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Autore: AmyJane    06/03/2020    1 recensioni
Questa storia parla del bianco, del nero e di tutto quello che sta al centro. Conviviamo con mille sfumature e oramai sappiamo che non esiste la purezza. Sappiamo che il buio non è eterno e che tutto incontra i cambiamenti. Nero e bianco coesistono. Si contrastano ma senza mai negarsi, accettando la consapevolezza di non poter esistere senza il proprio opposto. Si completano e quasi finiscono con l'essere solo una delle tante sfaccettature dell'altro. Un po' come i diamanti che, nella loro infrangibile purezza, si rivelano essere solo una versione del carbone. Il nero è l'assenza di colore, il bianco l'unione di ognuno. Eppure niente e tutto alla fine sono molto simili, quasi la medesima cosa. Lo Yin contiene in sé lo Yang e lo Yang fa altrettanto.Sherlock è nero quanto una minacciata ombra ma ha un cuore puro quanto il diamante. Ha scelto di mostrarlo piano piano e di lasciarlo luccicare per contrastare la propria oscurità. Gwendolyn, al contrario, ha scelto la luce per accecare gli altri e mascherare un cuore color carbone. Gli opposti si attraggono per poi lottare senza mai né morire né trionfare. Si cede solo a un fragile compromesso.
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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E.V.O.L.

1.

M1, Inghilterra

La Bentley corse lungo le strade accarezzando, con una buona guida lineare, immense colline dissetate da rugiada fresca. L'Inghilterra, trafitta da timidi raggi dorati, si espandeva lungo il cammino in prati incontaminati e contraddistinti da dispettose brezze pungenti e un alacre odore di terra bagnata.

Gwen si ritrovò come prigioniera della sua stessa auto, in un limbo di dubbi e paure. Il giorno precedente aveva smantellato tutte le certezze, lasciandola in balia del destino che, come un mare istigato dalla tempesta, la minacciava con onde sempre più mastodontiche. Gli strascichi di un passato ignoto si erano mostrati come clamorosamente lunghi e misteriosi. Soprattutto, gli ultimi due mesi si erano spacciati una bugia che lei stessa si era raccontata, solo una felice isola di sicurezza in cui rifugiarsi in attesa di un futuro migliore. John e Sherlock erano scomparsi, lasciandola sola.

La ragazza non lacrimò, tanto consumati erano i suoi occhi. In quel momento, non riuscì nemmeno a disegnare una linea immaginaria che potesse porre un confine tra il presente e il passato, dacché i ricordi si assomigliavano tutti e aleggiavano nella mente senza un ordine preciso. Lei si era affidata al sesto senso, ma nemmeno questo era riuscito a chiarire chi fosse Russell Newman, l'unico appiglio a cui appoggiarsi.

«È uno splendido panorama!» esclamò l'uomo.

La bionda lo fissò per qualche secondo, cercando di riconoscere qualcosa in quei tratti così due e marcati. Niente, tuttavia, sembrò stuzzicare la sua infeconda memoria.

«Troppo verde» fu l'apatica risposta.

Russell sorrise. «Chissà perché?»

«Perché piove sempre» rispose l'altra, sussurrando.

Non aveva alcuna voglia di cedere alle conversazioni dopo aver passato l'inferno in terra a causa di una mente traditrice. Mesi le erano stati tolti, sostituiti con sciocche menzogne.

«Senti, mi dispiace molto» irruppe il ragazzo, con fare pacato. «Per tutto ciò che è accaduto. Non volevi strattonarti prima, non avrei dovuto. Solo che per me è stato difficile e tu non puoi capire cosa ho passato durante le ultime settimane. So che sei confusa e non hai nemmeno idea di chi sia, ma non preoccuparti, sono qui solo per proteggerti e farti stare bene. Forse, sarà difficile all'inizio, ma noi ne abbiamo già passate tante e ce la faremo. Non so come, ma so quello che tu senti per me e mi basta per andare accettare tutto, Gwendolyn».

Il silenzio portò la giovane a una pungente dichiarazione.

«Se non ricordo nemmeno il tuo nome.»

Russell fece scattare la mascella, ma continuò la guida egregiamente, senza mai cedere nemmeno all'errore più insignificante.

«Ti rimarrà impresso, prima o poi.»

2.

Baker Street, Londra.

Il cielo notturno, oscuro e occulto, con la sua infinita e inconsistente forma, imprigionava una Londra ancora palpitante. Era bastata solo una piccola dose, l'ennesima peccaminosa zolletta di zucchero, e le chiare luci della metropoli si erano congiunte agli eterni astri celesti, amalgamandosi come un miscela fatta di tenebre e fulgidi picchiettature, ardenti e condannate a lenti movimenti.

Il mondo si capovolse e fu il cielo a occupare tutto il pavimento. Sherlock si sentì come elevato a un eterea dimensione, dove l'infinito si distendeva, attraverso riflessi indefiniti. Ritiratosi in se stesso, non riuscì a scorgere niente altro che un cielo in cui proteggersi. La sua mente del vagò per intere ore, liberandosi del passato. Niente, almeno per poco, era di peso e ogni ricordo si sgretolava, mettendo fine alla battaglia mentale intrapresa. Nel momento in cui l'eroina marciò nel flusso sanguigno, Sherlock riuscì a recuperare un paio di occhi con cui osservare una via diversa, lontana dalle paure e dalle insicurezze.

La droga si era impossessata di una mente, gingillandosi con i sentimenti e conducendo una battaglia infinita. Del detective non rimase molto, se non un espressione appagata e un ago inserito all'interno della vena sul braccio, bianco, lungo e ben disteso sul bracciolo scuro. [1]

Il mondo, per John Watson, il quale non era a conoscenza del dolce abbraccio delle sostanza sedanti, rimase crudele e asfissiante. Il letto matrimoniale rimase un groviglio di lenzuola fredde. Il lucernario, esiguo e lontano, sembrò solo un pezzo di firmamento incastrato nel soffitto. Persino il buio fece la sua parte, annullando lo scorrere delle lancette e congelando una notte non portatrice di consiglio.

La testa del medico, allora, si riempì di risentimento e tanto dubbio. Non riuscì a pensare al come fossero bastati solo pochi mesi per rimettere in discussione i suoi progetti e, nemmeno, al come nell'arco di poche ore quella fiducia, così naturale e semplice, si fosse sfaldata come un castello di sabbia accanto alle onde. Era stato solo uno sciocco a pensare di poter intrattenere quel genere di rapporto con una cliente sconosciuta senza prendersi le conseguenza e, dopo, sperare in qualcosa di buono. Forse era troppo orgoglioso per riconoscere l'umiliazione. Con la sua età, si era solo coperto di ridicolo nel lasciare un'altra donna prenderlo in giro e scappare come l'acqua di un ruscello.

Con Mary le cose si erano aggravate a causa della gravidanza, con Gwen, invece, tutto era sembrato un gioco, un adorabile gioco sostenuto da due sciocchi presi di mira dalla chimica. John, sentì ancora quel tono dentro della testa, così come percepì la tenera pressione di un corpo sul lato opposto del materasso. Forse, se avesse cercato meglio, avrebbe persino trovato un filo argenteo impigliato da qualche parte.

Il suo cuore, purtroppo, si squarciò in due parti: una di esse reclamò ancora la presenza di qualcuno pronto a farlo stare bene, dissipando gli anni bui della sua esistenza; l'altra invece continuò a bruciare per via della vergogna. Il dolore che si era aggrappato al suo corpo non gli permise nemmeno di parlare, ma solo di reprimere tutto la bile racchiusa nell'esofago. Non era colpa della rabbia, ma di un profondo senso di impotenza nei confronti di un sogno che si era trasformato di un incubo di pessimo gusto.

John soffocò la faccia contro il cuscino e ne subodorò il sentore. Le sue ali di cera, però, si erano sciolte per il calore del sole e, in un istante, non era rimasto altro se non la drastica caduta e l'impatto con la spietata realtà. Chicchi di sale sembrarono essere caduti sulle sue vecchie ferite, facendole ardere come fuoco.

Gli occhi neri di Gwen si spalancarono e accolsero un qualche strana forma di stupore nell'attimo in cui codificarono una grande struttura a due piani, mattonata con pietre rosse e costernata da una foresta scura e brulicante di fauna. La casa dei Blomst non era differente dalle tante altre nascoste dentro la fitta flora, ma per una essere come lei era uno scoglio in mezzo all'oceano. Il suo cuore perse un battito nel momento in cui i cancelli si spalancarono, accogliendo la Bentley. 

La donna scese dall'auto e, quando il piede poggiò delicatamente sul terreno solido, sentì come un brivido cingerle la gamba e salire su, fino al collo. I cancelli guarirono, ricongiungendosi e lei non poté fare a meno di girarsi e pensare a ciò si era lasciata alle spalle: Sherlock e John non erano nient'altro che un ponte bruciato.

In breve, si ritrovò nell'atrio, immacolato come non lo era mai stato e identico a quello ritratto nelle foto sul cellulare esaminato da Sherlock, a Baker Street. Molto probabilmente era stato proprio Russell ad aver ripulito il tutto, dopo la fatidica lite del racconto espresso nelle sale di Scotland Yard.

«È esattamente come lo ricordavo» sussurrò la giovane, commossa.

Russell posò a terra le buste contenenti i residui della fuga della donna e, ritto, cominciò a chiedere teneramente qualcosa.

«Perché non dovrebbe esserlo?»

La ragazza passeggiò, toccando ogni dettaglio della casa.

«C'è odore di candeggina.»

«È un male?» chiese lui. «La casa era in pessime condizioni. È servito un intero giorno di pulizie per ripulire tutto quanto.»

Gwen percorse il corridoio parallelo alla cucina e alla sala da pranzo, per poi viaggiare tra i ricordi sgorganti dalle decine di foto sulla carta da parati. Il doloroso passato la accompagnò fino alla scalinata che portava alle camere da letto. Tra queste, la prima a comparire fu quella del dottor Blomst, il quale era solito passare il tempo libero lì, a meditare accanto alla finestra; la seconda era proprio quella di Scarlett, che aveva abbandonato il nido prima dei suoi ultimi anni; l'ultima aveva contenuto la crescita di seconda sorella, la più piccola della famiglia.

La giovane continuò il proprio percorso, fino a entrare nel luogo più intimo. Spalancata la porta, notò il come le cose fossero rimaste tali a quali al passato: le pareti lilla intorno al letto, la cianfrusaglie e una cabina armadio. Entrò e si sentì come risucchiata in un sogno contenente una dimora ancora piena di gente e di parole, e non un mausoleo in cui le memorie si erano fossilizzate, generando un'atmosfera malinconica.

Il tempo, in effetti, sembrò essersi impigliato in un giorno già trascorso e lei, che non poté fare a meno di trattenere il risentimento, mosse ancora qualche passo, fino a giungere presso uno specchio sulla parete. Lì, scorse il proprio riflesso e notò tanti piccoli dettagli che quei mesi le avevano regalato: magrezza, pallore, una ferita alla testa e un sorriso al contrario.

Il riflesso imitò ogni suo gesto, costringendola a meglio scorgere un segno lasciato da l'altra Gwen, la stessa folle che, in preda alle dissociazioni, aveva cancellato un passato legato al consumo da farmaci.

La donna si massaggiò la testa, ripensando al manuale di psichiatria, il quale riportava diversi casi in cui alcuni individui si erano ritrovati a convivere con più personalità, senza nemmeno esserne consapevoli. Allora, tremò al pensiero di aver vissuto un'esperienza così considerevole e, terrorizzata da strane idee, mise in cerca di un indizio dei mesi precedenti. La sua mente voleva proteggerla da un brusco e misterioso passato, ma non poteva davvero essere arrivata a tanto.

«Sei solo una stupida.»

La donna sussurrò un insulta a se stessa ma, del resto, non le erano state concesse molte possibilità a Scotland Yard: o continuare a negare il racconto di Russell ed essere presa come donna delirante o ammettere il proprio episodio e tornare a casa per delle cure più leggere e delle sedute da frequentare. Il tempo era stato crudele e lei si era accontenta di rimanere inerme. Eppure, nonostante tutto il mondo le remasse contro, non era disposta ad accettare quella folle testimonianza, in nessun attimo d'incertezza. Quello che era sconosciuto penetrato nella sua casa, niente altro sarebbe stato.

«Gwendolyn.» Russell riaffiorò nello specchio lucido.

La giovane si spaventò, ma solo per il riflesso.

«Scusa. Non ti avevo sentito.»

Lui accennò a un sorriso carico di tenerezza e, come un tenero compagno, le cinse le spalle delicatamente, girandola.

«Oh, sta' tranquilla, sono qui solo per controllare che stessi bene. È stata una lunga giornata e capisco quanto questa situazione possa essere difficile. Ma ora sei a casa.»

Gwen si rese conto di essere con uomo mai incontrato.

«Sto come devo stare, ma grazie» rispose, allontanandosi con discrezione. «Ho tutto quello che mi serve e non voglio costringerti a restare ancora qui. Ti ho tolto davvero troppo tempo. Scusami, scusami tanto, sul serio. Starei meglio, se tornassi casa a riposare. Non meriti altri problemi.»

«Tu non hai di che preoccuparti. E rimango con te.»

La donna mal recepì quella dichiarazione. Russell si comportava come se tutto tra loro fosse stato risolto nell'attimo in cui si era consumato il loro primo incontro. Ciononostante, lui era ancora solo un grande e misteriosa incognita con in bocca solo racconti sconosciuti.

«Cosa?»

«Sei qui e non commetterò lo stesso errore» concluse il ragazzo, approfittando dello stupore della compagna; si avvicinò in cerca di un abbraccio caloroso. La bionda, dal canto suo, sentì solo il disagio crescere e fagocitarla.

«Ti prego. Non ricordo nulla di te. È tutto strano, molto strano. T-Tu n-non» cianciò lei, intrappolata tra due braccia estranee. «Torna a casa. Ho bisogno di stare da sola.»

«Sta' calma, tutto si sta aggiustando» mormorò Russell, sorridendo. «Tuo padre non è qui a prendersi cura di te, tocca a me farlo. Dopo una crisi del genere, sarebbe da forsennati lasciarti da sola. Domani ha inizio la tua prima seduta e sarò io ad accompagnartici. Ti abituerai a me, forse ricorderai anche.»

Gwen, scappata da quella stretta, si allontanò.

«Sono stanca, ho bisogno di riposare.»

La camera ritornò a ospitare la sua sola presenza e, qualche minuto dopo l'incursione, lei sentì l'ansia trasformarsi in panico a causa di quella presenza indesiderata nella suo dolce e personale rifugio. Il senso di soffocamento crebbe assieme al pensiero di essere stata intrappolata e un gorgoglio nacque nel suo stomaco. Fu solo quando il senso di nausea si fece insopprimibile, che divenne obbligatorio barricarsi in bagno per dare sfogo a ogni malessere.

«È colpa dello stress» dichiarò la ragazza a se stessa, rigettato il cibo. L'attimo dopo, si ritrovò raggomitolata a terra, con le lacrime sulle guance e, in testa, il peso di tutte le domande irrisolte.

3.

Richmond Park, Londra

Sotto al cielo terso, Richmond Park sbocciava per mezzo di tutte le sue pregiate piante che, nel mese di marzo, nonostante il meteo precario, si erano schiuse in timidi fiori incoronati da rigogliose foglie sane. Nella parte più nascosta del territorio, in un prato soffice, era stata scavata una ampia fossa, contente il freddo corpo di donna sulla quarantina, coperta da abiti neri e circondata da colorati decori floreali.

«Bethany Peterson, quarantatré anni. Vedova, scomparsa due giorni fa, secondo la testimonianza delle figlie. Il pomeriggio era andata in palestra, verso le quattordici, ma non è più tornata casa.»

Lestrade, seguito come sempre dalla sua solita équipe, controllò il corpo, cereo e immobile. Non colse alcun segno di violenza; si rese conto che la sciagurata era stata appositamente posta nella buca.

«È stata uccisa e preparata per il funerale. Non indossa una tuta, ma un abito nero. L'assassino deve averla cambiata, dopo aver fatto questa una fossa. Infine, ha coperto il corpo con dei fiori. È tutto molto chiaro, simbolico. Ha cercato di lasciare un messaggio. Dobbiamo solo capirne il significato.»

Sherlock, nel suo completo, s'inginocchiò per meglio guidare l'occhio sulle tante particolarità impresse sulla morta. Dopodiché si alzò con una certa fatica a causa della debolezza e della salute consumata dalle tante dosi di eroina. Da giorni era consumato da ritmi poco salubri: continui casi, sonno infrequente, pasti modesti e consumo di stupefacenti.

«Sherlock, apprezzo molto la tua collaborazione, ma penso di potercela fare anche da solo. Torna a casa e cerca di riposare» consigliò un Greg allarmato da quella faccia scarnita, dagli zigomi più affilati e le guance inesistenti.

«Oh, no. Sento di essere vicino alla soluzione» dichiarò l'altro, arzillo. «John, il libro che ti ho chiesto di portare. Sfoglialo e quando elencherò un fiore, leggi il significato riportato.»

«Solo se dopo torniamo a casa.»

John, truce, eseguì i comandi ma con fare indolente. Cercò di dare un senso al proprio male e anche a quello del collega con i casi, ma i risultati non erano mai quelli sperati. Il dolore mai diminuiva e Sherlock era sul punto di crollare e incorrere in lunghe settimane sotto il tetto del Bart's.

«Garofano, rosso?» chiese, nonostante la stanchezza.

«Rabbia» rispose John, sfiorando le pagine.

«L'anemone?»

«Significa abbandono.»

«Rosmarino?»

«Ricordo.»

Il detective ebbe come un tentennamento nel codificare l'ultimo fiore, una candida e rigogliosa rosa posta al centro del petto morto e pallido quando la cera di una candela. Deglutì e, dopo un solo attimo, soffiò la sua domanda. «La rosa bianca?»

John sentì la memoria percorrere gli attimi assaporati nelle tante settimane precedenti. Un nodo gli immobilizzò la gola, reticente nel dichiarare l'ultimo significato, quello più crudele.

«Innocenza.»

Tutte le deduzioni furono presto riunite in un unico schema compatto e senza falle. Lestrade fu molto contento dell'ottimo lavoro svolto dal bruno, ma non riuscì a non farsi scappare una certa quantità d'apprensione. Quindi, raggiunto il medico, si decise a dire: 

«John, tienilo d'occhio.»

L'uomo, con lo sguardo afflitto, rispose.

«Lo sto già facendo.»

4.

John era stato sempre costretto a battagliare contro le problematiche di Sherlock, ma era giunto in un punto troppo caustico. Il senso dell'impotenza non gli permise di stare dietro a un collega sempre più propenso ai peggioramenti. La situazione presto sarebbe finita e il medico era ceduto alla carta più estrema, chiamare Mycroft Holmes. L'uomo di ghiaccio, per quanto incatenato al proprio ruolo algido e insensibile, non riuscì a non ostentare un reale turbamento nei confronti del fratello minore, risucchiato in un male senza fine. Perciò, annullato ogni impegno, giunse al 221 B, con il fine di chiedere un'unica cosa.

«Il foglio, Sherlock.»

Come d'abitudine il bruno, seppur remissivo, concedette al proprio familiare un pezzo di carta con sopra riportate tutte le dosi consumate nell'arco dell'ultimo periodo. Il rituale, in quegli attimi, aveva ritrovato luogo, buttando sul l'altro Holmes un alone oscuro.

John, rinchiuso nella sua camera, sentì solo dopo le parole trapanare il muro e, compreso tutto, si indirizzò al soggiorno, dove Mrs. Hudson, con le braccia conserte, già ascoltava e di tanto in tanto spezzava il dialogo tra i due fratelli con qualche frase.

«Non dorme, né vuole riposarsi. Sta sveglio tutto il tempo, senza chiedere niente. Sa, non vuole nemmeno assaggiare il mio sformato di carne. E pensare che è la ricetta di sua madre.»

«Oh Mrs. Hudson, ne sono più che consapevole» aggiunse l'uomo di ghiaccio tenendo l'equilibrio sull'ombrello nero, unico compagno di anni consacrati al dovere patriottico e alla solitudine.

John entrò di soppiatto, attirando ogni sguardo.

«Dottor Watson, finalmente» lo salutò Mycroft.

Sherlock, accomodato sulla poltrona nera, lanciò al collega un'espressione non molto cordiale, contorta a causa dal sentimento scaturito dal tradimento. Il medico, abbindolato dai troppi assilli, si era giocato tutto per tutto.

«John. Non avresti dovuto.»

Il medico si sentì un Giuda.

«Mi hai costretto a farlo, Sherlock.»

«Doveva, eccome» tagliò corto l'altro Holmes, rivolgendosi all'altro membro della sua famiglia. «Ti stai consumando lentamente. C'è qualcosa che ti tormenta e cresce dentro la tua testa, senza darti un attimo di respiro. Ti tengo d'occhio e so a cosa stai pensando. Continui a spremere le tue meningi sul caso di Sheffield e, se ti conosco quanto credo, le tue ricerche non devono essere andate a buon fine. Spiacevoli scoperte, fratellino?»

Il detective orientò lo sguardo contro un punto neutro. John, intanto, assimilò nella mente il significato della parole di Mycroft e, completamente impreparato a tale dichiarazione, strabuzzò gli occhi.

«Tu stai ancora lavorando al caso, non è vero?»

L'uomo di ghiaccio emise un risolino beffardo.

«O forse lo ha già risolto, dottor Watson.»

L'ex soldato, completamente impotente dinnanzi quelle scoperte, si limitò a poggiare la fronte sul palmo dispiegato, in segno di sconforto. Negli ultimi giorni il dolore, seppur ancora forte, si era cicatrizzato, lasciando solo un cuore sterile. Tutto, però, era in procinto di essere ancora analizzato e interpretato con altre teorie.

«È una storia finita, per entrambi.»

«Non c'è mai stata una fine» confermò il bruno, confutando l'amico. «La versione di Scotland Yard è coerente, ma solo se presa nella sua globalità. Io mi sono solo concentrato sui dettagli, quelli irrilevanti. È da lì che ho tracciato tutto il percorso, fino a giungere al cuore della vicenda. È stata una semplice foto a mettermi il dubbio. Ho scavato fino a dove ho potuto, ma ho ottenuto solo delle ipotesi poco sensate. Nient'altro.»

«Di cosa stai parlando?» chiese John, stanco.

«Lestrade ha solo fatto un altro buco nella acqua, John.»

«Non ha più importanza adesso.»

«Ce l'ha, a giudicare dall'aspetto di mio fratello. Succede, quando ci si lascia guidare dai sentimenti» chiarì Mycroft, passeggiando per il soggiorno. «Come ho già detto, volpes pilum mutat, non mores. Onestamente non capisco questa sua grande passione per donne così controverse e misteriose, dottor Watson».

«Sherlock, di che cosa stiamo parlando?»

«È complicato, John!» rivelò Sherlock, dissuadendolo.

«E tu SEMPLIFICALO!» sbraitò il medico.

Il bruno arraffò un po' di tempo e lo impiegò solo per scegliere tra alcune alternative: continuare a mentire a John, raccontando il falso; sfruttare il potere delle mezze verità; confessare tutto ciò che aveva scoperto, uccidendo i sentimenti di un amico.

«Come ho già detto, è tutto partito da una foto. La foto di un uomo alto, corporatura possente e ottimo aspetto. Cristoff Blomst era un uomo aitante e anche un ottimo medico, uno dei migliori a giudicare dalle ricchezze di Gwen. Non gli mancava denaro conoscenza, ma è riuscito a farsi uccidere dal diabete. Nessun medico, così apparentemente in forma e preparato, può morire di diabete nel corso di poco tempo. Ho pensato al peggio e, subito dopo, mi sono ricordato di un altro individuo, Scarlett Blomst, morta solo il mese dopo, in un incidente ridicolo. La macchina, pur trovandosi in una delle strade meno trafficate del paese, è finita fuori carreggiata, finendo in un campo di querce. Tutti avranno pensato a un animale, eppure nelle foto degli articoli online che riportano il fatto, non ci sono nemmeno i segni della sgommata. Nessuna traccia di sangue, solo l'auto incenerita e un corpo carbonizzato. La scena del crimine ha sempre qualcosa da dire.»

«È ora che tu la smetta!» John non riuscì nemmeno a pensare.

«Durante il soggiorno a Copenaghen, Gwen mi ha parlato del suo passato, della sua nascita. La madre è morta pochi giorni dopo il parto, per delle complicanze e lì, tutto ha avuto inizio. L'emotività di Gwen è sempre stata un peso per la famiglia. Scarlett ha badato a lei, ma l'ha bistratta allo stesso tempo. Il padre la trattava come un persona malata e la sottoponeva a diverse cure psichiatriche, anche quelle più sgradevoli.»

Mycroft ascoltò con attenzione.

«Tutto sembra tornare. Due omicidi perfettamente incastrati a un movente ragionevole, ma non penso che una ragazzina possa riuscire a fare così tanto. È davvero un lavoro troppo complesso.»

«Non ho mai detto che era sola» obiettò Sherlock. «Ho come l'impressione che qualcuno l'abbia aiutata. Qualcuno che conosceva il padre, qualcuno come Russell Newman. Lavoravano insieme e Newman ha delle buone conoscenze mediche. Ha ucciso il Mr. Blomst con somministrazioni di glucosio o insulina, ma non so ancora come il tutto sia stato eseguito. Scarlett è stata una preda più difficile e solo un uomo sarebbe capace di simulare un incidente stradale. Ci vuole una certa tempra e tanta forza fisica per costruire quel genere di teatrino.»

«Ragionevole come riflessione» constatò l'uomo di ghiaccio.

«Si erano uniti nel crimine. Forse, Gwen l'ha corrotto con i soldi, ma qualcosa è andato storto e non ha più accettato i propri crimini. Distrutta dal senso di colpa, ha cominciato a sviluppare una dipendenza dai farmaci. Due anni dopo, rincontra Newman, con il quale riallaccia i rapporti. Fingono di non conoscersi. Tutti credono che il loro primo incontro sia stato una mattina dello scorso giugno. Forse Russell l'ha ricattata e ha usato il loro piccolo segreto per costringerla a una relazione. Lei ha accettato, ma dopo non ce l'ha più fatta. Hanno litigato e gli psicoanalettici hanno dato luogo all'episodio dissociativo. Il cervello non ha più retto e ha cancellato tutta la violenza dal suo passato, sostituendola con un'esperienze diverse.»

La spiegazione continuò.

«L'evento ha creato due Gwendolyn, la prima ha fatto del male alla famiglia e si è fatta divorare dal risentimento, la seconda non ha mai compiuto nessun omicidio, ma ha accettato la morte dei suoi cari, ricavandone una benedizione. "Quella tragedia si rivelò una cura, una cura bizzarra ma efficace". È stata lei a pronunciare questa parole, a Copenaghen.»

Sherlock si fece assorto, parola dopo parola.

«È un quadro molto complesso e pieno di buchi neri» rivelò Mycroft, severo. «Ci sono tanti punti irrisolti nel tuo racconto, ma da quando ho saputo dell'arrivo di quell'uomo a Baker Street, nemmeno io sono riuscito a trovare una spiegazione che fosse davvero esaustiva.»

«Scoprirò la verità.» Sherlock digrignò i denti.

Mycroft lo osservò con piglio serioso.

«Se questo porterà pace alla tua anima, ben venga. Quella donna ti sta logorando e tu vuoi scoprire ogni cosa solo perché non riesci ad accettare l'idea di vederla come carne dietro alle sbarre di un carcere.»

Il silenzio confermò le teorie dell'uomo di ghiaccio, il quale si era fermato accanto a un'altra figura sconsolata dalle tante parole confinate da quelle parole. John, completamente inerme nel sentire una storia così dannatamente plausibile, percepì il proprio sangue raggelare a ogni ricordo che si era consumato nella mente. Non riuscì più a serrare le mani, né tanto meno a digrignare i denti. Tuttavia, una voglia di distruzione lo accalappiò, avvelenandogli tutta la coscienza. Qualche secondo e un pugno colpì la libreria posta accanto al camino. Qualche libro cadde a terra, aprendosi sul tappeto sporco.

«Suvvia dottor Watson, è solo un ipotesi» lo rincuorò Mycroft, con una punta di fiele in bocca e John, a quella dichiarazione, si diede alla fuga, l'unica soluzione accettabile.

«John», lo richiamò Sherlock, disperato.

L'ex soldato raggiunse la porta, quando una mano lo agguantò.

«John caro» sussurrò Mrs. Hudson, con tono melenso. «Non si lasci troppo abbindolare dalle chiacchiere di quei due. Ho conosciuto quella ragazza e sono sicura che si trattasse di una persona sincera.»

John si diede a un sola frase, traboccante d'odio.

«I matti sono sempre sinceri.»

5.

Yorkshire, Inghilterra.

Il tempo cominciò a rallentare il suo corso e, così, a trascorrere quieto e indisturbato, senza destare nessun anima all'interno della casa in mezzo al bosco. Gwen non si accorse del ticchettare delle lancette e, come un essere lobotomizzato, si limitò a scorgere la luna lasciar posto al sole, solleticato dalle tante fronde. Tutto il mondo sembrò divenire di pietra, conferendo alla sua esistenza la percezione di essere rinchiusa in un sogno eterno e senza risveglio. Le terapie si susseguivano, così come il pranzo e la cena. L'asfissiante presenza di Russell, per di più, contornava quel tedioso scenario, degno di un film di Forman. [2]

Gwen si sentì come intrappolata in una prigione mentale, inattaccabile da terapia e farmaci blandi. In realtà, da quando la scatola di Pandora si era dischiusa, ogni cosa aveva uno strano effetto su di lei, la debilitava sottraendole ogni giorno le forze. L'aprire buche dentro la propria psiche, non le giovò, dacché la confusione era aumentata. Inoltre, ancora ignara era l'identità di Russell Newman. 

Quel ragazzo si era dedicato a più approcci con fare molto sottile. In alcuni momenti ostentava troppa premura e in altri cui si divertita a fare il ruolo padrone di casa, il marito perfetto. Gwen non era mai stata costretta ad accettare relazioni intime, eppure era riuscita a cadere in tunnel sempre più scosceso. Le cose si erano fatte intricate, soprattutto nel momento in cui erano comparsi gli strani tic di Russell, non molto contento di stare lontano dalla casa di cui si era fatto proprietario.

La donna rifletté sul come avrebbe dovuto comportarsi con suo aspirante sposo e si fece trapassare la testa da strani pensieri. Russell, per un proprio tornaconto personale, era il primo ad approfittare delle sue debolezze, senza mai concederle un minuto di solitudine, né la possibilità di soffrire in silenzio. Lei si sentì soffocata da quelle attenzioni morbose e cercò di parlarne apertamente, ma senza successo. 

Fu un episodio a trattenerla dal compiere un gesto troppo avventato, un momento passato al Bradfield Village Hall, in cui era solita fare acquisti. Russell, come la solita ombra, l'aveva seguita e, dopo averla osservata scambiare distrattamente qualche parola con un addetto, reagì. Qualsiasi uomo era capace di frantumare quel loro fragile rapporto immaginario e, conclusosi l'attimo, l'afferrò per le spalle, conducendola nel reparto surgelati.

«Perché mi fa questo?» la sgridò, furibondo. «Non ti ho dato abbastanza? Non ti ho dato abbastanza, Gwen?»

In quel momento i campanelli d'allarme suonarono contemporaneamente, quasi annunciando ciò che prima si era presentato solo come l'accenno di uno squilibrio mentale.

«Stavo solo parlando, stavo...» La ragazza sospirò, sconcertata. Lui non si era mai permesso di fare il barbaro, né le di arrecarle del dolore fisico.

«Perché manchi di rispetto alla nostra famiglia, Gwen? Non puoi farti guardare con altri o la gente penserà male di noi. Non prendermi in giro. Non tradire la mia fiducia. Non me lo merito dopo quello che ho sto facendo per te.»

Lui la ammonì, tramutandosi nell'opposto di ciò che era sempre stato. Quella fu, purtroppo, l'ultima goccia.

6.

Isolarla, quello era il fine.

Gwen comprese di essere prigioniera, prigioniera delle proprie anamnesi, prigioniera del proprio status di donna malata e prigioniera di un uomo che non era mai stato una sua conoscenza. Le menzogne si erano indebolite con il tempo, disegnando crepe su quel nitido quadro di inganni creati per la Metropolitan Service.

Russell, nell'arco delle settimane, era cambiato in un bambino capriccioso e iracondo. La bionda, seppur debilitata dalle pillole, riuscì ancora a riflettere e notò che il nemico si era fatto mangiare dal rancore. Si era resa mansueta per non essere un oggetto di furia, ma le liti erano sempre in agguato.

«Tu non sai niente, Russell» confessò lei durante l'ennesimo pomeriggio passato al suono di grida.

«Smettila! Stai solo delirando» sbraitò lui, elettrizzato.

Gwen sentì la luce forarle la cognizione, aprire un buco con cui fuggire dalle tenebre. Il suo unico scopo fu rintracciare un indizio che le permettesse di comprende le realtà. Lei, forse, non era mai impazzita, era solo stata presa in giro come una sciocca.

«Ho accettato di sposarti, ma senza nemmeno dirti niente di me. Te ne rendi conto? Tutto questo non esiste, Russell, non esiste niente. Mi stai solo ingannando.»

Non riuscì più nemmeno a gridare, che una mano la strattonò contro il muro del corridoio, sbattendola come un oggetto insignificante. Incombette Russell, con la faccia grinzosa e disabbellita da una bocca ringhiante.

«STA' ZITTA, SCARLETT!»

Gwen sentì solo la pelle contro il muro e il dolore dominare tutta la sua testa. La ferita sulla fronte, nonostante il lungo periodo di guarigione, si dischiuse lasciando scorrere del sangue fresco.

«Scarlett?» Un sibilò uscì fuori dalla bocca.

Russell, scatenata l'esplosione, si calmò e sentì nella coscienza uno strano senso di rimorso. Quindi, prese il corpo della ragazza e lo accarezzò con gentilezza, come aveva fatto nei giorni prima.

«Scusami» piagnucolò, come un bimbo. «Non volevo farlo.»

Gwen restò inerme e dolorante. Gemette leggermente e, rantolando di tanto in tanto, accolse di malavoglia le viscide carezze del suo carnefice. «Ho preso una botta in testa, Russ. Può essere pericoloso. Ho bisogno di un medico, portami in ospedale.»

Il dolore non scemò con il tempo, ma rimase costante e lancinante quanto il marchio di un ferro infuocato sulla fronte. Purtroppo nemmeno la paura intrappolata nel corpo della donna riuscì a contagiare l'uomo, troppo impaurito persino da se stesso.

«Mi occuperò io di te.»

  
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