoi cittadini.» Fece un cenno in direzione della ragazza. «Soprattutto a quelle come lei. Fresche e piene di speranza. Certe facce stanno sempre bene sulle prime pagine di un giornale. Non è così, Irene?»

La dominatrice accartocciò il volto in un'espressione di rabbia, ma subito dopo lo distese per paura, proprio nel momento in cui la canna di una pistola spinse contro la sua fronte.

«Non avresti dovuto farci licenziare!» Moore la condannò.

la Donna strizzò gli occhi e non spiaccicò parola. Restò ferma, come in attesa del proiettile, fino a quando un brusco rumore la costrinse a spalancare le palpebre. L'ex agente era disteso a terra, con l'arma lontana dalla mano e gli occhi chiusi per il colpo in testa. Proprio accanto a lui Gwen, con in mano un asse di legno macchiata di rosso, respirò affannosamente per il brusco gesto appena compiuto.

Irene non si congratulò per il colpo, tanto meno pose ringraziamenti. Ripreso l'autocontrollo e si catapultò verso Moore in cerca dell'arma, ma non fu svelta abbastanza, poiché l'altra la precedette e riuscì subito a ghermire la pistola.

«Dammela!» comandò la bruna, a denti stretti.

Gwen diede fiato alla correttezza.

«So qual è la tua intenzione e non te lo lascerò fare.»

Un rumore sconvolse le due donne, che gettarono gli occhi in direzione dell'ingresso, dove una seconda ombra contrastò la luce proveniente dall'esterno. Sherlock Holmes, come una divinità, fece la sua comparsa nel momento del bisogno.

«Sherlock!» La giovane lo chiamò a gran voce.

Il peso sul suo petto si sciolse nel momento in cui lo sguardo incrociò quello del suo collega. E persino la bruna parve rilassarsi, ma lo sgomento la colpì quando comparve anche un terzo individuo. Robin Goldschmidt si pose accanto al detective con fare quasi rilassato e puntò alle due prigioniere.

La situazione prese una piega improvvisa e tutti, tranne Moore ancora senza sensi, si erano ritrovati sul ponte a conversare animatamente in cerca di una tregua o qualcosa di molto simile. Sherlock, davanti alle sue protette, ascoltò le parole del risoluto Goldschmidt.

«Dove sono i file, Holmes?»

«Nascosti, in un luogo di mia sola conoscenza.»

«Perché?»

Robin, al contrario del suo collega, era contraddistinto da una chioma bionda, pelle abbronzata e una buona altezza. Era prestante, attraente, massiccio e prepotente; un autentico figlio della bandiere a stelle e strisce.

«Miss Adler non può essere un vostro bersaglio, almeno finché sono io a possedere i file» comunicò il detective. «È sotto protezione del governo inglese e non può essere ferita. Per di più, secondo ogni mio ragionamento, la vostra posizione è drasticamente peggiorata. Avete tenuto in ostaggio una corretta cittadina inglese e, molto probabilmente, siete colpevoli di omicidio nei confronti di un onesto pescatore danese. Lo stesso che possedeva questa imbarcazione. Sono a conoscenza di molti dei vostri crimini e, se fossi in voi, non peggiorerei ulteriormente la situazione.»

«Che cosa vorresti?» chiese l'altro, con arroganza.

«Un accordo. La vita di Miss Adler in cambio della mia assenza.»

Il nemico restò interdetto.

«La tua assenza?»

Sherlock, allora, chiarì le sue intenzioni.

«Non parteciperò ad alcuna indagine contraria al vostro operato. Lascerò che siano le limitate capacità dell'Interpol a occuparsi di voi. Quanto a noi, spariremo dalle vostre vita, per sempre.»

Goldschmidt sorrise. Non volle assolutamente abbassarsi al semplice ricatto, ma si fece desideroso di vendetta e non interessato a una buona fuga dalle forze straniere.

«E se ti uccidessi?» chiese, allora.

Sherlock lo puntò, apatico.

«Perderesti la possibilità di recuperare i file che ho nascosto. Se ci uccidessi lo stesso, sappi che tutte le forze investigative di ben due paesi ti starebbero col fiato sul collo. La latitanza può essere una valida alternativa, ma giocare a nascondino con il mondo non è semplice.»

Gwen e Irene rimasero in silenzio.

«Bene!» Lo sguardo di Goldschmidt si fece assente, poiché puntò con la coda dell'occhio alla figura di Adam Moore, di nuovo vigile e determinato.

Il collega, con la pistola mirò alle donne sul ponte. Tuttavia, Sherlock immediatamente si accorse della circostanza e, senza nemmeno ragionare, seguì l'istinto innato. Incurante di tutto, ghermì l'esile figura di Gwen, coprendola come un manto dal proiettile che esplose pochi secondi dopo. Il colpo, purtroppo, perforò il suo fianco destro. Le mani, ciononostante, continuarono a proteggere la ragazza senza cedere alla debolezza. 

Irene Adler, intanto, approfittò degli arti liberi e dei pochi secondi di vantaggio per piantare il chiodo arrugginito – precedentemente scovato – nel collo di Goldschmidt, proprio sulla carotide gonfia di sangue. Moore, puntò la pistola contro la Donna, ma non sparò poiché la nemica aveva già afferrato l'arma del suo ex collega.

«Come la metti, adesso?» chiese Irene, acida.

Moore sudò freddo.

«Addio!» Irene premette il grilletto, ma nessun colpo partì.

L'ex agente, allora, rise come un folle nel cogliere quel tentato omicidio naufragare così miseramente. Riprese il controllo del braccio e puntò la seconda arma contro la bruna che, presa alla sprovvista, scappò via, rovesciando barili vuoti e reti.

Moore, anche se ostacolato, la seguì. Gwen nel frattempo, stordita dall'adrenalina e dal terrore, dedicò tutto il poco tempo che le era rimasto a Sherlock, steso al suolo e incosciente. Spremute le meningi, trascinò il suo scudo umano su una piccola scialuppa penzolante al lato del peschereccio. Lì posizionò il detective e infine, sedutasi, sciolse il nodo e calò con molta difficoltà il legno sull'acqua salmastra.

Le correnti furono cordiali quel giorno e li trascinarono lontano da quel luogo di morte, dove un'ultimo sparo echeggiò squarciando il dolce rumore delle brezze marine.

3.

Il rumore del legno che sbatteva contro le onde selvagge si perpetrava senza sosta. Le infinite acque salate profumavano il vento, sempre più violento e indisponente. Nel mentre, il cielo si era disteso, ostentando le ultime fulve sfumature della giornata. Non c'era un appiglio di terra e ogni confine era lambito dalle spaventose estremità di mare immenso e gelido.

Quel pezzo di mondo nient'altro era se non una linea dimenticata da Dio, un guazzabuglio di acqua e sale al di sotto di nuvole tintesi di sgargianti colori arcobaleno. Proprio da quest'ultime nacque una pioggia leggera che, irradiata dal tramonto, precipitò sotto la curiosa forma di tanti aghi incandescenti.

Gwen osservò quel drammatico panorama e nel frattempo accolse la pioggia dorata. Non si sorprese nel non sentirla calda quanto il suo aspetto, ma così gelida da bruciare tutta la pelle scoperta. Dovette, addirittura, soffocare i rantolo che cominciarono a grattarle la gola, irritandola ulteriormente.

La tosse non tardò a giungere e il freddo ebbe la meglio. La pioggia continuò a scendere indisturbata e la donna, dopo un po', la sentì insinuasi all'interno delle labbra screpolate e poi bagnare la lingua. Si stupì nel non percepire le gocce dolci e si chiese se il sale appartenesse al proprio pianto o a quello dell'orizzonte.

Presa dall'impotenza e terrorizzata a causa delle risorse nulle, tentò di remare con i palmi per qualche minuto, ma presto si accorse di non potere andare da nessuna parte. Fu quando le mani le si fecero grinzose e rosse a causa del gelo che desistette dall'infliggere altro male a se stessa. Era utile una soluzione. Una soluzione per lui.

Sherlock si era come fossilizzato, all'interno della scialuppa, in uno stato completamento incosciente. Il sangue, fermato attraverso l'aggregazione di più corde pulite in malo modo con l'acqua salata, aveva deturpato tutto il suo abbigliamento.

La giovane, invero, non comprese le migliori procedure mediche e temette che le corde fossero ancora troppo sporche e potessero causare una brutta infezione. Non era mai stata un medico ed era a conoscenza solo di due cose: il sale era un ottimo disinfettante e di sale, in quel luogo, ce ne era troppo.

Non posso fare altro...

Un boato scosse un punto lontano, annunciando il peggioramento della situazione climatica. In breve, saette squarciarono il cielo, fendendo con la luce il grigio incombente. Loro, però, rimasero inermi e soli come due fantasmi in mezzo alle prime raffiche.

Gwen sentì il cuore martellarle forte, mentre la disperazione soffocò ogni azione, ogni respiro, persino ogni pensiero. Mai avrebbe pensato di trovarsi nel bel mezzo del nulla, con nessuna alternativa e, sul braccio spoglio, il dolce solletico offerto degli scuri riccioli di Sherlock. Quest'ultimo, seppur esangue, mosse leggermente la testa.

«Sherlock!» Lo invocò la ragazza, lacrimante.

La pioggia continuò a battere sui loro corpi stanchi.

«Tu... Tu st–» Gwen non riuscì a parlare. La gola, infiammata da poco, trucidò tutte le sue parole.

Il detective spalancò le iridi, come per sfruttarle al meglio. Dopodiché, confuso, allungò flebilmente il braccio verso la ragazza e con le dita lunghe sfiorò la sua candida guancia. L'altra, stranita dal gesto, pensò a una qualche carezza imposta dalla circostanza, ma presto comprese che non era assolutamente niente di così sentimentale.

«Non sono un'allucinazione» farfugliò, mesta.

Dinnanzi a quella affermazione, Sherlock tirò indietro la testa mugolando dal dolore a causa della ferita che era ancora lì, sul suo fianco. In solo pochi secondi, riuscì a comprendere tutto ciò che era successo prima e dopo lo sparo. Si rese persino conto di ciò la giovane aveva fatto per risparmiargli l'emorragia.

«Toglile!» La voce dell'uomo, per quanto profonda, sembrò meno che un sussulto.

«Cosa?»

«O mi verrà una sepsi.»

Gwen comprese tutto e spostò le corde con delicatezza per poi gettarle gettò da tutt'altra parte. Rimase, però, sorpresa dall'enorme quantità di sangue che esse erano riuscite ad assorbire per tutto quel tempo. Ritornò a osservare il buco, ancora aperto, largo e fresco. La carne non sembrò infetta, ma forse era troppo presto per poter parlare. Le dita, sfiorarono quel buco, ma la pioggia, per quanto leggera, le precedette, causando nell'uomo gemiti di sofferenza.

«Ah!» Sherlock, seppur invalidato da quella continua tortura, continuò ad aiutare la sua collega, biascicando consigli. «Serve qualcosa di più pulito. Cerca qualcosa, Gwen. P-Presto!»

La ragazza sezionò la chioma bagnata con le dita e chinò la testa a causa del troppo scoraggiamento. Non aveva niente con sé. Solo sale, legno e sconforto. Da pochi minuti se ne era andata anche il barlume della speranza.

Cosa posso fare per non lasciarlo morire?

La ragazza indirizzò gli occhi sugli indumenti logori del bruno. Incurante della pioggia e del freddo, sfilò dal proprio corpo il maglione zuppo, approfittò della sua recente compattezza e lo attorcigliò. Infine, lo fece aderire a corpo del bruno con un pressione sempre maggiore. Non seppe nemmeno se pulire la ferita o semplicemente tamponarla.

«Non è abbastanza stretto» confermò, tremante.

La piccola canotta che le era rimasta addosso non fece molto contro le scaglie d'acqua che si infrangevano dappertutto. Si era ridotta a niente, lasciando esposta la sua pelle scoperta.

Sherlock richiuse gli occhi, alienandosi da tutta quella disgrazia. Il suo respiro si fece irregolare, ma non si costrinse a non ostentare, nemmeno per un secondo, un segno di cedimento nei confronti della morte. Perciò, rimase fermo, con la stessa tempra di uno stoico.

«Mi dispiace!» piagnucolò Gwen, accarezzandogli i riccioli. Le parole di Irene ritornarono nella sua mente.

Non era sua intenzione fare del male a nessuno e mai si sarebbe fatta trascinare da quell'approccio con John Watson se solo avesse saputo tutto in un primo momento.

Il detective sentì quel tocco venire meno sotto il predominio della acqua che, scrosciando, annullò qualsiasi altro suono e falsificò ogni senso. Ben presto, la lucida cognizione sembrò lasciarlo ancora, riportandolo in uno stato embrionale dove dove non esisteva il caldo, il freddo o il dolore. Rimasero concrete solo le parole della ragazza, che cominciò a tenerlo stretto com un bambino malato.

La morte era allettante, ma l'uomo si sentì protetto dalle precarie cure della bionda e non sentì il bisogno di altro. Gli ultimi giorni si ripresentarono nella sua testa come i fotogrammi di una pellicola malridotta, testimoniando un minuscolo cambiamento. Gli ultimi ricordi collezionati si erano rivelati davvero preziosi e ricchi di sentimento.

Lui e Gwen avevano condiviso un po' di gioia, l'intimità e anche il dolore. Si erano scambiati il passato, intrecciando le loro storie nel presente e formando una strana coppia. Lei la madre amorevole, lui solo uno scorbutico con qualche tendenza teatrale. Due persone così differenti e allo stesso tempo simili. Semplicemente, due anime affini.

L'uomo cominciò a lasciare la presa sulla propria mente, che investì le ultime forze solo per recepire la presenza accanto. La pioggia batté, il vento si dimenò e il mare continuò a scuotere la piccola imbarcazione. I fremiti giunsero ma non furono causati dal dolore, né dal freddo.

Il cuore del bruno palpitò perché felice di qualche carezza; la testa scacciò ogni attimo collegato al passato. Nella scialuppa non c'era più posto per il dolore inferto da John, né per quello imposto dalla morte di Victor, né quello inflitto dalle cure asfissianti di un fratello maggiore.

Contava solo il sentimento. E ciò bastava.

  
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