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Autore: AmyJane    06/03/2020    1 recensioni
Questa storia parla del bianco, del nero e di tutto quello che sta al centro. Conviviamo con mille sfumature e oramai sappiamo che non esiste la purezza. Sappiamo che il buio non è eterno e che tutto incontra i cambiamenti. Nero e bianco coesistono. Si contrastano ma senza mai negarsi, accettando la consapevolezza di non poter esistere senza il proprio opposto. Si completano e quasi finiscono con l'essere solo una delle tante sfaccettature dell'altro. Un po' come i diamanti che, nella loro infrangibile purezza, si rivelano essere solo una versione del carbone. Il nero è l'assenza di colore, il bianco l'unione di ognuno. Eppure niente e tutto alla fine sono molto simili, quasi la medesima cosa. Lo Yin contiene in sé lo Yang e lo Yang fa altrettanto.Sherlock è nero quanto una minacciata ombra ma ha un cuore puro quanto il diamante. Ha scelto di mostrarlo piano piano e di lasciarlo luccicare per contrastare la propria oscurità. Gwendolyn, al contrario, ha scelto la luce per accecare gli altri e mascherare un cuore color carbone. Gli opposti si attraggono per poi lottare senza mai né morire né trionfare. Si cede solo a un fragile compromesso.
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Memorie fantama

1.

Scotland Yard, Londra

Scotland Yard, quel quindici marzo, sembrava impigrita dall'assenza di personale e dinamismo. La gente, sempre intenta a disperdersi all'interno della struttura come una colonia di formiche, non era presente. L'orario tardo e il maltempo, sicuramente, avevano allontanato quasi tutti i professionisti, lasciando all'interno dell'edificio sale sgombre, corridoi silenziosi e tanta inerzia.

Lastre trasparenti erano poste attorno a un esiguo spazio, adibito a continui interrogatori di ogni genere. Dentro di quei pochi metri quadrati, luci bianche e soffuse gettarono un tenue alone su un tavolo. Proprio presso di esso, si erano posizionate quattro persone intente a condurre un interrogatorio. Greg Lestrade, accompagnato da una psichiatra, Anne Rowley, condusse la sua indagine con domande per il testimone. Il ragazzo, lo stesso che si era introdotto al 221 B presentandosi come il fidanzato di Gwen, era seduto in attesa di istruzioni.

«Vorrei che raccontasse tutto di nuovo, dall'inizio.»

Lestrade si aggiustò la camicia. Dopodiché, incrociò le dita con fare rilassato e si mise in attesa della testimonianza.

«Mi chiamo Russell, Russell Newman. Lavoro come infermiere al Royal Hallamshire Hospital, nel reparto di chirurgia. Però vivo a Low Bradfield, in campagna. Ho conosciuto Gwendolyn a giugno, durante il mio solito turno giornaliero. Sapevo chi fosse. Lavoravo con suo padre, una volta. È stata la dottoressa Jessica Ferguson a presentarci. Può contattarla se ha bisogno di una conferma... Comunque, ricordo quel giorno come se fosse ieri. Gwen era entusiasta per il suo tirocinio, ma si sentiva fuoriluogo. Io mi sono limitato ad aiutarla.»

Russell sospirò, alleggerendo i pensieri turbinanti dentro la testa. La lingua parlò, reggendo il filo conduttore del discorso.

«Abbiamo cominciato la nostra frequentazione qualche settimana dopo. Siamo usciti per una birra. E le solite cose. Non abbiamo mai ufficializzato la nostra relazione, perché non ne sentivamo il bisogno. Stavamo bene insieme, ci tenevamo compagnia. Io non ho mai avuto una famiglia, i miei sono divorziati da tempo, ma con Gwen tutto è cambiato. Abbiamo deciso di vivere insieme, in estate. Ad agosto mi sono trasferito a casa sua, e ho scoperto tutte le sue peculiarità. Sapevo di quanto lei fosse emotiva, ma non pensavo a...»

Russell perse del tempo per scegliere le giuste parole. Non era sua intenzione sembrare indelicato nei confronti di argomenti intimi.

«Prendeva molte benzodiazepine, stabilizzatori di umore, SSRI e persino triciclici. Era una quasi dipendenza in certi periodi, ma non mi importava. Io la amavo e non potevo lasciarla sola. L'ho aiutata ogni singolo giorno, fino a quando non sono comparsi i primi miglioramenti.»

Il ragazzo non riuscì a continuare, tanta era la responsabilità di quel discorso pronunciato con garbo.

«Sta andando bene, Mr. Newman. Continui» lo incentivò Lestrade, sempre più interessato al racconto di quel ragazzo.

«Era gennaio e le cose andavano bene, più del dovuto. Non so perché l'ho fatto, ma credo fosse quello desideravo. Ero entrato in possesso dell'anello di fidanzamento di mia nonna. Non so cosa mi è passato per la testa, quando l'ho regalato a Gwen come pegno. Non riesco a capire il significato di quel gesto. Volevo che diventasse mia moglie. Ma è stato solo un errore, perché Gwen, sì... ha accettato la mia proposta, ma solo per un giorno. Il pomeriggio dopo è cambiato tutto.»

Le spiegazioni continuarono.

«Le avevo lasciato dei fiori sul tavolino dell'ingresso, come regalo. Gwen non ha apprezzato il pensiero. Ha distrutto tutto il vaso scaraventandolo per terra. Io, allora, mi sono allarmato e mi sono precipitato da lei. Era completamente fuori di sé, quel giorno. "Mi lascerai sola, come hanno fatto gli altri". Lo ripeteva in continuazione. Penso abbia ingerito degli psicoanalettici, quel giorno. Noi abbiamo litigato, ma...»

Russell cedette all'ennesima pausa.

«Ma...» fece eco Lestrade, concentrato.

«Lei se n'è andata.» 

L'ispettore controllò il registratore ancora acceso. La spia rossa, luminosa, inghiottì testimonianze e parole di quel uggioso pomeriggio londinese.

«E così tutto ha avuto inizio.»

Il ragazzo fece una pausa.

«Non ho chiamato la polizia. Speravo si calmasse e poi tornasse da me. Ho cominciato le ricerche solo dopo. Non ho ottenuto molte informazioni, all'inizio. È stato Thomas Hill, un funzionario di Sheffield, a comunicarmi dove si trovava. Ho scoperto che era stata ricoverata per un episodio psichico e che Scotland Yard aveva aperto un inchiesta riguardante una presunta aggressione. Io sono partito per Londra, e–»

«Può bastare così!» esclamò Lestrade.

Anne Rowley continuò a scribacchiare sul taccuino, premendo le penna sulla carta con forza e tracciando le sue anamnesi. Poco concentrata, purtroppo, era la figura bianca e minuta, rannicchiata presso un muro spoglio quanto quello di una cella. Gwen da ore non era capace di sentire più nulla; aveva confinato ogni senso, isolandolo. Debilitata, cercò di estrarre dalla propria mente un ricordo, l'altra sé. Purtroppo, riuscì a incontrare solo una minacciosa sensazione di smarrimento.

Il dolore, come una macchia, contaminò tutto il suo cuore e lei non poté far molto quando anche il panico la rese un suo ostaggio. Solo qualche secondo e i suoi occhi, dopo la ripetizione di quel racconto maledetto, si spensero. Le sue orecchie, cominciarono a sentire un sibilo sempre più acuto e straziante. Il corpo cadde e l'impatto contro il suolo aprì una ferita sulla fronte bianca.

«Gwen» gridò Russell, percepito il tonfo.

«Cristo!»

Lestrade, del tutto assorbito dalle parole del suo prezioso testimone, agì a scoppio ritardato. Scollò il sedere dalla sedia e raggiunse il corpo esanime della donna. Con la mano, picchiettò sulla sua guancia, sperando in un accenno del capo.

«Greg, con calma» comandò la Rowley, sicura.

Gwen ricominciò a sentire un formicolio alla testa, sempre più dolorante. Fissò le luci del soffitto, che la inghiottirono estraniandola dalla realtà circostante. Mai come in quel momento, sentì le speranze evaporare, il cuore esangue e la mente agonizzante. Funi fantasma, galleggiando nell'aria, la cingevano come un preda per renderla un'ombra di una persona intrappolata in una storia non sua.

I sensi si raffinarono gradualmente, lasciando a Gwen la possibilità di squadrare l'uomo che, come un segno ostile, si era infiltrato nella sua esistenza, mangiandole tutto quello che di bello era riuscita a ottenere in pochi mesi. Il destino si era fatto un lupo famelico, pronto a nutrirsi con i suoi desideri.

«Tu menti» gracchiò la bocca, esausta.

Russell sulla faccia contrasse una smorfia.

2.

«Era molto simile a sua sorella, soprattutto da piccola. L'unica cosa che davvero la distingueva da Scarlett era una voglia. Scarlett aveva una voglia dietro la schiena, sul marrone e con una forma molto strana. Gwen, invece, no. Certo, c'è anche la questione degli occhi...»

Le bocca di Russell, seppur trasformata dalla tecnologia, filò le parole tessendo con cura la storia personale. Gwen, desiderò contrastarlo e, perciò, irruppe con un tono basso.

«Come fai a saperlo? Nessuno sa niente di quella voglia?»

«Gwen, sei stata tu a dirmelo. Non lo ricordi?»

Il registratore assolse al proprio compito e riportò, con una precisione disarmante, tutte conversazioni che si erano consumate durante l'interrogatorio. Russell aveva plasmato un racconto sconosciuto ai molti. Tuttavia quella storia, per quanto intricata, era sensata e condannava Gwen su tutti i fronti, demonizzandola come un essere che tutto era tranne che sincero. Dopotutto quel trambusto, non era mai esistita alcuna aggressione, ma solo un malinteso causato da uno scorretto uso di potenti psicofarmaci.

«È stato molto preciso» confermò Lestrade, premendo sul pulsante dello stop. Dopo si sistemò la giacca, ancora non del tutto stropicciata dalle faticose ore all'interno della struttura.

Sherlock Holmes rimase inerme, con la testa ricolma di interrogativi; la tristezza scatenata dall'amara scoperta, lo aveva portato a non riuscire a riflettere e, dal momento che riflettere era la migliore opzione, non seppe più come sentirsi lo stesso di prima.

Il blocco della cognizione fu difficile da gestire, soprattutto dopo certe confessioni, e l'uomo cercò di ricordare la Gwen di pochi mesi fa, quella sanguinante, in cerca di aiuto e con addosso le ferita di una fuga. Lui l'aveva analizzata così bene, ma la psichiatra, forse, era riuscita a fare molto di meglio.

«Non ho mai incontrato una ragazza con una situazione psichica così complessa. Qualcuno dovrebbe analizzarla al più presto, ma facendo attenzione alla terribile presenza di comorbilità: c'è un certo legame tra il forte stato emotivo, il continuo uso di psicofarmaci e l'evento dissociativo. Quella ragazza è un bel nodo da sbrogliare. Non ricorda niente ancora. Il suo cervello sembra aver cancellato e riscritto tutti i ricordi dei mesi prima della dissociazione. Mi ha confermato di non aver mai fatto abuso di farmaci, né di aver mai conosciuto quel ragazzo.»

Lestrade si grattò la testa, in segno di confusione.

«È tutto molto insolito.»

Anna Rowley sfogliò il taccuino, in cerca di dettagli e altro.

«Lo è, ma non troppo. Secondo Mr. Newman, la ragazza prendeva degli psicoanalettici, neurostimolanti molto potenti. Di solito li usiamo con chi soffre di una depressione maggiore, ma in piccole quantità, perché causano una forte dipendenza. Comunque, quella roba aumenta lo stato di vigilanza. Forse è stato il farmaco a destabilizzarla e a causare la dissociazione.»

Lestrade sprofondò nel proprio mondo interiore, in cerca di uno schema che potesse integrare tutto ciò che aveva raccolto con la stessa cura di una ape in cerca del polline. Purtroppo, niente riuscì a dargli una spiegazione che potesse salvare la ragazza.

«Greg?» lo chiamò la psichiatra.

L'ispettore riattaccò la mentre alla realtà.

«Oh, sto cercando di fare mente locale. Miss Blomst usufruiva di vasta gamma di sostanze. Spaziava dagli ansiolitici, fino agli antidepressivi. Secondo Mr. Newman, li assumeva come se si trattasse mentine e senza alcuna prescrizione medica. Era una psicologa, ma sapeva cosa assumere.»

«Sì, ho sentito» confermò Anne, prima di voltare i tacchi verso l'uscita dell'ufficio. «Ah, Greg, c'è un'altra cosa. Abbiamo contattato una certa dottoressa Jessica Ferguson, sotto consiglio di Mr. Newman. La donna ha confermato tutto: Miss Blomst e Mr. Newman si sono conosciuti il tredici giugno dell'anno scorso.»

«Quindi il ragazzo non mente» disse l'ispettore, incuriosito.

«E non lo fa nemmeno la ragazza. È davvero convinta delle sue spiegazioni e temo che Gwendolyn debba essere visitata d'urgenza. Si ostina a negare la verità, ma è normale, considerando tutto quello che ha vissuto. Spero solo non continui a farlo, o potrebbe mettersi in un bel guaio. Gli psichiatri le staranno addosso come sciacalli, etichettandola come delirante, e la cosa non mi sorprenderebbe, a dire il vero. Ha una mente davvero turbata e ha bisogno di cure mediche al più presto. Ha avuto una vita molto difficile, ricca di traumi. Il suo cervello non ha più retto e adesso sta cercando di proteggersi con finti ricordi e realtà mai esistite. Non voglio esprimere giudizi affrettati, ma è necessario che la ragazza venga subito rimandata a casa e aiutata.»

Lestrade annuì.

«Chiuderò l'inchiesta. La versione del ragazzo è reale. Inoltre non voglio trattenere quella donna a Londra. Se ha bisogno di cure, è giusto che torni a casa. La sua amnesia è più grave di quella diagnosticata precedentemente e non voglio che le cose peggiorino. Miss Blomst verrà rilasciata oggi stesso, Anne. Grazie mille per il tuo servizio. Ci è stato davvero utile.»

La Rowley eseguì un semplice cenno, in segno di riconoscimento per la gratitudine, e dopo mosse le gambe snelle su altri spazi, lasciando la stanza alla presenza di ben tre persone costrette a respirare il silenzio. Sherlock e John rimasero immobili e lasciarono la lingua a riposo per un tempo a dir poco infinito. Quel giorno, le brutte spiegazioni presero d'assalto il loro animo, condannandoli a una fastidiosa infermità.

Lestrade irrigidì tutto il busto, ancora ritto dinnanzi alla scrivania. Solo dopo una manciata di secondi riuscì a incontrare con gli occhi degli uomini accanto. Sherlock, dopo una anni di successi, si era messo a fare i conti con il fallimento. Era talmente devastato, da non sembrar più nemmeno capace di respirare. John, invece, seduto su una sedia, continuò a guardare in basso come un disgraziato intento a pregare affinché il suolo si dischiudesse, inghiottendolo con tutte le afflizioni.

«Io ho delle scartoffie da sistemare» comunicò Lestrade che, raggiungendo la porta, sfiorò l'ampio corridoio interno. I documenti lo attendevano e una giovane donna doveva assolutamente essere rimandata a casa. «Mi dispiace molto per quello che è successo.»

Greg lasciò l'angusto spazio e con esso anche il duo di amici, ridotti a essere due ombre trafitte dalla argentea luce di una finestra poco distante. Il medico, in particolare, non riuscì più a frenare né pensieri, né parole. Si alzò con fare indolente e bersagliò il collega, sfruttando a pieno le iridi, quel giorno tintesi di un cupo color fumo.

«Tu sapevi» farfugliò.

Sherlock sentì un fremito transitare per tutta la spina dorsale, costringendolo a un leggero sussulto, ma per poco riuscì a controllare la postura, dura e massiccia. John, preso dalla disperazione, aveva cominciato a ciarlare insensatamente.

«John, io–»

«Tu dovevi saperlo, per forza» ribatté l'ex soldato, aggressico. «Sei Sherlock Holmes, la macchina. Non hai mai sbagliato nel corso della tua dannatissima carriera. Tu sapevi tutto, ma hai preferito fare finta di niente. Forse hai solo preso tempo. Volevi esaminarla, cercare la tua soluzione e tenermi allo scuro di tutto, come hai sempre fatto. Tu...»

«John» lo chiamò ancora il bruno, ferito.

Sentì sulle spalle il peso degli errori compiuti e sul petto quello dei sentimenti. Lui stesso si era legato molto a quella donna e tale legame, così prezioso, lo aveva stordito. Purtroppo, ogni sentimento era sfumato, lasciandogli nella mente solo pensieri sordi e gli strascichi dell'ultima disgrazia. La principale colpa era stata aver dedotto un'aggressione che mai era esistita.

«Mi sono sempre chiesto come potesse essere così intrepida dopo una dissociazione. Ha partecipato alle nostre indagini e ha sempre superato le situazioni difficili. Ora mi rendo conto che non è mai esistita un'aggressione. Si è imbottita di farmaci e ha riscritto i suoi ricordi. Come posso biasimarla? È successo anche me» chiarì Sherlock, algido. «È stato tutto un malinteso.»

Fingere compostezza, con il battito spezzato da una donna e la compagnia di un amico sofferente, non era un atto da cuor leggero. Il medico, intanto, comprendendo di aver blaterato per la disperazione, rese il proprio sguardo più mansueto.

«Come può essere stato tutto un malinteso?» chiese, atterrito.

«Non sono stato un buon osservatore, John.»

Il medico, assorbite quelle parole, si fece addolcire dal bisogno di perdono e non riuscì più a tormentare il collega con la rabbia. Si limitò, piuttosto, a irrigidire la mascella e a serrare un pugno.

«Lei aveva cominciato a bere» continuò Sherlock, nonostante il brutto groppo in gola. «Ho pensato solo non volesse ricordare. Ma ora capisco. L'amnesia ha favorito un allontanamento dalla dipendenza di farmaci, ma solo per un periodo ridotto. L'alcol era solo un sostitutivo inconscio e–».

«Avevi dedotto una semplice insonnia» obiettò John, sentendo il rancore infiammargli il torace. C'era qualcosa di fugace in quella storia, qualcosa di marcio e corrotto sino al midollo.

«Lo so. C'erano delle benzodiazepine nella borsa, ma era solo una borsa. Esistono molti altri luoghi in cui tenere farmaci: la casa, il luogo di lavoro. Si è ferita cadendo, perché era infastidita da una lite. L'aggressione esisteva solo nella sua testa» sottolineò Sherlock, ancora incapace di metabolizzare ogni cosa. «E io non sono stato in grado di capirlo. È stata tutta colpa mia. Non sua, non di Gwen.»

Per John, sentire quel nome fu un po' come incorre in una doccia ghiacciata. Represse il desiderio di gridare per la frustrazione.

«È sempre colpa di qualcuno» confessò, arresosi.

L'eco dei passi si fece più consistente con il passare dei secondi, accalappiando la poca attenzione del bruno e del suo collega. Dietro alla finestrella dell'ufficio di Lestrade, camminarono due figure. Russell, a passo celere, avanzò lungo il corridoio, tenendo per il braccio una Gwen smorta e lacrimante. 

Nel petto dell'ex soldato mancò un battito, proprio nel momento in cui incrociò lo sguardo della donna che, sconsolata, si sentì come un computer affetto da un virus, un inutile aggeggio bisognoso di un ripristino. L'essere così fragile, così in balia degli eventi, l'avevano resa un fuscello pronto ad essere spezzato dalla tempesta. John, di certo, non l'avrebbe più nemmeno sfiorata, dopo lo sfaldamento di quel rapporto sentimentale.

Il tempo, nel mentre, cominciò a rallentare, assumendo lo stesso ritmo di una scena drammatica e, nonostante le morbide ciocche sugli occhi, la ragazza notò bene il suo medico corrotto dallo sconforto. Dischiuse la bocca, ma non riuscì però a nemmeno a gridare «John, mi dispiace», che Russell la strattonò, trascinandola per altre direzioni. Camminò come un automa, ma in realtà desiderò solo poter fermare il quei momenti, rannicchiarsi al di sotto della pioggia e dare sfogo al pianto, fino a quando il dolore non si sarebbe ridotto. Purtroppo, non riuscì nemmeno a respirare bene, tanto era lesto il passo di quello sconosciuto intento a riportarla a casa.

  
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