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Autore: AmyJane    06/03/2020    1 recensioni
Questa storia parla del bianco, del nero e di tutto quello che sta al centro. Conviviamo con mille sfumature e oramai sappiamo che non esiste la purezza. Sappiamo che il buio non è eterno e che tutto incontra i cambiamenti. Nero e bianco coesistono. Si contrastano ma senza mai negarsi, accettando la consapevolezza di non poter esistere senza il proprio opposto. Si completano e quasi finiscono con l'essere solo una delle tante sfaccettature dell'altro. Un po' come i diamanti che, nella loro infrangibile purezza, si rivelano essere solo una versione del carbone. Il nero è l'assenza di colore, il bianco l'unione di ognuno. Eppure niente e tutto alla fine sono molto simili, quasi la medesima cosa. Lo Yin contiene in sé lo Yang e lo Yang fa altrettanto.Sherlock è nero quanto una minacciata ombra ma ha un cuore puro quanto il diamante. Ha scelto di mostrarlo piano piano e di lasciarlo luccicare per contrastare la propria oscurità. Gwendolyn, al contrario, ha scelto la luce per accecare gli altri e mascherare un cuore color carbone. Gli opposti si attraggono per poi lottare senza mai né morire né trionfare. Si cede solo a un fragile compromesso.
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Clérembault

1.

Il sangue, denso e scuro, percorse la pelle liscia. La goccia, gonfia e di un profondo colore cremisi, sfiorò la tempia e, come un macabra carezza, corse giù per lambire la guancia lattea. Gwen sentì il dolore recidere la sua testa e, nonostante le gambe tremolati e, approfittò dell'assenza di Russell e si diresse verso lo specchio inchiodato al muro dell'ingresso. Lì, poté tastare la pelle sana, attorno al taglio di nuovo fresco e rosso.

«Ah» gemette toccando il puntò più doloroso.

Spremette i lembi di carne martoria, fino a quando il sangue si fece copioso e grondò sulla sua faccia, macchiando il parquet, il tappeto e la consolle. La bocca si tinse di tante striature scarlatte e persino le mani sembrarono rosse come quelle di un macellaio.

La mente formicolò dinnanzi quel triste scenario così cruento e i pensieri cominciarono a svegliarsi, come a voler reclamare una posizione. Il sangue, elemento così atroce, se sparso per casa in tante dilatate chiazze sulle superfici era sul punto di parlare, gridare una realtà nascosta. La giovane, allora, odorò il fastidioso sentore dell'ammoniaca e tutto sembrò acquisire un senso.

Quel pezzo di casa, nel giorno in cui tutto aveva avuto inizio, aveva ospitato un flusso di sangue a dir poco abbondante. Le macchie si erano stampate sui muri, sul pavimento e persino lungo il sofà poco distante dal portico esterno. I ricordi, forse, erano sul punto di ritornare.

2.

«Malattia?»

La profonda voce della Gomez, psichiatria dalle origini catalane, facilmente si accostò a una faccia minuto e scura. La dottoressa con grande maestria tenne le redini dell'ennesimo test mentale riguardante associazioni tra parole e pensieri. Gwen continuava a elencare risposte da parecchi minuti, lasciando la mente sgombero dai ricordi sul punto di uscire fuori dall'inconscio, da quel calderone di mistero e reminiscenze dormienti.

«Prigione.» 

Comunicata la risposta, la paziente rimase ferma sulla sua poltroncina nera. Lo schienale dietro la spalle, le luci soffuse e la parete bianca avevano creato un'atmosfera serafica e molto simile a quella del grembo materno, un limbo dove lo scorrere del tempo era ancora inesistente.

«Medicina?» continuò la dottoressa.

«Miracolo.»

«Dottore?»

Gwen fu solleticata da quella parola e con la mente si catapultò direttamente verso John Watson, il quale l'aveva pugnalata con gli occhi durante il loro ultimo increscioso incontro. Il gioco mentale prevedeva una risposta casuale, la prima a giungere attraverso collegamenti cerebrali per mezzo di una semplice intuizione. La gola, scaldata dalle corde vocali, tirò fuori poche sillabe intense. 

«Assenza.»

3.

La piena luna argentata, come una bella sfera luminosa, si era agganciata saldamente su un telo di tenebre notturne. Gelidi aloni e pallide sfumature leccavano la foresta, nera quanto e sfregata dal vento che, impetuoso, costrinse le fronde a cantare malinconicamente. Le rocce, incapaci di alcun movimento, affrontarono le raffiche. Delle betulle e dei faggi spogli, invece, scricchiolavano per mezzo degli arti ramosi, sotto ai quali si allungava il latrato di volpi in cerca di prede da snidare.

Gwen sentì il freddo di marzo forzarla a un isolamento ancora più duro, durante il quale la selva rimaneva la migliore compagnia. Il vento, insormontabile ed eterno, si assottigliò e penetrò le fessure della finestra, fino a scontrarsi con il suo corpo e trapassarlo da parte a parte. Lei stessa credette che quel gelido morso avesse avuto un qualche pessimo effetto, dal momento che pure l'anima sembrava in portico di ghiacciarsi con il passare delle settimane, giorno dopo giorno, battito dopo battito.

Le memorie, ciononostante, sembrarono riscaldarsi e acquisire più consistenza, premendo contro la barriera tra la censura e la conoscenza. Era solo questione di poco e, finalmente, la donna avrebbe riacquistato il proprio passato e, forse, modificato il futuro. Era necessaria solo un po' di accortezza e un taccuino da riempire con nozioni fresche d'inchiostro.

Gwen, per quanto impotente, continuò a immedesimarsi nella propria scomoda posizione, ma lottò per affrontare il pericolo quotidianamente. I ricordi si sarebbero preso congiunti alla agli altri indizi raccolti in segretezza durante il ritorno nel luogo dell'aggressione, sui particolari riguardanti il folle Russell.

La psichiatria era una scienza dinamica, secondo l'opinione generale degli esperti. Il tempo era necessario per raggiungere un il fulcro, per tracciare il profilo di una persona malata e, purtroppo, era conquistare una fuga. Era necessario quel il taccuino da riempire con informazioni su strani comportamenti.

«Sono io la matta o lui?» sussurrò la ragazza, mentre delineava inchiostro su fogli.

Tutto sembrava aver preso una piega davvero insolita dal momento che, più la carta si impregnava di scritte, più lei comprendeva di essere stata ingannata, come una agnellino destinato alle fauci del lupo.

«Gwen, cosa stai facendo?» Russell si palesò come uno spettro ed emerse dal buio, cogliendo la preda nel momento di distrazione.

La bionda, allora, ritta dinnanzi la finestra della propria stanza, tenne stretti suoi appunti schiacciandoli contro lo stomaco, ancora in subbuglio e, come una creatura mistica, accolse la luce lunare, conquistando un aspetto quasi etereo.

«Osservavo il cielo» mentì, lesta, con la speranza di sembrare quantomeno convincente. «La luna è splendida, stasera.»

L'uomo si convinse di ciò, ma non si scomodò ad andarle incontro. La gelosia era tanta e persino il guardare distrattamente gli astri fu per lui un segno dato dalla bisogno di fuga. Lei non si era innamorata di lui ed era disposta a scappare ancora.

«Puoi fissarla quanto vuoi, ci è concesso solo questo. È alla terra che si rimani attaccati, Gwen. Sia da vivi che da morti.»

4.

«Sto per andare lavoro. Tornerò domani mattina. Ho il turno di notte e c'è carenza di personale. Sarebbero persi senza di me.»

Russell sorseggiò la sua tazza di tè in modo terribilmente disinvolto. Le arrabbiature erano scemate in quel periodo e ciò era accaduto grazie alla abilità di Gwen, adattatasi a un approccio perfettamente accondiscende.

«Certo, ma non ti affaticare.»

La ragazza cedette con elasticità a toni flebili, ma anche melensi. Vezzeggiare il nemico con caldi tazze di tè e attenzioni gentili, sembravano la miglior strada da intraprendere durante quella curiosa prigionia fatta di pulizie e finte effusioni. Perciò, era necessario svegliarsi alla prima luce del mattino, cucinare qualcosa di caldo e lasciare tutto sul tavolo della cucina, dove l'uomo giungeva per la colazione.

«È una notte intera, ce la fai a stare da sola?»

«Forse sì» rispose Gwen, prendendo i piatti sporchi.

«Sicura?»

«Certo» concluse lei, sorridendo.

La perfetta mogliettina non era il suolo ruolo prediletto e interpretare certi comportamenti con così tanta costanza si era fatto fastidioso, soprattutto durante gli attacchi di nausea. Newman si era abituato a lasciare casa sempre alla stessa ora, liberando Gwen dalla minacciosa ombra della follia. La ragazza, allora, approfittava di ogni minuto di libertà per studiare tutto ciò che si presentava come un possibile spiegazione dell'inarrestabile corso degli eventi.

Il manuale di psichiatria, custodito nella stanza del padre, era stato letto con molto interesse. Bastava concentrarsi sulla sintomatologia, dell'irascibile parassita dentro quelle quattro mura. Le ricerche, di conseguenza, continuarono anche online, mangiucchiando il tempo libero e aiutando la donna ad analizzare le giuste conclusioni. Il due aprile, durante un tiepido mattino di sole e pace, fu il giorno in cui finalmente la soluzione si fece concreta e cambiò ogni cosa.

5. 

Londra, Baker Street.

Nel 221 B, nonostante i controlli e le tante ammonizioni, Sherlock dovette ricorrere a metodi sempre più innovativi per assumere stupefacenti; e dosi, tuttavia, erano diminuite drasticamente, al contrario dell'appetito, che era aumentato regolarmente. Il suo aspetto era migliroato, ma solo leggermente, poiché ancora troppo dolorose erano le speranze crollate, le tante teorie naufragate nel mare dei pensieri.

In quel periodo ancora intaccato dal malumore, il detective si occupò di più casi contemporaneamente e dedicò la silenziosa notte solo a quello principale. L'amnesia di Gwen era rimasta un arcano senza soluzione, ma facilmente collegabile a tante assurde spiegazioni. Molte erano le idee nate dalla concentrazione, ma nessuna era riuscita a raccogliere i pezzi mancanti, né aveva dato alcuna conclusione.

Le attenzioni della ragazza si erano marchiate nello spirito del bruno, rendendolo incapace di sottomettere la paura in favore della fredda lungimiranza. Il raziocino, sfortunatamente, si era crepato sotto il peso dei battiti, delle voglie e dei desideri irrealizzati.

John invece, migliorando di giorno in giorno, aveva imparato a convivere con l'acre sapore della delusione. Evitava l'argomento spinoso e si dedicava alle sue distrazione, alla professione, alle indagini, alla salute del coinquilino e alla crescita della di Rosie. Delle volte, effettuati i controlli medici, si sedeva al tavolo del soggiorno, accendeva il portatile a si metteva a scrivere, distogliendo la mente dalla negatività e dando inizio a un teatrino di finta quotidianità.

I numeri del blog, di giorno in giorno, continuarono a moltiplicarsi, così come i commenti e, all'improvviso, sempre più gente scrisse sulla pagina, aggiungendo teorie o addirittura remando contro determinate risoluzioni. Il popolo di internet era molto strano e, senza alcun timore, si era imposto di sbandierare opinioni su qualsiasi argomento. Fu ordinario, allora, far scorrere i commenti e abbrancare con le pupille particolare nickname e commenti enigmatici.


WHITEROSE2

Clérembault
 

Il medico strabuzzò gli occhi e si chiese il perché di una parola così sconosciuta. La sua mente ritornò alle rose bianche, alla pelle di Gwen, morbida quanto un petalo e anche ad altro ancora. Subito si rese conto di essere finito ancora nelle rete di reminiscenze e, come per spegnere tutto, fece scattare lo schermo in il basso con il braccio.

Sherlock, nonostante stesse suonando, non si fece scappare quella piccolo gesto. Fermò l'ultima strusciata e cercò di consolare il collega, più mogio rispetto agli istanti precedenti.

«Internet non è mai il miglior modo per distrarre la mente.»

Detto ciò, ricominciò a sfiorare le corde con l'archetto.

«Forse no. Hai ragione» ammise l'altro, esausto.

L'ex soldato si alzò dalla seggiola e fece per andare in cucina a prendere un bel caffè amaro, ma delle parole lo destarono immobilizzandolo al secondo passo, incerto quanto il primo.

«Le persone sanno dare il meglio della proprie incapacità dietro a una tastiera. Si comportano come se già non fosse complesso comunicarci di presenza. Lo schermo rende disinibiti» continuò il detective, concentrato e sempre attento alla melodia.

Il medico si girò, esibendo le occhiaie e una barba più pronunciata.

«Sì, ho notato. Si divertono a risolvere casi senza nemmeno le prove, alcuni contestano il tuo modo di lavorare. Hanno anche detto che dovresti provare a tagliarti i capelli. Per quanto riguardo gli altri commenti, non saprei nemmeno decifrarli. Clarambalt...»

Il violino produsse melodie più rilassate. Le note si distesero abbassandosi leggermente, come in segno di remissione. Qualcosa aveva sottomesso la loro importanza.

«Clérambault» lo corresse il bruno, assorto.

«Sì, penso sia quello.» 

E il collega lasciò il soggiorno.

John si rese prese conto di non sapere preparare un buon caffè, poiché tante erano state le occasioni in cui se l'era comprato in una comune caffetteria londinese. Il problema fondamentale era riuscire a scoprire la giusta dose tra la parte d'acqua e il macinato: troppa acqua consisteva in un brutto caffè, poca acqua e il risultato sarebbe stato una notte all'insegna dei sonniferi.

«Che diamine!» Il medico imprecò, poiché non era stato molto attento e aveva rotto il filtro cartaceo. I singoli granuli, umidi e compatti, erano caduti nella tazza, rovinando tutto il lavoro svolto.

Nel frattempo, Sherlock ricominciò a suonare con una maggiore impetuosità, sforzando il braccio a movimenti sempre più celeri e determinati. L'arco graffiò le corde, tessendo, nota dopo nota, una melodia turbinosa, senza pace.

Il detective, distaccatosi dalla realtà, si era confinato all'interno della propria cognizione e, come un forsennato, si era lasciato guidare soltanto dal triste guaire dello strumento e dai tanti pensieri galoppanti.

Il suo collega, allora, non poté fare a meno di notarlo strano, con le vene del collo gonfie e gli occhi fissi in un punto cieco. Il computer, prima chiuso, mostrava il monitor luminoso e ritraente l'orda di commenti riguardanti l'aggiornamento. Tra questi c'era ancora lo strano messaggio recapitato in quello stesso pomeriggio.

Le tensione intasò l'aria e il viso di Sherlock si fece grinzoso. Le sinapsi erano intente a susseguirsi, comunicando realtà non ancora conosciute. Le mani plasmarono l'ultimo suono acuto e poi posarono lo strumento con poca cura. Nel frattempo, un urlo a rimbombò tra le sottili mura, squarciando la quiete.

«Sherlock!»

L'ex soldato si fece prendere dalla paura e, raggiunto il soggiorno, notò il coinquilino rovistare tra scartoffie e lanciare oggetti contro il camino spento. Un rumore di passi svelti risuonò, annunciando la presenza di Mrs. Hudson, più che sconvolta dall'impetuosità degli ultimi rumori.

«Per l'amor del cielo!» L'anziana parlò, attonita.

John continuò a guardare il proprio collega ringhiare come un cane rabbioso e senza un apparente motivo. Determinare cosa fosse scattato dentro la sua testa era un fine irraggiungibile e, di conseguenza, andò a immobilizzarlo con le braccia per torcergli delle spiegazioni.

«Sherlock, Cristo. Cosa ti è preso?»

Il bruno, sotto la presa del collega, controllò gli spasmi.

«Come ho fatto, John?»

«Come hai fatto cosa?»

«Come ho fatto a non capire...»

6.

«Questo ti farà sentire meglio, caro.»

Mrs. Hudson versò nella tazza, bianca e lucida, una brodaglia rilassante all'aroma di fiori di lime e valeriana. La teiera, con dentro quel toccasana per i nervi, sembrò come sempre essere la sua migliore arma.

«Non adesso!»

Sherlock rifiutò di bere e, seduto sulla poltrona, lasciò scaricare gli ultimi residui del precedente stato di eccitazione. Il malanimo, tuttavia, persistette e ciò fu palese sia all'anziana che a John, ancora smarrito.

«Puoi dirmi cosa ti è successo?» chiese questi, seduto al proprio solito posto, con le braccia conserte e la faccia stremata.

Il bruno fissò il collega e dischiuse la bocca tremolante.

«Gaëan Gatian de Clérambault.»

John ascoltò la parole del coinquilino, ma senza carpire un senso soddisfacente e, di conseguenza, aggrottò la fronte in segno di dispersione. Sherlock, che invece era a conoscenza del punto focale del proprio imminente discorso e non si trattenne oltre.

«Poco noto psichiatra francese, conosciuto in quanto insegnante del più conosciuto Lacan, ma anche per i suoi studi riguardanti sindromi psicotiche molte rare. Il suo più grande successo si è basato sulla scoperta dell'erotomania, un tipo di disturbo delirante in cui il paziente ha la convinzione infondata e ossessiva che un'altra persona provi sentimenti amorosi nei suoi confronti. Nella forma più comune della patologia, il presunto amante è di una classe sociale superiore.»

John tentennò.

«Sherlock, di cosa diamine stai parlando?»

L'altro si alzò, muovendosi spasmodicamente.

«La convinzione di essere amati da qualcuno è spesso accompagnata da un sistema di false credenze secondarie, che portano il paziente a crearsi un piccolo mondo immaginario del quale cerca di auto-convincersi. Esistono tre fasi della malattia, una lunga discesa verso il baratro. L'oggetto del delirio erotomane non ha alcuna particolare relazione con la persona affetta da questa sindrome.»

L'ex soldato cercò di dare un'ottica a quel discorso ma senza successo. Sicuramente, approfittò del silenzio per dare al collega tutto il tempo necessario a un'accurata delucidazione.

«Abbiamo una vittima, John. E anche un carnefice.» Sherlock attaccò i piedi a terra e fissò il medico, con sguardo eloquente ma inquieto. «Prima fase dell'erotomania, Mr. Russell Newman incontra la sua prima vittima, Scarlett Blomst, la figlia di un suo superiore. Si tratta di un periodo di lunga durata. Il malato aspetta che il partner desiderato si dichiari, ma rimane incastrato nell'attesa.»

John sbarrò gli occhi, incredulo.

«Sherlock...»

«Fase numero due... il rifiuto. Il malato, dopo un reale riscontro negativo, cade spesso in depressione, diventa aggressivo o ha tendenze suicide. È sempre così, prima della...»

«Sherlock», lo richiamò ancora John, confuso.

«Fase tre, l'erotomane rivolge tutta la sua aggressività contro l'oggetto del desiderio. Nel peggiore dei casi ricorre al crimine per raggiungere la vittima. Newman ha agito secondo un piano specifico: ha rimosso il principale ostacolo alla realizzazione del suo volere, uccidendo il padre della donna. Lo ha ingannato, sostituendo l'insulina con il glucosio. Fa tutto in fretta, in modo che nessuno possa capirlo. Il mese dopo, a strada sgombera, ha rapito Scarlett, fingendo un comune incidente stradale. In fondo, era un infermiere e l'accesso ai morti dell'obitorio era facile. Il corpo dentro l'auto era carbonizzato, irriconoscibile. Non c'è mai un corto circuito, John.»

Mrs. Hudson ascoltò il fiume di frasi ma non comprese molto, a causa dello scarso materiale immagazzinato. John, in realtà, non comprese nemmeno, ma una forte tensione paralizzò tutta la sua postura.

«Passano due anni, ma la malattia non può retrocedere. Ogni caso di erotomania, se portato allo stremo, sfocia nell'omicidio. Dopo giorni, forse anche mesi di prigionia, Scarlett Blomst muore, uccisa dal suo rapitore. A Newman non rimane niente altro che un cadavere di cui disfarsi e una malattia. È solo e ha bisogno di indirizzare la sua follia contro qualcuno.»

Il medico lasciò che quella spiegazione gli riempisse la testa, rivoluzionando tutto ciò che era stato detto in precedenza. Il dolore, nato dalle idee sbagliate su Gwen, si sciolse nell'arco di poco, lasciando posto a sentimenti indefiniti.

«Lui... Lui... ha...»

Sherlock assottigliò il taglio dei propri occhi.

«Ha solo compensato la morte di Scarlett con Gwen.»

John deglutì e poggiò la faccia sui palmi dispiegati. Il suo magazzino mentale, pieno di sofferenza e supposizioni, non riuscì a codificare con prontezza l'ultima teoria. I sentimenti, inoltre, non permisero una buona metabolizzazione della figura della donna, angelo e demone a seconda delle intuizioni del collega.

«È solo un'altra sciocca ipotesi, non è così? Be', è ora che tu la smetta con queste storie. Sono stanco di te e delle tue deduzioni.»

Il bruno gli rinfrescò il passato.

«Lo so, ma non questo non è un abbaglio. Il giorno dell'interrogatorio, Russell ha parlato di una voglia sulla pelle di Scarlett. Conosceva troppi dettagli intimi su Gwen, dettagli estrapolati durante la prigionia della sorella, secondo le mie deduzioni. Ha ingannato tutti, Scotland Yard. Ha ingannato me.»

John non resse più la collera e cominciò a sbraitare.

«Ha mentito continuamente e tu non te ne sei accorto?»

Una battito mancò a Sherlock. Smascherare un pazzo non era come farla in barba a un bigotto dell'MPS.

«Ha costruito castelli mentali con cui convincersi. Il delirio e le convinzione errate prendono possesso della lucidità e l'erotomane è sincero nel raccontare storie assurde. I segni di riconoscimento più chiari non sono mai le bugie, ma gli scatti d'ira e l'aria costantemente turbata.»

Il medico strizzò le palpebre, cercando di ricordare quel fatidico giorno, il disgusto per Gwen, pugnalata con un'occhiata storta, ma eloquente. Il senso di colpa lo attanagliò, spronandolo a imprecare e a spalancare le palpebre dinnanzi al monitor luminoso.

«È stata Gwen, non è vero?»

E Sherlock rispose.

«È in pericolo, John.»

7.

La pioggia scese giù timidamente, rinfrescando l'erba e lasciando, sopra al tetto, l'eco fantasma di un leggero picchiettio. Dentro al salotto, Gwen se ne stette ferma sul sofà, con le rotule al di sotto del mento e gli occhi fissi sulle grigie scene di Vertigo [2]. Il thriller continuò, colmando il silenzio con intrighi e segreti.

«Quanti anni avranno?»

La voce di Madeleine sgusciò fuori dal televisore, animando la casa con il suo tono dolce. Il protagonista maschile, Scottie, rispose alla sua protetta, dando inizio al celebre dialogo.

«Diciamo duemila, forse di più»

«La più vecchia cosa vivente.»

La giovane ascoltò, senza distogliere mai lo sguardo.

«Sì. Non era mai venuta qui prima?»

«No.»

Scottie continuò a porre domande.

«A cosa pensa?

«A tutte le persone che sono nate e...»

Gwen si massaggiò la fronte ferita.

«...Morte mentre questi alberi hanno continuato a vivere.»

«Infatti si chiamano sequoia sempervirens: sempre verdi e vivi.»

«Non mi piacciono!»

«Perché?»

E Madeleine rispose.

«Perché so che devo morire.»

D'un tratto, le onde sonore di un rimbombo si espansero nell'atmosfera, recidendo quel clima di serenità in favore di un maggiore stato di suspense. La ragazza si ritrovò sola e con una sensazione di sgomento, poiché nessuno era in casa, o almeno questa era la sua supposizione. Si alzò con fare molto cauto e, con il passo felpato, si spostò verso l'ingresso, le cui pareti furono macchiate da un'ombra intenta.

Gwen, non sapendo riconoscere il nemico, si armò di un ombrello chiuso e si mimetizzò con le tenebre, in attesa di un attacco a sorpresa. Tuttavia, qualcosa di familiare la tranquillizzò.

«Blomst!»

La giovane, ascoltato quel tono baritonale, dovette ricredersi e scambiare la paura con una migliore emozione. La gioia la investì e la portò a premere l'interruttore della luce con un gesto tremolante, ma rapido. Il bagliore irradiò la casa, mostrando l'inaspettato ospite.

«Sherlock!» Il cuore si fece ricolmo di speranza.

Il detective, completamente fradicio ed emaciato, guardò la donna, fattasi magra e stanca. Nutrì, in quel momento, il desiderio di aggiustare quella orribile situazione. Gwen, in risposta a quel miracolo, lasciò gli occhi impregnarsi con lacrime di speranza.

«Hai forzato la mia porta» farfugliò. «E saresti potuto incappare nel mostro che mi tiene in ostaggio. Come puoi essere così sciocco?»

«Ho fatto i miei calcoli. So che fidarti di me è difficile dopo quello che è successo, ma potresti ricrederti» rispose lui.

Il cielo si ribellò alla primavera con una saetta e il boato accompagnò l'ingresso di una seconda figura, altrettanto riconoscibile. John Watson entrò di sottecchi, come un cane dopo la punizione, e si avvicinò alla donna con fare atterrito. Rivederla così gracile e ferita lo fece sprofondare nel baratro dell'imbarazzo. Compiere un atto di fede era stato impossibile e, naturalmente, lo era stato proteggerla.

Gwen, tramortita dalla presenza del suo medico, dischiuse la bocca e mandò la mente in altre direzione, la portò dentro quel bieco ricordo codificato poco dopo l'interrogatorio

«Io... Be', mi dispiace» biascicò l'ex soldato, demoralizzato.

Restò fermo e, con in bocca il silenzio, aspettò un qualche cenno da parte di lei che, altrettanto muta, diede finalmente la sua chiara risposta. Inutile aggiungere che John quella replica la sentì, eccome. Sulla guancia, semplice e dolorosa.

La bionda non era mai stata capace di picchiare nessuno, nemmeno gente del peggior rango ma, in quel momento, uno schiaffo poderoso e lesto era stata la miglior forbice per mozzare il filo annodato al passato. Non esistette più quello sguardo a Scotland Yard, né alcuna sensazione di rabbia dopo quell'istante.

Il medico, d'altra parte, accettata la sberla, strinse i pugni per poi scioglierli pian piano nel momento in cui lei gli si gettò addosso, liberandosi in un pianto isterico. L'uomo la strinse forte, trattenendola al petto e, nella foga del momento, le stampò un bacio sulla ferita cocente. La ragazza singhiozzò, senza smettere, e mai si lamentò dei baci ispidi del proprio uomo che, con la leggera barba, le punse la carne rossa. Sherlock, intanto, li stette a guadare con un certo distacco.

Nel frattempo, in salotto, Vertigo continuò a scorrere, trasmettendo scene cariche di pathos. Madeleine, dentro lo schermo, ricominciò a interrogare il proprio adorato Scottie.

«Perché mi segue?»

E il poliziotto rispose.

«Perché sono responsabile di lei, ormai. I cinesi dicono che dopo aver salvato la vita di una persona, uno si impegna a proteggere quella persona per sempre.»

  
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