Serie TV > Sherlock (BBC)
Segui la storia  |       
Autore: AmyJane    06/03/2020    1 recensioni
Questa storia parla del bianco, del nero e di tutto quello che sta al centro. Conviviamo con mille sfumature e oramai sappiamo che non esiste la purezza. Sappiamo che il buio non è eterno e che tutto incontra i cambiamenti. Nero e bianco coesistono. Si contrastano ma senza mai negarsi, accettando la consapevolezza di non poter esistere senza il proprio opposto. Si completano e quasi finiscono con l'essere solo una delle tante sfaccettature dell'altro. Un po' come i diamanti che, nella loro infrangibile purezza, si rivelano essere solo una versione del carbone. Il nero è l'assenza di colore, il bianco l'unione di ognuno. Eppure niente e tutto alla fine sono molto simili, quasi la medesima cosa. Lo Yin contiene in sé lo Yang e lo Yang fa altrettanto.Sherlock è nero quanto una minacciata ombra ma ha un cuore puro quanto il diamante. Ha scelto di mostrarlo piano piano e di lasciarlo luccicare per contrastare la propria oscurità. Gwendolyn, al contrario, ha scelto la luce per accecare gli altri e mascherare un cuore color carbone. Gli opposti si attraggono per poi lottare senza mai né morire né trionfare. Si cede solo a un fragile compromesso.
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Il paradiso brucia

1.

Il maltempo continuò, bombardando la terra con una pioggia sempre meno copiosa. L'acquazzone si fece umile e ogni goccia nell'arco di poco fu parte di una acqua buona. Non era la stessa pioggia, era leggiadra e purificatrice mentre scendeva giù, dissetando il suolo.

L'acqua s'infranse contro il tetto, fondendosi con l'aria e diramandosi sulle finestre. Dietro quest'ultime, lacrime di cielo, fresche, strisciarono sulla pelle chiara e compatta di Sherlock, ridefinendo ogni tratto, gli zigomi, il solco al di sotto della guancia, il naso affilato e lungo; persino i suoi occhi si erano fatti più limpidi e tersi.

Gwen, con pazienza, tamponò il detective con un asciugamano morbida e ancora fresco di pulito. Con cura, lo premette contro l'acqua, asciugando per mezzo di soffici massaggi circolari. Disegnò con le mani i tratti dell'uomo, seduto sul letto come un bambino.

«Grazie» disse infine, sussurrando.

Le dita bianche e sottili pettinarono i riccioli scuri che, innaffiati dalla pioggia, si erano tinti di un nero più intenso e brillante.

«Sono stato lento, invece.» 

Sherlock rimproverò se stesso prima di sentire lungo il collo, spesso e diafano, riceve le carezze della donna. Il panno premette contro le clavicole e poi scese giù, sul petto, completamente glabro e bianco.

«Be', adesso sei qui. È questo che conta.»

La giovane s'inginocchiò, allineando il contatto tra gli occhi. Sherlock, infervorato dalle cure materne della donna, non sentì più la fredda umidità, ma solo un calore. Non riuscì a tollerare quella pressione, così intima, e si sforzò di allontanare i sintomi di quella bizzarra ubriacatura sentimentale. Gwen, nel frattempo, inconsapevole degli effetti di un tocco così dolce, continuò a muovere il braccio lungo tutto ciò che la purpurea camicia sbottonata aveva lasciato scoperto. Senza alcun timore, asciugò il resto del torace e dello stomaco.

«Ti aiuto a togliere la camicia» gli disse cingendo le spalle.

E Sherlock si scostò.

«Ho delle buone facoltà mentali, so come disinnescare una bomba, far reagire un acido e, sicuramente, anche come usare un asciugamano» rivelò, con amarezza.

Le braccia restarono coperte, lontane dai mani che avrebbero potuto smascherare i lividi antiestetici lasciati dall'ago. Gwen, conoscendo le bizzarrie dell'uomo, acconsentì al desiderio con un sorriso e lo lasciò liberò dalle altre cure invasive.

«Be', pensa al resto», gli comandò amorevolmente, indicando anche gli altri indumenti. «Ti vado a prendere una vestaglia, intanto. Non muoverti da qui.»

Sherlock, sfiorato il pericolo, continuò ad asciugarsi con attenzione e, nonostante il fisico debilitato e la stanchezza del viaggio, trovò la forza per concludere il lavoro. La bionda, nello stesso identico momento, si allontanò di qualche metro, in un luogo sommerso dal dolce picchiettò della precipitazione. Rimase lì, come in attesa, e godette della presenza di quella pioggia che, inondando il resto del mondo, ridusse la casa in un involucro sicuro, dove ogni male finalmente si era estinto.

2.

Rimasero tutti e tre seduti sul sofà, accanto al camino contente lingue vermiglie e incandescenti. La legna, seppur umida, bruciava, riscaldando le pareti e tutto il resto. John e Sherlock, presi alla sprovvista dal temporale, dovettero spogliarsi, mettere i panni nell'asciugatrice e nascondere ogni nudità al di sotto di calde vestaglie maschili appartenenti al defunto proprietario della casa, il dottor Blomst.

Gwen, in mezzo a loro, sorseggiò la tiepida tisana, spiaccicando parole di tanto in tanto.

«Pensavo non lo avresti capito?» confessò, titubante.

Sherlock, allora, fece una smorfia. «È molto scortese sottovalutarmi in questo modo. Ho letto il tuo messaggio questa mattina, ed eccomi qui.»

La bionda posò la tazza a terra per terra e riscaldò le mani al di sotto della coperta che, come un manto, avvolgeva tutte le sue membra, riparandole dal gelido tocco delle basse temperature. Il fuoco, nel frattempo, fece il resto.

«Ho cercato un metodo per contattarvi, ma dovevo passare inosservata. Lui è molto attento a quello che faccio. Mi sorveglia continuamente, tranne durante il lavoro. Ho capito la fase di patologia raggiunta, ma non sono ancora riuscita a capire quanto è pericoloso. Sono casi davvero molto rari.»

«Be', su questo ci sono arrivato io» confessò il bruno.

La giovane si fece sorpresa. «Gli erotomani, di solito, rimangono bloccati alla prima fase.»

«Non lui, non dopo quello che ha fatto.»

«Cosa? Che intendi?» chiese lei, confusa.

John si immise nella conversazione, in modo da riuscire a salvaguardare l'incolumità mentale della donna, ancora non a conoscenza dei fatti. L'omicidio di due famigliari era un tasto troppo dolente per essere spiattellato con così poca sensibilità.

«Sherlock, non mi sembra il momento adatto. Rimanderemo questo discorso, a questione risolta. Gwen ha bisogno di riposo.»

La ragazza, tuttavia, si fece solo più stordita dai toni poco chiari e dalla desiderio di riuscire a colmare tutte le lacune lasciate dal passato. Sherlock, com un genio, era attento a precedere chiunque di molti passi, lasciando solo delle impronte da seguire.

«Non capisco, spiegatemi!»

John sospirò, dando inizio a un secondo di quiete. Il collega preferì le confessioni.

«È stato lui a uccidere tuo padre. E a rapire tua sorella, naturalmente» confermò Sherlock, incerto. Il silenzio era sin troppo assordante.

La parole restarono sospese nell'aria, fermando lo scorrere dei minuti e cancellando ogni riflessione. Gwen le sentì, ma inizialmente non ne carpì il significato, poiché percepì la mente rifiutare il senso di quello frase. L'attimo dopo, però, tutto cambiò e fu assorbito ogni concetto.

«Sherlock, che cosa stai blaterando?»

Il bruno si convertì ancora in impenetrabile ghiaccio.

«Tuo padre faceva continue iniezioni di insulina, non è così?»

«Era diabetico» confermò la ragazza, tentennando.

«Lavoravano insieme, Gwen, e tuo padre si fidava di lui. Gli infermieri sono molto attenti alle punture, le fanno in continuazione ai loro pazienti. È bastato sostituire l'insulina con qualche miscela al glucosio, per farlo morire. È successo in un solo mese e tuo padre non si è mai accorto dell'inganno.»

«Sherlock!» lo rimproverò John, suscettibile.

L'altro contraccambiò lo sguardo del collega, ma non volle fermarsi. Gwen doveva sapere tutto, altrimenti, non avrebbe mai preso provvedimenti mirati alla propria reale salvaguardia.

«Ha simulato un incidente d'auto, dopo aver rapito Scarlett. Il cadavere carbonizzato veniva dall'obitorio. Le cose si sono aggravate e ha... be'... ha ucciso anche lei. La sua patologia non è migliorata con il tempo. E adesso sei tu il suo interesse. Assomigli molto a tua sorella...»

La donna si fece assente a causa dell'esplicazione. Il cuore le si appesantì nel petto, dopodiché salì fino alla gola, mozzando ogni bisogno di parlare. Metabolizzare il lutto era complesso, ma metabolizzarlo ancora sotto un ottica molto più cruenta, era pressoché impossibile per chiunque.

«Non era necessaria la spiegazione, non oggi.» John, al di sotto delle coperte, prese la mano della donna, stringendola con cura. Le dita si attorcigliarono attorno polso, ospitante le pulsazioni accelerate, unico indizio di un malumore fomentato.

«Invece sì, John.» Sherlock si rivolse alla donna, che già gli teneva stretto il palmo, a causa del troppo bisogno di conforto. «Non sono qui per mentirti, ma solo per avvertirti del pericolo. Non sei al sicuro, e adesso che sai la verità, devi assolutamente andare via, subito. Restare qui può esserti fatale.»

«Io... Io...» Gwen cominciò a gemere, a lacrimare.

Essere ingannata era un conto, passare i giorni con un assassino era una maledizione molto più grande. Dopo anni di illusioni, di odio, finalmente era riuscita a ottenere una spiegazione reale, seppur atroce. Era stato stato un uomo a trastullarsi con la morte, estirpandole tutte le radici, le sue di radici.

«Io...»

Le sue due mani, occultate da uno strato di lana spessa e soffice, si erano legate a quelle dei due uomini, non a conoscenza dello strano intreccio creatosi tanto simultaneamente. John preferì di una stretta solida, quanto quella di un familiare.

«Sta' tranquilla!» esclamò, dolcemente.

Sherlock, al contrario, sembrò quasi solleticarle le dita.

«Anch'io ho qualche cosa da confessare.» Gwen ritrovò la parola e la usò solo per migliorare l'intricato quadro della situazione. «Sto ricominciando a ricordare. Stare qui mi ha come aiutato a risvegliare i miei ricordi, ma ancora non sono a conoscenza di quello che è successo. Mi dispiace.»

«È un ottimo passo in avanti» disse medico, schietto.

Gwen sciolse le mani dal fugace tocco dei due.

«Non posso venire via con voi.»

Lo scoppiettio delle fiamme rallegrò il silenzio, sceso assieme al disappunto. John non ebbe nemmeno la forza di controbattere e il bruno, disposto a dare fiato alla bocca, si fece prendere dal desiderio di stroncare l'affermazione precedente.

«Spero tu sia consapevole della grande sciocchezza di cui la tua bocca è partecipe. Ti ho ben esplicato che sei la prigioniera di un assassino. Non è ancora abbastanza farti ragionare?»

«Lo so, ma non sarà questo a mettere tutto a posto. Ovunque vada, lui mi raggiungerà» replicò Gwen, rancorosa. «E io non ho niente per farlo arrestare. Ha ingannato Scotland Yard, me e persino voi. Sono solo una matta per gli altri e non posso limitarmi a fuggire. Devo trovare un modo per fermarlo e fargliela pagare.»

Odio, solo odio.

John non riuscì a non lasciarsi sfuggire tutto quel rancore atto a cementificarsi nel corpo della donna. Lo sfogo era esploso, ma lui non era disposto a correre degli inutili rischi.

«Non c'è tempo per un piano» disse, innervosito. «Dobbiamo scappare, e quando saremo al sicuro potremo pensare a come rintracciare le prove. È la cosa più giusta da fare.»

«Sarebbe la migliore opzione, ma non ce ne sono di prove» confermò Sherlock, frustrato.

«Ci saranno, invece» sussurrò Gwen. «Sono da qualche parte nella mia testa. Devo solo ricordarle.»

Sherlock indirizzò le iridi glaciali sulla donna, catturandone l'innocenza e quel senso di fragilità appena trapelato. L'idea partorita da quella testa argentata era ottima, ma allo stesso tempo troppo pericolosa, considerando tutto il passato che era emerso. Russell avrebbe potuto farle del male o, addirittura, ucciderla in un momento di crisi.

«Ci vorrà del tempo, la mente sa essere molto resistente.» Il detective non si fece contrario, ma nemmeno concorde.

«Bene. Starò qui fino a quando non accadrà» disse la donna.

John, preso dal senso di protezione, non desiderò ascoltare altro. Aveva già abbandonato la giovane e ripetere quell'errore era sarebbe stato un passo falso. Doveva starle accanto, limitare il danno e allontanare quella faccia da qualsiasi male.

«Gwen, ti rendi conto d–»

«Separarmi dalla casa rallenterà solo il processo.»

«Non sei al sicuro, qui» la rimbeccò il medico, esasperato.

«So come gestirlo, ho studiato per imparare a farlo» confermò Gwen, con un tono baldanzoso. «Tende alle arrabbiature, ma solo se cerco di difendermi. Basta dargli delle attenzioni e diventa molto più mansueto. È manipolabile e so come raggirarlo, John.»

L'ex soldato, però, non accettò scuse.

«Gwen, non voglio saperne di questa storia.»

«Ne saresti capace?» chiese Sherlock, schietto.

E la ragazza rispose. «Certo.»

3.

High Bradfield, Yorkshire

Il sole finalmente abbandonò il suo nascondiglio, per lo più composto da boschi rigogliosi. Le ombre furono diradate dai primi timidi raggi e il cielo assunse un colore indaco. Stormi di uccelli spiccarono il volo, diffondendo il cinguettio. Il mattino, nascita di un giorno, si era insinuato con un'alba tetra, ma bella dinnanzi ai cuori più nostalgici.

John non aveva dormito molto quella sera, e quel poco di sonno raccolto era stato insolitamente leggero. Infagottato per bene, si ritrovò al caldo, con una mano al di sopra del bacino di Gwen. Questa, sentendo quella pressione, dilatò un sorriso macchiato da una punta di tristezza. In seguito, mosse le dita sulla chioma del suo uomo.

«È ora di andare» disse, in modo amaro.

Russell sarebbe ritornato entro poche ore ma John, d'altra parte, era contento solo quando era accanto alla sua donna. L'idea di lasciarla con un folle psicopatico lo preoccupò non poco.

«Non resterai qui. Torni a casa con noi» ordinò il medico, contrastando la brutta aurea della giornata.

Qualcosa di molto nefasto era sul punto di giungere e Gwen, purtroppo, non sembrava nemmeno accorgersene. Tutto scorreva impotentemente, come una trama da tempo scritta.

«Non ti fidi di me?»

John s'irrigidì.

«Mi fido di te, mi fiderò sempre di te. È delle mie sensazioni che non fido. Restare qui non è la scelta migliore.»

La ragazza si mise seduta, scostando le coperte. Si posizionò sopra l'uomo, lo tranquillizzò facendogli poggiare la guancia sul seno e, senza mai smettere, gli massaggiò la schiena.

«Brutto presentimento?»

«Pessimo» confessò lui, dopo una pausa.

La bionda, allora, per rabbonirlo, gli prese il volto con le mani e, con lentezza, si avvicinò. Si fermò poco prima di incontrare le sue labbra, per meglio rimirare le iridi blu e consumate dal bisogno di sonno. Premette le pupille sulle borse al di sotto degli occhi, sui i solchi del tempo, la fronte attempata, il biondo stinto e gli altri piccoli difetti del medico. Infine, presa dal senso di tenerezza, stampò sulle sue labbra sottili un bacio dolce e lucido.

«Ti prometto che andrà tutto bene.»

John ascoltò quelle parole, ma rimase incerto.

Sherlock rimase in piedi, sul portico della casa, in attesa del collega. Il maltempo sporcò il terreno con le foglie secche anche qualcos'altro. Una ghianda rotolò lungo il prato fino a toccare la scarpa scura del bruno, che la sentì picchiare. Un attimo e questi la afferrò con le dita, studiandone ogni piccolo millimetro. La sua mente tornò a Copenaghen, dove Gwen si era messa nei panni della tata, giocando come una bambina troppo cresciuta. Gli aveva garantito un bacio ma, essendo a corto di ditali, non era riuscita ad adempire alla sue sacre promesse.

Lui però era riuscito a reperire una ghianda, il simbolo dell'affetto nato dentro Peter Pan, incapace di confessare le sue emozioni e troppo infantile per gestire le persona amate. Non era stato migliore di quel personaggio immaginario, mai. Gwen non si era posta alcun problema nel lasciarlo solo e conquistare un altro uomo. Era troppo tardi per tornare in piedi e godere di quei momenti tanto assaporati.

Per triste gioco del destino, lui era sempre stato legato a John e, nel frattempo, si era lasciato sfuggire dalle mani il bene della donna.

«Siamo in ritardo» farfugliò, mesto.

Il cigolio del portone si distese nella quiete, concedendo a Gwen gli ultimi saluti. Il bruno raggiunse la donna, solo per comunicarle l'essenziale e assicurarle un soccorso in caso di necessità.

«Sosteremo a Jane Street, in un cottage accanto al cimitero. Se lui dovesse reagire in modo più violento del solito, sai come contattarci. Non fare sciocchezze, Gwen.»

La giovane sorrise e annuì decisa.

«Non farò niente di pericoloso.»

Sherlock continuò. «Non provocarlo, mai!»

Lei accolse l'ultimo consiglio e, d'impeto, si buttò tra le sue braccia, lisciandogli la schiena. Il detective, sorpreso da quel saluto così fisico, restò interdetto. Si limitò, quindi, a rimanere fermo per pochi secondi e, in seguito, cedere a quell'abbraccio.

Il sentimento crebbe, tramutandosi in un ghiribizzo destabilizzante. Sherlock, difatti, pensò a un'idea e, con un gesto fugace, ghermì i fianchi della donna, così da lasciar cadere la ghianda nella tasca della vestaglia.

Il bruno si scollò. «Non farci attendere a lungo.»

Il duo si ritirò qualche minuto dopo e alla giovane non restò che l'isolamento. La sua mano bianca scivolò nella tasca, in cui il piccolo pensiero era finito e, di colpo, lei non si sentì più sola.

4.

«Dove sono finiti gli asciugamani?»

Russell convertì quella domanda in un urlo che corse lungo tutta la casa. Era in bagno, in cerca di qualcosa con cui asciugarsi dopo una doccia rapida. Tuttavia, non trovò niente e dovette immediatamente invocare Gwen, chiusa in cucina da ore.

«Erano sporchi e li ho messi a lavare?»

Persino la donna fu obbligata ad alzare la voce. Russell, però, stanco della situazione, raggiunse sua donna.

«Tutti quanti?»

Gwen, intenta a tagliare fragole in cucina, tenne lo sguardo basso per non cogliere con gli occhi quell'essere così mostruoso. Il racconto fornito da Sherlock, la sera prima, era stato più che sufficiente a crivellarle il cuore, ma anche a darle il coraggio di trattenere tutta la rabbia.

«Mi dispiace, Russ.»

Il giovane notò la farina sparsa in giro, il tagliere in posizione e la donna molto concentrata nei semplici gesti di preparare un dolce.

«Cosa fai?»

«Una crostata di fragole.»

Russell fece una smorfia poco educata. «Non mi piacciono le fragole.»

La bionda trattenne l'istinto di piantargli il coltello nel petto e, sempre tenendo lo sguardo basso, si distrasse tagliando altri pezzi di frutta. In seguito, continuò a parlare con molta compostezza, simulando affetto, ma senza davvero intenderlo con il cuore.

«Va' in camera mia, troverai degli asciugami puliti.»

Russell abbandonò la cucina e si accinse a raggiungere la camera della donna, dove il letto era ancora disfatto. Sul comodino, oltre che la lampada, era stato poggiato un altro oggetto molto atipico, se in quel preciso contesto: un orologio maschile, senza proprietario. Il ragazzo lo colse e, senza troppi intoppi mentali, trasse tutte le corrette conclusioni.

Gwen, intanto, cercando di contenere il furore, affettò le fragole rimanenti, facendo ticchettare la lama sul legno, fino a ferirsi l'indice. Il dolore, leggero ma istantaneo, la portò a lasciar cadere il coltello a terra, assieme a delle macchie rosse.

La ragazza emise un gridolino, ma subito dopo riuscì a contenersi e riprese la lama, sporca e ferma. Uno strano formicolio, tuttavia, la travolse, riportandola in un passato non del tutto cancellato. I ricordi furono proiettarono, ritingendo di losche sfumature il fatidico giorno dell'aggressione. Le mani raggiunsero la testa, in cerca di placare il flusso mentale, ma subito dopo il malessere ebbe la meglio. Pochi secondi e il corpo della donna abbandonò i sensi e cadde a terra.

«La figlia perfetta non esiste.» O almeno così diceva la gente, ma non era la verità. Il dottor Blomst era un uomo fortunato, poiché era riuscito a crescere un figlia a dir poco impeccabile. Scarlett si differenziava dalle coetanee, sia per intelligenza che per un accentuata bellezza naturale. Gli occhi, di un luminoso verde cangiante, ben erano esaltati da una folta criniera scura, striata da sfumature ramate che si disperdevano di ciocca in ciocca, creando un piacevole gioco cromatico.

La maggiore delle sorelle danesi, al di là del semplice aspetto, poteva vantare tante attenzioni, amicizie e una vita già costellata da tanti piccoli successi, sia a in ambito professionale che in ambito personale. Scarlett aveva un bel carattere, era solare con tutti tranne che con la sorella minore. Con questa il rapporto era stato solo in parte funzionale, a causa di vecchi risentimenti. E Scarlett, fattasi la madre mancata, si era immedesimata nel ruolo del genitore implacabile.

I ricordi sbocciarono con spontaneità, sia quelli pessimi, legati al rancore e al dolore, sia quello belli, pieni di gioia e conforto. Una lunga maratona di momenti saziò la memoria di Gwen, che ripercorse tutta la sua esistenza fino a giungere all'ultimo ricordo sottratto dall'amnesia, quello fatidico: sua sorella stesa al suolo della cucina, sanguinante e propensa allo spegnersi lentamente come un esile fiammifero.

5.

«Gwen!»

La giovane sentì la testa abbandonare ogni ricordo e lasciare la presa sul passato, quando una qualcuno la chiamò con molta insistenza, costringendola a tornare in un luogo lontano da qualsiasi contenuto surreale. La realtà, costernata da altre incognite, si palesò.

«Gwen!»

La donna, allora, riaprì gli occhi e la prima cosa che vide fu un volto inaspettato. La Gomez, con il proprio viso smilzo, si mostrò.

«Dottoressa Gomez» borbottò questa, stanca.

«Gwen, sei stata appena portata in ospedale. Sei svenuta circa due ore fa, almeno secondo il resoconto riportatomi. Sei leggermente deperita e, secondo i medici, avevi assolutamente bisogno di essere idratata. Non è una situazione grave, ma sai...»

Idrata, nutrita, forse anche resettata.

La ragazza non era capace di dimenticare quei ricordi. Il sangue e la morte aveva popolato il suo mondo onirico, facendola crollare nello sgomento.

«Mi spiace. Mi spiace, dottoressa Gomez» Gwen pianse, ancora.

«È tutto okay, i tuoi valori sono stabili» la interruppe la psichiatra, tranquillizzandola. «Se hai bisogno di parlare riguardo a qualsiasi cosa, sono qui. Sai bene quanto tenga alla nostre sedute, ma mi vedo costretta a fare un eccezione. Ti sarò accanto, Gwen. In qualsiasi momento.»

La paziente appoggiò la schiena al cuscino e diede un'occhiata alla camera, alle scialbe pareti neutre e alle tende bianche. Il dolore, come un cerchietto di fuoco, le circondò tutta la testa.

«Grazie, dottoressa.» 

E l'altra replicò. «Sai, ho rimuginato molto sulla tua situazione e ho pensato a un nuovo metodo di analisi. C'è qualcosa che ti tormenta e ti porta a stare così male. Forse, posso avere accesso alla tua memoria attraverso l'ipnosi. È complesso, ma perché no?

La donna concentrò lo sguardo mesto su una scatolina nera.

«Cos'è quello?»

La Gomez puntò al piccolo aggeggio posto sul comodino, accanto al misero lettino, e subito dopo lo ridiede alla paziente curiosa.

«È il mio registratore» spiegò. «D'ora in avanti registrerò le nostre sedute. Il registratore è spento, adesso. Lo accenderò solo quando riceverò la tua autorizzazione.»

Gwen sentì un'idea illuminarle la logica e, in un attimo, tutta quella forte depressione si incendiò, mutando in ira.

«Capisco...»

6.

«Direi che è tutto okay.»

Russell, senza i panni da infermiere, cominciò a sfogliare la cartella di Gwen, proprio in quella camera spoglia di mobili e buona compagnia. La donna, sapendo finalmente tutto ciò che era successo, non riuscì più nemmeno a fingere un sorriso. Si limitò a guardare il su mostro con gli occhi stremati dal poco sonno.

«Stacca la flebo, torniamo a casa» disse, con distacco.

«Non se ne parla. Tu resti qui fino a quando sarà necessario.» continuò lui, serrando la mascella.

«È stato solo un calo di pressione. Mi sembra inutile prolungare tutto questo. Posso idratarmi anche a casa.»

Russell fece scattare la testa a causa di un tic.

«Hai qualcuno che ti aspetta, a casa? Perché da come stai parlando a me sembrerebbe che le cose stiano così.»

Gwen, riflettendo quella serie di impercettibili stranezze, sentì dentro all'anima una strana sensazione premonitrice. Un che di storto era successo, lasciando un Russell peggiore di quello che del giorno precedente. L'uomo, in effetti, oltre che pallido sembrava irritato.

«Non capisco, Russ» sussurrò la donna, sorpresa.

Lui, lasciò cadere la cartella e poggiò saldamente le braccia sul materasso, ingabbiando la ragazza, come un creatura inerme e senza modo di fuggire. I suoi occhi si spalancarono, a causa della tensione.

«Sono sempre stato buono con te. Ti accompagno dal terapeuta, ti porto in ospedale quando stai male. Faccio i turni di notte per racimolare qualcosa, per te. Sono stato troppo cieco, Gwen. E adesso non riesco più a sopportare i tuoi segreti.»

La giovane nutrì un dubbio.

«Ma di cosa stai parlando?»

«Mi sono fidato di te» esplicò Russell, in balia della cieca gelosia. «E tu fai entrare nel nostro letto altre persone.»

Le sicurezze di Gwen si spaccarono come se fossero fatte di fragile cristallo. Niente diede una spiegazione a tale scoperta, sino a quando un orologio fece capolino dalla tasca del matto, chiarificando il perché di quell'arrabbiatura. John se lo era scordato per sbaglio sul comodino della stanza.

«Russ, n-non è–»

La ragazza non riuscì più parlare.

«Non sei abbastanza attenta» la sgridò l'uomo, furioso. «Sei fortunata, io so essere clemente. Ti perdono per esserti permessa di frequentare uomini inferiori a me. Fare la poco di buono non ti si addice, per niente. Cosa direbbe la nostra famiglia, Gwen? Cosa racconteremo a tutti quanto, semmai lo scoprissero.»

Lunghe dita maschili cinsero il collo della ragazza, premendo leggermente sulla pelle sottile. Gwen lasciò il respiro da parte, ascoltando solo pulsazioni sempre più accelerate. Fu lo strano sguardo del personale sanitario a distogliere l'attenzione di Russell, che cacciò la mano dalla gola della sua prigioniera.

«Parliamone più tardi, in un luogo appartato» annunciò lei, disposta a tutto per porre fine a quella terribile situazione. Tutta la storia era in procinto di naufragare pericolosamente.

7.

Le strutture della città erano protratte i direzione del cielo, come lunghe montagne segnate da luccichii giallognoli e biancastri. Sopra il traffico, le raffiche sfidarono il cemento con spintoni sempre più possenti. Gwen, forse, aveva scelto il luogo più sbagliato ma solo il tetto del Royal Hallamshire Hospital era capace di dare lo spazio adatto al suo pericoloso piano.

«Dimmi chi è, Gwen. Dimmi il suo nome.»

Russell, ancora furioso, puntò alla donna con occhi famelici.

«Non ha importanza, Russ. Non cambierebbe nulla.»

«È perché vuoi proteggerlo? Non me lo dici per questo.»

La donna non riuscì più trattenere le parole dentro la gola. Era giusto osare, punzecchiare il nemico, e non assecondarlo. Era l'unico modo per farlo confessare e, perciò, diede sfogo alla rabbia.

«Si chiama John» confessò, con espressione arcigna. «È un medico, proprio come mio padre. È buono, gentile. È perfetto. Praticamente il tuo opposto. Non mi ha mai mentito, non mi ha mai ingannata, o minacciata.»

L'uomo si fece in preda dalla collera. «Tu stai delirando...»

Gwen non riuscì più a trattenere le lacrime negli occhi. Le immagini di quei remoti ricordi le diedero la forza di ribellarsi alla prigionia, di fare qualcosa per mettere il carnefice in gabbia. Non era il momento di fuggire, ma di lottare con furbizia.

«Non direi. Sai, non sono pazza. So che tu lo sai. Non sono pazza. La gente pazza uccide, Russ. Fa male agli altri. La tiene la gente prigioniera, la rinchiude da qualche parte. Lei non era la migliore persona del mondo, ma quello che le hai fatto, non lo meriteresti nemmeno tu. È riuscita a scappare, mesi fa, e a raggiungermi. È sempre stata accanto a me...»

La mente aveva cancellato il cuore della sofferenza con il fine di proteggere se stessa; proteggerla dall'assassino o addirittura dal brusco ritorno della sorella.

«Non meritava di essere uccisa in quel modo. Non so cosa ti ha spinto a farlo. Sei stato così crudele. E io non ho retto. La mia mente non ha retto. Ti ha cancellato. Nonostante ci fossimo già incontrati, ti ha cancellato.»

Russell, al limite del baratro della pazzia, cominciò a coprirsi le orecchie con le mani e, infine, a camminare spasmodicamente da un punto all'altro con l'intento di non sentire più niente. Balbettò tra sé e sé, come un bambino incapace di ragionare secondo giudizio. «Tu come osi dire certe menzogne?» sbraitò, infine, stirando il collo e la bocca.

«Che senso ha negare?» chiese la ragazza, sempre più ostinata. «Non puoi continuare a dare importanza alle fantasie. Non puoi cancellare il passato, non puoi farmi questo, non puoi.»

«NON È VERO!» urlò lui, inginocchiandosi a terra.

«Sì che lo è. Lo è sempre stato» farfugliò lei, distrutta.

Il fiume era sul punto di straripare.

«Continua a parlare e ammazzo anche te, Scarlett. Io ti ammazzo ancora. Lo capisci? Ti ammazzo ancora.»

Goccia dopo goccia.

«Lo faresti sul serio?» sussurrò lei, supplicante.

E infine, l'acqua uscì fuori dal bordo.

Russell, con balzò felino, scattò sulla ragazza, che fu subito afferrata. Gwen continuò a dimenarsi, come la preda sotto il, il morso del proprio nemico. Non esistette l'attimo di riposo, dal momento che le braccia del suo carnefice si erano attorcigliate al suo petto come le spire di un pitone famelico. Nell'arco di poco, la donna sentì il terrore scorrerle nel sangue. Il corpo, seppur esanime a causa dei continui e inutili sforzi, non accennò a nessuna forma di resa e continuò a lottare con impertinenza.

Le braccia furibonde di Russell, però, s'incollarono con saldezza al rigido collo di Gwen, aumentando la pressione e schiacciando la carne come due catene indistruttibili. Lei, sul punto di collassare per la stanchezza, cercò di ribellarsi a quel soffocamento e, gemendo, cercò di spingere lontano l'uomo che, ancora accecato dalla propria follia, guidò una mano sul suo mento e l'altra sulla nuca.

Gwen percepì il dolore circondarle il collo. La lenta agonia prese il posto del panico, dilatando gli attimi e respiri, sempre più rarefatti. I secondi passarono e lei sentì come una tenaglia strozzarle la gola, che non emise più nemmeno un fioco rantolo.

Il suo cuore impazzì di battiti straziati e il dolore lacerante cominciò a scemare nel momento in cui i sensi sfumarono: i colori si spensero e ogni confine si sfocò, come se fosse soggiogato da un leggera nebbiolina, una di quelle delle mattinate autunnali. La mente, tuttavia, restò incredibilmente lucida.

La donna percepì solo il proprio corpo cedere e abbandonarsi al suolo, morire lentamente sotto la forza del mostro che, senza un attimo di riposo, continuò a spingere fino sentire il pulsare della carotide arrendersi. Poi, sentì solo l'apice della sofferenza e la sensazione di essere risucchiata in una spirale turbinosa. Il ricordo finale si impregnò di sensazioni, quella delle proprie membra sciogliersi lentamente, e poi essere essere fasciate da una luce. I polmoni si infiammarono.

Gwen, ciononostante, non sentì il bisogno di respirare e, accolta l'ultima flebile scarica di energia, percepì la pelle inondata da un torpore cocente. Tutto il fisico sembrò distaccarsi pian piano dal mondo e sprigionare l'ultimo zampillo d'anima.

È finita...

Ne era sicura, i granelli della sua clessidra erano caduti senza alcun indugio, senza nemmeno il tempo di un addio. Era rimasto solo il bruciore.

8.

- Tetto del Royal Hallmshire Hospital. ADESSO!!!

Il messaggio era chiaro e senza alcun fronzolo. Cercare uno strappo a Sheffield fu difficile per Sherlock che, si era infiltrato in un macchina piena di universitari, lasciando a John il compito di mettersi alla ricerca di un altro passaggio. La città non era lontana, ma l'ospedale era posto in un punto difficilmente raggiungibile con i piedi, nonostante la lunghezza di un paio di gambe. Quando raggiunse i gradini dell'edificio, il detective incorse in un percorso senza fine, inframmezzato dall'angoscia e dai brutti presentimenti.

La polizia presto sarebbe accorsa, ma lui fu molto più rapido, L'ultima porta, la barriera finale, fu aperta e anticipò uno scenario poco interpretabile. Russell a terra, lacrimante e con gli occhi arrossati da un reticolato cremisi, era si era stretto a Gwen, non più cosciente. Le braccia non la lasciarono nemmeno un istante.

«Tu» grugnì il ragazzo, tremulo.

Sherlock si sentì sospeso nell'attimo. Il folle era scioccamente guidato da pensieri irreali e al limite del delirio.

«Lasciala, subito!»

Il detective parlò con calma e, nel mentre, eseguì qualche falcata.

«Avvicinati e mi butto con lei», lo minaciò Russell, tenendola stretta. L'orlo del precipizio non era così distante.

Sherlock, allora, fermò il passo. «Non vuoi davvero farle del male. Non è così?»

Forse era necessario usare la psicologia per far ragionare chi era senza senno. Era necessario confonderlo, in modo da staccarlo dalla donna, ancora inanimata, e prendere tempo.

«No» rispose, piagnucolando.

Newman, completamente in balia di folli pensieri, lanciò al bruno un espressione spenta, morta; l'espressione di chi era giunto al capolinea e non era capace di pensare a una strategia.

«E allora lasciala» ordinò Sherlock, sicuro.

Russell, dopo una manciata di secondi, obbedì. Le sirene della polizia cantarono lungo le strade, innalzando note tanto acute da raggiungere persino i tetti della città. Il detective notò tutto ciò e, nel giro di poco, sentì solo l'ansia. Il nemico, tuttavia, non sfiorò più Gwen. Piuttosto si limitò sorridere e a indietreggiare fino a raggiungere l'estremità della superficie. Senza un attimo di ripensamento, si gettò nel vuoto, ponendo fine alle proprie malefatte e al proprio delirio.

Era finita. Era tutto finito.

Sherlock corse, come un forsennato, in direzione della ragazza a terra e le si inginocchiò accanto, rimirando la faccia immobile, cristallizzata in un'espressione serena quanto quella di una bimba dormiente. Esaminò il suo aspetto, apparentemente privo di ferite, e dopo la cinse la testa.

«Gwen» sussurrò l'uomo, spostandole le ciocche dal fronte pallida e ancora calda. «Sono qui, è tutto finito, Gwen. Sei al sicuro, adesso. Torniamo a casa.»

Continuò il suo compito e, facendola aderire al proprio torace ampio, le accarezzò con delicatezza la schiena e le spalle. Con le dita lunghe e affusolate le lisciò le guance, spronandola ad aprire gli occhi.

«Gwen» sussurrò, sfiorandole l'orecchio con il naso lungo.

Ma lei non rispose al richiamo e, nonostante gli scossoni sempre più decisi, esibì solo una testa ciondolante. Il collo molle, intanto, mostrò i primi segni nefasti. Sherlock, sempre più coinvolto in cattive riflessioni. Con la mano le tastò torace, tremendamente fermo. Dopo, guidò l'indice sotto alle narice, ma senza sentire nemmeno un debole solletico.

Finalmente si rese conto di quanto la situazione fosse degenerata e, preso dal terrore più totale, si lasciò guidare dalla sola disperazione. «No, no, no» cantilenò con la lingua tremante, per poi guidare la mano sul polso della donna. Era già morta, seppur ancora tiepida e morbida.

Sherlock cominciò a non sentire più il flusso dei pensieri, tanta era lo sconcerto che si era impadronito della sua mente. Lo sconforto non ebbe fine e lui preferì adagiare quel corpo a terra e assaporare l'amaro sapore della sconfitta, dell'ingiusta perdita. La mano, tremante, raggiunse una spia che fece capolino dalla tasca della donna. Il registratore, che era riuscito ad arraffare la confessione tanto agognata era in compagnia di una ghianda.

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Sherlock (BBC) / Vai alla pagina dell'autore: AmyJane