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Autore: AmyJane    06/03/2020    1 recensioni
Questa storia parla del bianco, del nero e di tutto quello che sta al centro. Conviviamo con mille sfumature e oramai sappiamo che non esiste la purezza. Sappiamo che il buio non è eterno e che tutto incontra i cambiamenti. Nero e bianco coesistono. Si contrastano ma senza mai negarsi, accettando la consapevolezza di non poter esistere senza il proprio opposto. Si completano e quasi finiscono con l'essere solo una delle tante sfaccettature dell'altro. Un po' come i diamanti che, nella loro infrangibile purezza, si rivelano essere solo una versione del carbone. Il nero è l'assenza di colore, il bianco l'unione di ognuno. Eppure niente e tutto alla fine sono molto simili, quasi la medesima cosa. Lo Yin contiene in sé lo Yang e lo Yang fa altrettanto.Sherlock è nero quanto una minacciata ombra ma ha un cuore puro quanto il diamante. Ha scelto di mostrarlo piano piano e di lasciarlo luccicare per contrastare la propria oscurità. Gwendolyn, al contrario, ha scelto la luce per accecare gli altri e mascherare un cuore color carbone. Gli opposti si attraggono per poi lottare senza mai né morire né trionfare. Si cede solo a un fragile compromesso.
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Epilogo

Copenaghen non era mai stata così bella e tersa. Il cielo era blu sereno, dolce e così intenso da liquefarsi in un mare aperto e tranquillo. Il freddo si sciolse grazie al sole, regnante al di sopra di guglie e tetti spioventi, ben allineati e colorati con colori brillanti. Proprio presso la sponde, in una piccola baia abbandonata dalla città, la ghiaia si andava stendendo come tanti cumuli di pietre lisce e salmastre.

Una donna se ne stava in piedi e, con in tasca qualche ciottolo, si dilettava nel lanciare sassi contro la superficie dell'acqua, creando lente circonferenze. Sherlock, baciato dai raggi, raggiunse quella figura.

«Gwen.»

La dona si girò, lasciando che le brezze le scompigliassero i capelli.

«Ciao Sherlock. Come va?» chiese lei, felice. Parlava con lo stesso buon cuore di una amica intenta a interloquire con la sua persona preferita. «È una bellissima giornata, non credi?»

La donna ritornò a lanciare sassi e Sherlock, confuso, si ritrovò a osservare il panorama con addosso lo stesso iconico cappotto, che mal si accostava al clima buono e clemente. Niente sembrava essere sensato, in quel momento, e nemmeno il raziocino seppe discernere le giuste domande da quelle completamente errate.

«Perché sei qui?»

Lei si fermò un attimo e mise la mano in tasca.

«Dovresti chiedertelo da solo, sei stato tu a volermi qui.»

E tutto divenne chiaro.

«Il mio palazzo mentale.»

La ragazza sorrise e si ritrovò accovacciata a terra, in cerca dei sassi più piatti e idonei al gioco. Rialzatasi, puntò il bruno in un modo raggiante e confermò la semplice ipotesi con un frase elementare. «Oh sì, ci trovi di tutto qua dentro.»

I venti cullarono le fronde e così anche le acque marine profumarono il cielo e diedero conforto a quella situazione.

«Gwen!»

«Sì» mugolò lei, placidamente. «Non riesci ancora a comprenderlo, Sherlock. Sono solo qui per farti compagnia, conversare un po', cercare di chiarire.»

«Non c'è niente da chiarire» ribatté l'uomo, sicuro.

«O sì, invece.» La ragazza cacciò la mano in tasca e tirò fuori una minuscola ghianda. «Mi hai lasciato questa, ricordi?»

Il detective, allora, fu completamente immobilizzato dalla piccola rivelazione. Non era mai riuscito a comunicare decentemente i pensieri riguardanti quel sentimento, soprattutto all'interno di un contesto reale. Ciononostante, anche dentro il proprio mondo interiore tutto acquisiva un senso di pesantezza.

«È molto carina! Avevo pensato di inciderla e farci passare uno spago, così da portarla al collo» continuò lei, rigirando il frutto tra le dita con attenzione. «Wendy fu salvata dalla ghianda, lo sai? Forse questa avrebbe potuto salvare anche me» osservò Gwen, corrucciando la fronte a causa dello sciocco dubbio.

Sherlock ingoiò il rospo.

«Ma non lo ha fatto.»

«Non importa» dichiarò lei. «Sei riuscito a salvare la mia dignità. La mia innocenza. Ti ringrazio per quello che hai fatto.»

Quel minuto di riflessione non fu abbastanza.

«È stata solo colpa mia!» esclamò il detective, contraendo guance e bocca in una smorfia di orribile rancore.

«Sei riuscito a risolvere il caso, Sherlock» lo giustificò la donna. «Dovresti essere orgoglioso di quello che sei riuscito a fare. Non ce l'avresti mai fatta senza riuscire a provare amore nei miei confronti, non mi avresti mai creduta, ti saresti affidato piuttosto alle tue deduzioni, al tuo metodo da macchina insensibile.»

E la rivelazione si fece spazio nella quiete.

«Pensi che non me ne sia resa conto. Ti sei ostinato a credere nella mia innocenza, anche quando tutto il mondo sembrava contrario. Chiunque si sarebbe arreso, ma non tu. Hai continuato a lavorare, a consumarti, solo per uscire a liberarmi. Mi volevi molto bene, sai?»

«No, non è come credi.» Sherlock fu inespugnabile.

«Invece sì. Non ti sono piaciuta al nostro primo incontro, dopo ti sei sentito vulnerabile. Ma poi tutto è cambiato. Le persone come te tendono a negare le emozioni, le tramutano in astio. È un meccanismo di difesa molto comune.»

Sherlock accettò quella realtà, ma un qualche residuo di testardaggine lo bezzicò, riportandolo dentro la zona di sicurezza. Non era ancora pronto per affrontare certe constatazioni dopo tutto quello che si era realizzato, tramutandosi in una tragedia.

«Come puoi esserne così sicura?»

Il detective non riuscì a crederci.

«Perché io sono te, adesso» rispose Gwen arrancando sulle delle pietre dure sotto le suole.

«Non può essere, non con me» contrattaccò lui, severo.

«Se elimini l'impossibile, ovvero tutto quello che va fuori da un contesto logico nel particolare del caso, tutto quello che resta anche se improbabile per il tuo modo di essere e per la tua logica personale, è quasi sicuramente la verità.» La giovane rese minima la distanza che la separava dall'uomo e, in seguito, si fece languida. «Non ti ho mai ringraziato abbastanza per quelle settimane.»

Così concluse, pettinando con attenzione il cappotto altrui.

«Non dovresti nemmeno farlo» obiettò il detective.

E Gwen sorrise, come aveva sempre fatto sia nel dolore che nella gioia. Tirò verso il basso il lembo del soprabito, in modo da costringere Sherlock ad abbassarsi lentamente, come un bambino intento ad ascoltare con l'orecchio un segreto. I secondi divennero minuti, le onde composero una colonna loro sonora e lei ascoltò erigendosi sulla punta di piedi, in modo da compensare lo spazio rimanente.

Il bruno capì e accolse un timido bacio sulla guancia, il ringraziamento tanto desiderato. Era stato solo una questione di tocco, infine. Solo la castità di un segno di cortesia che si protrasse nel tempo, senza cedere a passione o al desiderio. Gwen, difatti, fu premurosa.

Era finalmente giunto il momento dell'addio.

2.

«SHERLOCK!»

Il suo nome risuonò lontano.

«Sherlock!»

Come nell'eco di un sogno.

«Sherlock!»

L'eroina si era incanalata nella carne, fino a nutrirsi di ogni forza. Il detective rimase con in testa i rimasugli di bei sogni alimentati da una coscienza più linda. Gwen si era dissolta assieme al paesaggio, lasciando il buio e delle note familiari intente a chiamarlo con energia crescente.

«John» sussurrò Sherlock, rincuorato.

Gli occhi riuscirono a codificare la stanza dell'ospedale e lì, in mezzo al bianco, John Watson era in piedi, come nell'eterna attesa di un segnale. Il bruno rimase fermo con la testa affondata nel cuscino. Erano state settimane molto difficili.

«Ora ascoltami. Siamo ancora Sheffield. Sei andato in overdose, questa mattina» dichiarò il medico, spento.

Sherlock, sciupato, si limitò a biasciare scuse. «Oh, era tutto sotto controllo.»

«Sì, certo» ironizzò John, furioso. «Cosa ti è saltato in mente?»

«Ho solo cercato di allentare la tensione.»

«Sai, è una sfortuna che tu sia sopravvissuto.» Il medico sentì il furore ribollire all'interno del petto. «Perché adesso sarà io farti fuori».

«Nessun dubbio, so che lo faresti davvero» disse Sherlock.

John, altrettanto emaciato, barba ispida e trascurata, si avvicinò al muro e indirizzò gli occhi consunti sul pavimento. Una mano gli corse lungo la tempia, schiacciando la pelle stanca.

«Ho già perso delle persone a cui tenevo. Non perderò anche te. Intesi?»

Il cuore del detective sembrò riconoscere il calore. Tutto si era lentamente risolto, come la marea che finalmente si ritira senza più aggredire la costa. John era riuscito ad accettare il proprio buonsenso e anche a superare i momenti peggiori.

«È molto confortevole come osservazione.»

L'ex soldato, allora, non resse più e cominciò a tribolare, lasciando sulle proprie guance lacrime silenziose. «Sono stato solo uno sciocco, solo un sciocco. Ma è passato.»

Combattere il male insieme, non c'era altro modo. Sherlock cercò di raggruppare le forze rimaste, ma senza riuscire a ottenere un buono risultato, solo un gemito di sofferenza. Desiderò raggiungere l'amico, abbracciarlo e dire «Andrà tutto bene, John.» Tuttavia, lo chiamò soltanto e poi aggiunse: «Io sono qui.»

Essere empatico era sempre stata un impresa, ma Sherlock quel giorno non era capace di contenere i demoni del passato. I due si sentirono costretti a mantenere il rapporto e tutelarsi ogni giorno, fino ad annullare ogni dolore. In fondo, ne avevano passate tante e altri momenti bui si sarebbero affacciati. L'importante era continuare a stare insieme e combattere quotidianamente contro tutto male, sia fuori che dentro le loro anime.

  
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