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Autore: DarkWinter    06/03/2020    8 recensioni
In un ospedale vicino a Central City, i gemelli Lapis e Lazuli nascono da una madre amorevole e devota.
Fratello e sorella vivono un'adolescenza turbolenta e scoprono il crimine e l'amore, prima di essere rapiti dal malvagio dr. Gero e ristrutturati in macchine mangiatrici di uomini.
Ma cosa accadrebbe se C17 e C18 non dimenticassero totalmente la loro vita da umani e coloro che avevano conosciuto?
Fra genitori e amici, lotte quotidiane e rimpianti, amori vecchi e nuovi e piccoli passi per reinserirsi nel mondo.
Un'avventura con un tocco di romanticismo, speranza e amore sopra ogni cosa.
PROTAGONISTI: 17 e 18
PERSONAGGI SECONDARI: Crilin, Bulma, vari OC, 16, Z Warriors, Shenron, Marron, Ottone
ANTAGONISTI: dr. Gero, Cell, androidi del Red Ribbon, Babidi
{IN HIATUS}
Genere: Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: 17, 18, Crilin, Nuovo personaggio | Coppie: 18/Crilin
Note: Lemon, Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Il vecchio dottore li aveva tenuti d’occhio per un paio d’anni.

Era successo così, per caso: aveva incontrato quei due giovani fuorilegge proprio mentre era in giro a cercare carne fresca per i suoi esperimenti.

Il dottore costruiva macchine. Macchine molto sofisticate, con un’intelligenza artificiale ad altissimi livelli.

Erano talmente sofisticate che il dottore era un criminale.

Aveva, a suo tempo, lavorato per una delle piu’ famigerate organizzazioni militari che il Paese avesse mai visto, prima che uno stupido bambino di nome Son Goku decidesse di rovinare tuttp.

Il dottore era folle e folli erano i suoi obiettivi; con le sue macchine mirava ad annientare i suoi nemici personali, le studiava in ogni minimo dettaglio e il risultato era sublime.

Non erano macchine qualsiasi; il dottore costruiva androidi.

Ne aveva costruiti un’intera serie, sedici, ma molti erano stati poi distrutti dalle stessi mani che li avevano costruiti. C’era sempre un qualcosa che mancava, la loro intelligenza artificiale non riusciva mai ad essere quello che il dottore voleva. Troppo crudeli, troppo ribelli, troppo buoni.

 

Nelle sue ricerche, nel corso di anni e anni, era arrivato a comprendere come costruire anche cyborg.

E una notte, molti anni dopo, mentre girovagava in una zona mal frequentata di Central City si era imbattuto in una coppia di gemelli: giovani, belli, un maschio e una femmina, erano perfetti.

Erano delinquenti e nessuno avrebbe sentito la loro mancanza.

Il dottore aveva cominciato in modo molto discreto, tanto valeva la pena di aspettare che crescessero ancora di qualche anno.

La ragazza era stata facile da abbordare: gli era bastato fingersi un vecchiettino acciaccato che aveva bisogno di aiuto per attraversare la strada. Lei era molto carina e non gli negava mai il suo sostegno.

Col ragazzo invece non era stato così semplice: malfidente e dispotico, non si lasciava intenerire da un povero vecchio gentile.

Da quando aveva iniziato a tenere d’occhio anche lui, nemmeno la ragazza era più stata una preda facile: andavano sempre in giro insieme, è vero, ma ormai il più delle volte c’era qualche sgradevole intruso che li accompagnava.

Sapeva, grazie al fatto che non li perdeva mai di vista, che si erano accorti di lui.

La madre? Non occorreva eliminarla, non era un ostacolo fondamentale: i gemelli manco le avevano detto di lui.

Che fare, nonostante questo? Non gli toccava che aspettare quieto nell’ombra, tessendo la sua tela al meglio delle sue possibilità e aspettando che prima o poi le sue giovani vittime ci cadessero.

Aveva aspettato nell’ombra per due anni, osservandoli in ogni minimo istante, compiacendosi sempre più per la scelta felice che aveva fatto e per la fortuna che gli era capitata. In quei due anni li aveva visti crescere proprio come lui sperava e diventare più sereni; lo stavano pian piano dimenticando.

L’occasione più propizia doveva solo arrivare e lui non aveva fretta: a chi sa attendere le cose migliori.

E l’occasione era capitata una sera brumosa di novembre. Era una notte deserta, le due prede erano sole, nessuno l’avrebbe intralciato.

Era bastato far sbandare il gemello maschio e farlo impiantare con l’auto in un campo, dopodiché li aveva addormentati con dell’anestetico e se li era portati via; più semplice di così!

Il difficile era arrivato man mano che aveva iniziato a ristrutturarli: voleva dare loro una forza infinita, in modo che non sarebbero mai stati stanchi: niente avrebbe potuto arrestarli.

Avrebbero annientato tutti i suoi nemici, primo fra tutti Son Goku.

Ma costruire cyborg era un’altra cosa rispetto alle relativamente semplici macchine a cui aveva dato origine fino a quel momento: i due gemelli erano l’ennesimo tentativo, prima di loro altre persone erano state sequestrate per lo stesso fine.

Il progetto del dottore era estremamente delicato e tante cavie erano passate sotto i suoi ferri, fra le mura del suo laboratorio; i cadaveri si erano ammucchiati nel laboratorio, fallimento dopo fallimento.

Ci teneva che queste nuove carni non venissero sprecate; se il dottore voleva che le sue ultime creazioni mantenessero la loro parte umana, non poteva privare I gemelli delle loro funzioni vitali.

Mentre svolgeva per ore delicatissime operazioni a cuore aperto o interventi completi di ristrutturazione del loro intero corpo doveva assicurarsi di nutrirli e di mantenerli in vita.

Il loro corpo non era nemmeno la parte complicata del lavoro; il dottore non si era mai trovato a dover manipolare e plasmare secondo le sue volontà due menti già formate, due vite che già da diciotto anni facevano il loro corso.

Doveva fare in modo che per nessuna ragione si ricordassero chi erano, da dove venivano e perché si trovavano lì, sarebbe stato fatale per il suo progetto.

Ogni tanto si svegliavano mentre lui, armato di tutta la sua pazienza e del suo genio, li convertiva lentamente in organismi cibernetici; bastava addormentarli di nuovo, ma i lavori procedevano molto a rilento.

Quando il dottore finì, poco più di un anno dopo il rapimento, provò ad attivarli: doveva ancora perfezionarli, perciò voleva testare le loro abilità.

Ho fatto in modo che sappiano che devono uccidere Son Goku; spero di aver fatto un buon lavoro.”

Il dottore ripulì i gemelli dalle tracce dell’ultimo intervento, li dotò di nuovi abiti, scollegò i tubi e attese. Passò quasi un’ora, ma non si ridestarono.

Ecco…ho fallito ancora: mi aspettavo di creare due cyborg e mi ritrovo altri due cadaveri…” il dottore strinse i pugni e rimase a guardare il maschio, il primo che aveva completato.

Alzò un attimo lo sguardo e vide che la femmina si stava muovendo, seguita quasi immediatamente dal fratello.

Un lampo di vittoria gli accese lo sguardo stralunato: era fatta! Era riuscito a dare vita per la prima volta a due cyborg.

I due gemelli si svegliarono e rimasero seduti, a guardarsi.

“Buongiorno, miei cari” li salutò il dottore “come vi sentite? È tutto a posto?”

I due ragazzi non risposero; si limitarono a studiarlo con uno sguardo piatto.

“Mi presento: io sono il dottor Gero e sono il vostro creatore. Penso che voi due già sappiate il vostro nome e il lavoro che vi ho affidato”  si avvicinò al ragazzo “chi sei tu?”

Il ragazzo alzò lo sguardo su di lui: “Cyborg numero Diciassette.”

“Molto bene. E il tuo compito è?...”

“Uccidere Son Goku e seminare terrore fra gli umani."

“Proprio così. E tu, qual è il tuo nome?”

“Cyborg numero Diciotto. E insieme a numero Diciassette devo seminare morte e distruzione. Per questo sono stata creata” la ragazza rispose con un sorriso.

“Sembra proprio che stiate bene” disse il dottor Gero, con soddisfazione “questo è il mio laboratorio, nonché la vostra casa: potete andare dove volete, ma attenzione a non guastarmi i macchinari”.

“Stia tranquillo dottore” annuì Diciassette.

“Può fidarsi di noi” sorrise Diciotto.

Il dottore tornò al computer a cui stava lavorando e lasciò i neo-cyborg a esplorare il suo istituto di ricerca.

I due gemelli si sentivano un po’ intontiti, come se fossero stati sotto l’effetto di una droga che li faceva parlare totalmente a caso. Fisicamente si sentivano in forma, anzi, talmente pieni di energia che sembrava loro assurdo sedersi per riposarsi o addirittura mettersi a dormire. Non avevano nemmeno fame; insomma, quasi mai, e quando avevano bisogno ci pensava il dottore.

Il dottore era severo, ma si occupava di loro.

“Guarda, Diciassette!” una volta la ragazza aveva spalancato una porta e se l’era ritrovata in mano, il pomello della maniglia accartocciato come un foglio di carta “ho un casino di forza! Guarda!”

Lui aveva scosso la testa ridendo: “Sciocchezze!”

Si era messo a volare per la stanza e all’improvviso aveva puntato una mano verso una parete: un raggio fotonico era scaturito dal suo palmo e aveva incenerito all’istante gli sfortunati computer che si trovavano lì.

“Wow, siamo fortissimi!”

“Per forza. Vi ho installato un reattore di forza infinita” li rimbeccava lo scorbutico dottore.

Il vecchio si arrabbiava quando Diciassette e Diciotto continuavano a devastare tutto in quel modo: “Se non la smettete vi disattiverò! Ricordatevi che siete ancora in prova…la vostra vita dipende da come vi comportate.”

Ma loro non l’ascoltavano e andavano avanti a giocare: del resto, cosa doveva aspettarsi? Teenager cyborg o teenager umani, restavano sempre due teenager, per di più con un passato tutt’altro che tranquillo.

Ogni tanto il dottore li disattivava e li metteva a dormire in capsule speciali: funzionavano bene, anche se erano un po’ vivaci. Dopotutto, l’energia eterna dovevano pure consumarla!

Gli sembravano anche fin troppo svegli. L’importante, però, era che non si ricordassero nulla relativo alla loro vita da umani: la grande paura di Gero era che i ricordi affettivi riaffiorassero alla loro mente, gli altri erano di poco conto.

“Possibile che in questo posto non ci siano manco dei vestiti?!” diceva scocciata Diciotto: di certo doveva essere un retaggio, esattamente come per Diciassette che si lamentava, dicendo che voleva guidare la sua auto.

Correggere nella mente: reminiscenze umane troppo vive si appuntava lo scienziato.

Un giorno capitò che il dottore non fosse al laboratorio. I gemelli restarono da soli, in compagnia di altre creazioni addormentate e del continuo brusio dei computer e dei macchinari.

Come d’abitudine, presero a ficcare il naso dappertutto. Diciassette trovò un pezzo di lamiera, lo appallottolò e iniziò a giocarci come se fosse stato un pallone: “Incredibile, prima non l’avrei mai potuto fare.”

Giocava come un bambino, calciando la palla di lamiera in alto e stoppandola col petto.

Diciotto lo guardava distrattamente, ma ascoltandolo ebbe un piccolo sussulto:

“Prima? Quando? In che senso?”

“Prima” il ragazzo alzò le spalle con noncuranza “non so: prima e basta”.

Lei saltò in cima ad un gigantesco computer e lì si sedette, pensosa.

“Cosa c’è? Cos'è questo rumore?” il fratello la raggiunse con un balzo e le si sedette accanto “rimbomba, mi dà fastidio".

Quale rumore? Diciotto si mise in ascolto e si accorse che proveniva da dentro di lei.

Tum tum tum.

Si toccò il seno sinistro e sentì col tatto il battito del proprio cuore, reso più rapido dall'agitazione che provava in quel momento.

Poteva essere vero?

"Mi batte il cuore?"

Restò con la mano premuta sul petto ancora per un momento, poi toccò il petto di Diciassette e sentì il suo sangue scorrere nelle vene.

“Ah sì! Anche a te. È normale? Siamo esseri artificiali” poi scosse la testa visibilmente turbata "c’è qualcosa che non quadra: me ne sono resa conto in questi giorni."

“Ti senti male? Il dottore ti dà noia?” si allarmò lui.

“Ma va’” rise Diciotto “non c’entra il dottore! È come se sia io che te fossimo in una specie di limbo. Mi spiego?”

“No, sii più chiara: cosa c’è che non va?”

“E’ come se ci fosse qualcosa che devo ricordarmi perché è vitale, però non so cos’è: è come un sogno.” 

Per la prima volta dacché si ricordasse, gli occhi di Diciotto erano tristi. Sembrava che avesse perso qualcosa di molto importante e lui intuiva che non riusciva a spiegarsi.

“Io so una cosa: siamo gemelli.” 

“Beh, ma questo lo so anche io! Ma c’è dell’altro…mi sento così stordita” sconsolata, la ragazza si prese le ginocchia fra le braccia e vi appoggiò la fronte.

“Se mi viene in mente qualcosa te lo dirò” le assicurò lui, incoraggiante.

 

Col passare dei giorni, il dottor Gero osservava attentamente i due cyborg, prendendo appunti nel caso in cui gli fosse toccata un’importante modifica. Preferiva evitarla, prendere di nuovo i ragazzi e aprirli sarebbe stato scomodo e rischioso: aveva sempre a che fare con due organismi viventi, non poteva modificarli a suo piacere come faceva con i suoi famosi androidi.

Aveva potuto modificare loro la pelle, rendendola liscia e inscalfibile; aveva potuto modificare loro i denti e le ossa, ora infinite volte più resistenti del materiale che i semplici umani usavano per rivestire esternamente gli shuttle; aveva potuto cancellare loro la memoria e dotarli dei dati a lui necessari.

Ma non era onnipotente: non aveva potuto strappare loro gli organi, né tantomeno i ricordi che la parte più nascosta della loro mente celava.

Non poteva davvero annientare chi erano, era questo il rischio che si era preso.

E poi non erano calmi e obbedienti, tutt’altro. Lo interrompevano sempre, facendo irruzione mentre lui stava lavorando e mettendo il laboratorio a soqquadro.

“Voglio ascoltare la musica! Mi sto annoiando”

“Non è meglio che tu vada a dormire, numero diciassette?” gli rispose una volta, seccato.

“Non ho sonno! Io e Diciotto vogliamo la musica!”

“Va bene, va bene! Avrete la musica!” il dottore si spostò in un’altra sezione del laboratorio e accese un computer.

Il ragazzo sogghignò: “Posso dirle una cosa, dottor Gero? Lei è una rottura di scatole”.

 “E tu sei un ragazzino disobbediente” grugnì il vecchio “tu e lei dovreste portarmi più rispetto”.

Diciassette rivolse lo sguardo al cielo e sospirò, battendo nervosamente un piede a terra: “Allora, la nostra musica?”

 

 “Ancora un po’ e si metteva a urlare!”

Appena il dottore ritornò ai suoi esperimenti, Diciotto non riuscì più a trattenere una risata.

“Ti ho fatto mettere la musica” sottolineò lui.

“Si si, grazie fratellino."

Era proprio uno spasso tirare fuori dai gangheri il dottore; prima o poi dovevano riuscirci.

“Io rimango sempre della mia idea: se ci dà fastidio, lo sopprimo”.

Diciassette lo disse come se fosse la cosa più normale del mondo. Sua sorella stava ballando, ma si arresto e corse da lui: “Cos’hai detto? Ripetilo, ti prego!”

Diciassette sgranò gli occhi e ripeté: “Lo sopprimo, lo ammazzo, lo elimino. Gli farò qualcosa!”

Lei tremò, prendendogli i polsi:

“Mi ricordo” i suoi occhi luccicavano di ansia e di frenesia “Mi ricordo, lo dicevi anche prima! Non mi ricordo perché, ma le tue parole eccome!”

“Davvero?”

“Eh sì! Mi avevi detto se ti tocca, è morto ma non mi ricordo di chi parlassi. E mi avevi anche fatto comprare un coltellaccio, tu avevi una pistola. Dio! Mi sembra un secolo fa…”

Lo sguardo di Diciassette si accese:

“La mia pistola! È vero!” si girò sul fianco destro e non la trovò nella tasca dei pantaloni, bensì in una fondina “eccola qui! Dici questa?”

La mostrò a Diciotto, che la scrutò con attenzione: “Non mi ricordo esattamente se era questa, ma so il perché la possiedi”.

“E io me ne ero completamente dimenticato!” lui allargò le braccia e si mise una mano sulla fronte “grazie, Lazuli, per avermelo ricordato.”

Questa volta la ragazza tremò visibilmente: “Lazuli?”

Diciassette si morse la lingua:

“Oh scusa. Diciotto, volevo dire.”

Lei sentiva una tempesta infuriarle dentro. Qualcosa stava per esplodere, qualcosa che era stato nascosto e che non avrebbe dovuto esserlo.

Si volse verso il fratello, lentamente, senza la forza di parlare: “...Lapis?”

Si sentiva le labbra secche e una stretta al cuore: “Lapis, sei proprio tu! Mi sto ricordando…”

Affinità inaccessibili agli altri li univano da sempre.

Dovettero ringraziare questo, quando all’improvviso si videro passare davanti agli occhi una sequenza di scene già viste, solo dimenticate.

La musica suonava e suonava e in quel momento una canzone da discoteca fece esplodere la polveriera.

“Questa canzone! Questa canzone era alla festa dell’altra sera! Mentre io ero fuori a fumare e aspettavo te che eri andato via.”

“Sshh. Parla piano!” l’avvertì lui “è vero, mi sta tornando tutto in mente. Ti ricordi di quando abbiamo fatto il patto di sangue? Il rito tribale! A te non piaceva.”

Lazuli si sforzò di mantenere un tono di voce basso:

“E ti ricordi di quando non mettevi mai il casco perché dicevi che ti schiacciava la cresta? Eravamo piccoli.”

Lapis annuì e la guardò serio: “Qualche anno fa c’era uno che ci pedinava, te lo ricordi? Per quello la pistola."

Lei aggrottò la fronte e si mise a pensare: sì, un vecchio che la seguiva, che seguiva anche lui; un vecchio con la barba e i baffi.

“...un vecchio con lo sguardo da pazzo?”

Poi trattenne il fiato, quando finalmente i pezzi del puzzle si ricomposero.

Lei afferrò violentemente Lapis e lo scosse stringendo la sua maglia, che si lacerò presto sotto la stretta.: “E’ LUI! E’ IL DOTTOR GERO!”

Senza la barba adesso, era lui che li aveva seguiti, rapiti e che aveva messo un numero al posto del loro vero nome.

Lapis teneva la testa bassa e i pugni stretti.

Col respiro corto battè il pugno su una scrivania e la ridusse in pezzi: “Cane!”

Calpestò i resti della scrivania, ridendo nervosamente: “Cane maledetto. E’ stato lui a cambiarci. Ecco perché non ci ricordiamo più niente. Ecco perché adesso siamo cyborg.”

Lazuli annuì: “Lo so. E dobbiamo eliminare il suo nemico. È per questo che ci ha creati”.

Se li aveva ristrutturati da capo a piedi, doveva aver tagliato la loro pelle e ravanato al loro interno, forse asportato degli organi per rimpiazzarli con dei circuiti; doveva anche averli visti nudi mentre loro giacevano tramortiti.

Lui non ci ha creati" sibilò lui alterato, sforzandosi di non alzare la voce  “noi esistevamo già, lui ci ha cambiati, per farci fare quello che vuole lui; non voglio pensare a cosa ha fatto per cambiarci, altrimenti vomito."

 

I gemelli si sedettero per terra, silenziosi, ponderando l'enorme verità che avevano scoperto. Dunque era così, li aveva strappati alla loro vita per farli a pezzi e poi ricostruirli e non solo. Doveve aver fatto qualcosa nella loro testa, in modo che sapessero gia’ cosa dovevano fare, lo riconoscessero come padre e obbedissero ai suoi comandi. Dover uccidere Son Goku suonava naturale, era semplicemente una cosa che andava fatta.

La morte non era un tabu’, una soglia sacra da non oltrepassare, Lazuli sentiva la sua nuova energia eterna che ribolliva, improvvisamente era diventata ansiosa di uccidere:

“Io non posso perdonarlo: dobbiamo fare qualcosa, assolutamente”.

Il ragazzo accennò un sì: “Lo so, sorellina; ogni cosa a suo tempo”.

Dovevano essere cauti, il dottore aveva gia’ dichiarato loro di poterli disattivare come gli pareva e piaceva.

Gli occhi di Lapis si incupirono: “Ci ha portato via la nostra identità e le nostre memorie…non mi ricordo quasi niente su di me, ma se non ci ha creati lui vuol dire che siamo nati.”

Lazuli sospirò costernata: “Non è a lui che dobbiamo la vita, è certo, ma nemmeno io riesco a ricordarmi a chi dovremmo essere grati per davvero.”

“Una donna” indugio’ lui, un pollice fra le labbra “nostra madre. E anche un vero padre.”

La ragazza si sentì montare la rabbia di nuovo: “Ma noi ce li abbiamo? È tutto confuso.”

“Lapis e Lazuli; sono questi i nostri nomi, non è vero?” lui diventò ansioso all’improvviso.

“Come hai fatto a ricordartene?”

Lapis la guardò e scosse la testa: non avrebbe saputo risponderle, gli era venuto così naturale.

Almeno una cosa non gliel’aveva portata via, quel vecchio folle.

Dovevano difendere almeno i pochi ricordi che restavano loro, proteggerli a qualsiasi costo.

Dovevano aspettare il momento in cui si sarebbero fatti giustizia. Con quella nuova forza sarebbe stato una cosa da niente.

Lapis diede una pacca amorevole alla sorella e le sorrise per sollevarle il morale:

“Quella notte siamo finiti in un campo con la macchina e volevamo tirarla fuori, ma non ce l’abbiamo fatta: adesso la potremmo sollevare con una sola mano”.

“Ma quindi noi non siamo morti, no? E siamo sempre umani, non siamo diventati dei robot”  chiese lei.

“Abbiamo cuore e sangue, no che non siamo morti! E siamo mezzi umani, mezzi macchine.”

In quel momento della loro vita, piu’ che la composizione del loro corpo, la cosa importante era che non si dimenticassero di quanto erano appena riusciti a ricordare: erano convinti che se l’avesse saputo, il dottore avrebbe fatto di tutto pur di spazzare via quell’ultimo frammento di memoria autentica. Dopo essersi sbarazzati del dottor Gero, cos'avrebbero fatto? Dovevano si’ uccidere quel Son Goku, ma anche trovare un modo per ritornare alla loro vita normale.

“I nostri nomi, ricordi sparsi di quando eravamo più piccoli…non dobbiamo dimenticarceli per nulla al mondo, Lazuli."

 

 Al dottor Gero stava venendo il dubbio che i cyborg serbassero ricordi: lui aveva detto una volta che gli sarebbe piaciuto poter rivedere la sua auto –la sua auto! Si ricordava.

Il dottore li osservava con molta più attenzione da quando si era accorto che chiacchieravano a bassa voce; in più, negli ultimi tempi, si divertivano a fargli sempre più dispetti.

“Ma secondo te possiamo ancora mangiare? ” chiese una volta Lapis alla sorella.

“Ah ecco le tue vere preoccupazioni, la macchina e il cibo. Non vedo perchè no, ma credo che possiamo farne a meno: io non ho mai fame e sto una meraviglia.”

Lui aggrottò le sopracciglia e guardo’ un pacchetto di patatine che aveva rubato da un cassetto, da quache parte nel laboratorio: “Voglio vedere cosa succede, se mangio queste.”

Si mise una manciata di patatine in bocca e la ingoio’, sotto lo sguardo interrogativo di Lazuli.

“Allora?”

“Niente. Ah no, guarda, ora le mie dita sono arancioni.”

Lapis si puli’ sui propri pantaloni e si guadagno’ uno sguardo disgustato dalla sorella.

“Perché quella vecchia capra ci dà sempre da bere quelle cose nauseanti?”

“Non ho idea, bro. Magari perché così lui perde meno tempo."

Così venne loro in mente uno dei tanti scherzi che presero a giocare al dottor Gero.

Lui era solito dar loro da bere solo una miscela di sali, oligoelementi e altre sostanze essenziali per l’organismo, visto che secondo i suoi calcoli i due ragazzi non avrebbero avuto bisogno di nutrirsi, ma solo di idratarsi per non far surriscaldare e malfunzionare il loro reattore.

Ad un certo punto i gemelli si rifiutarono categoricamente di berla.

Mi fa venire il mal di testa” diceva lui.

Mi fa sentire stanca” piagnucolava lei.

Allora il dottore inventava soluzioni diverse, ma ognuna aveva qualcosa che non andava; si azzardavano pure a chiedere cibo solido.

Il dottore doveva scendere nella città più vicina, tornava al laboratorio e pensava di accontentare i numeri diciassette e diciotto che si rimpinzavano, poi facevano scene assurde e davano la colpa a lui, accusandolo di volerli rovinare; naturalmente stavano bene e sopportavano benissimo sia il cibo umano che le bevande; stavano solo fingendo con l’unico scopo di far ammattire il dottore.

Correggere sistema digestivo: non tollerano più le miscele apposite che preparo per loro, devo aver sbagliato qualcosa,  scriveva il dottore.

Ma gli sembrava strano, per cui fece loro degli esami che gli diedero l'esito che si aspettava.

Oltre a questo, si divertivano a spegnere e accendere tutti i macchinari a loro piacere e a rompergli le attrezzature.

Avendo installato dei chip nel loro cervello che contenevano anche informazioni relativa al combattimento e all’uso del loro nuovo ki artificiale, a volte Gero li faceva combattere, annotando minuziosamente i dettagli sulle loro performances: lui era piu’ forte, ma lei era piu’ violenta.

Insieme erano esplosivi.

Facevano finta di sbagliare a lanciare ki blast e distruggevano spesso oggetti innocenti e molto importanti per lui.

Spesso protestavano dicendo che non avevano voglia di combattere e che avrebbero preferito dormire, ma quando era il momento di riposarsi nelle capsule, si riprendevano e stavano talmente bene che ricominciavano a tormentarlo con la musica, i giochi o altre stupidaggini.

Correggere nella mente: troppo poco coinvolti nella missione, dispettosi, ribelli.

Ormai il dottore era fermamente convinto che doveva disattivarli per apportare le modifiche necessarie: aveva raccolto abbastanza dati nella sessione di prova, dopotutto il momento di uccidere il suo nemico non era ancora arrivato e i cyborg dovevano essere perfezionati.

 

 

Successe un giorno, mentre erano seduti a chiacchierare, a sfogliare di nascosto gli appunti del dottore e a parlare mangiando caramelle.

“Non stiamo dando un po’ troppo dell’occhio? Se continuiamo così, si arrabbierà e ci farà rimanere inerti.” suggeri’ Lazuli, preoccupata.

“Ma è così divertente!” rideva Lapis  “lo stiamo tirando scemo.”

La ragazza si stava fissando in uno specchio, rimirandosi da veri angoli: “Sono contenta che ci siamo ricordati i nostri nomi, ma devo proprio dirlo, sono cosi’ stupidi e volgari. Lazuli, che nome da escort.”

“A me il mio va bene...” Lapis alzo’ le spalle con disinteresse, mentre giocherellava con una piccola bustina di plastica gialla.

“Anche se, guardami: il mio corpo e’ meraviglioso. Farmi pagare per spogliarlo e ritrovarmi le lenzuola piene di soldi, non sembra poi cosi’ male.”

“Non osare...”

“Oh sì signore, quanti soldi farei. Che c’e’ di male, perche’ sono femmina? Mica la darei via, gliela farei solo vedere.”

Lapis provo’ a rimuovere dalla sua mente le immagini di sua sorella nuda seduta in braccio a qualche tipo, che lei gli aveva appena evocato. Non che non l’avesse mai vista in bikini, ma il pensiero lo disturbava comunque.

“Guarda qui. Cosa vuol dire?" le mostrò una strana incisione sulla grossa fibbia del suo orologio da polso. Sapeva che era il suo, esattamente come la pistola.

"Per L. da C. ; L. sono io, C. invece?"

Lo sguardo smarrito di sua sorella gli fece ancora una volta realizzare il crimine che il dottore aveva compiuto su di loro.

“Fosse l’ultima cosa che faccio, dovesse anche farmi dormire per un secolo; lo uccideremo, gliela faremo pagare, ricordatelo.” disse tagliente lui.

Lo scricchiolio fastidioso della plastica attiro’ l’attenzione di Lazuli. Strappo’ la bustina dalle mani di suo fratello.

“Che fai? L’ho preso perche’ credevo che fosse zucchero, invece e’ una roba di carta, o stoffa, non ho capito. Ce n’e’ un cassetto pieno nella stanza con tutte le nostre cose.”

La ragazza si senti’ a disagio nel riconoscere improvvisamente la bustina gialla. Senza bisogno di aprirla se la mise in tasca, poi si diresse quasi correndo verso la stanza.

Apri’ l’armadio e ci trovo’ camici bianchi e da ospedale, stracci, traversine, dei bastoncini di cotone e altri oggetti da toeletta.

E le bustine gialle. Un cassetto pieno, gia’.

Non erano nella loro scatola, di quelle che Lazuli si era ricordata di aver preso dallo scaffale del supermercato tutti i mesi in un’altra vita, ma riposte li’, pronte all’uso.

-Oh porca puttana, no...-

Si senti’ un palla di nervi nella pancia, volle sputarla ma si sedette semplicemente sul pavimento, sgomenta.

-Laz? Ti senti bene?-

Lapis la vide guardare il cassetto pieno di “bustine di zucchero” e poi inconsapevolmente guardarsi.

Lazuli era molto piu’ che schifata.

Come aveva appena detto lei stessa, era femmina.

Lo sgomento assoluto che aveva provato nell’apprendere che il suo essere femmina aveva continuato imperturbabile a manifestarsi durante tutto quel tempo, nonostante la conversione in cyborg era durato un niente; era stato soppiantato da un disgusto viscerale nel pensare che per tutto il tempo fra il rapimento e il risveglio, quando era stata incosciente, il dottore non l’aveva lasciata nel suo stesso sangue, la’ sul tavolo operatorio.

Si era servito del contenuto di quelle bustine.

Le labbra e le sopracciglia di Lapis si erano incurvate in direzione opposta mentre si era accucciato al fianco della sorella, guardando la sua espressione orripilata, che lentamente si era trasformata in uno sguardo feroce.

Senza parlare si alzo’ e Lapis capi’ che stava andando a cercare il dottore; le mise un braccio davanti, esigendo spiegazioni.

Quando Lazuli gli rivelo’ quello che aveva appena scoperto, anche Lapis si senti’ infiammare dallo stesso disgusto primordiale.

Il fatto che quel bruto si fosse avvicinato con le sue rozze dita al corpo morbido di sua sorella era una motivazione sufficiente, ancora piu’ importante della vendetta.

-Lascialo fare a me.-

Lapis credette di scorgere un tremito sulle labbra della sorella. Le mise una mano sulla spalla, annuendo. Insieme si avviarono verso la scrivania del dottore, avvicinandosi con passo deciso e fiero mentre lui non si girava.

Poi lo videro protendere il braccio -un aggeggio nero e rettangolare nella sua mano- prima che le tenebre si richiudessero di nuovo su di loro.

 

 

Quella nuvola non sembra un uomo ciccione?”

A me sembra una montagna.”

Carly era distesa su un fianco sull'erba odorosa a guardare le nuvole e sorrideva con aria trasognata mentre accarezzava i capelli setosi del suo primo amore:

Cos'è che ti piace di più di me? Dimmelo ancora.”

Tutto. Ma per rispondere alla tua domanda, che sei molto sexy ma non lo fai apposta. E a te?”

Fra tutto, scelgo i tuoi colori e il tuo sorriso.”

Ma dai! Non quello.”

Lapis aveva chiuso la bocca e involontariamente aveva toccato uno dei suoi canini con la punta della lingua: “Vorrei fare sistemare i denti, mia mamma mi ha dato il permesso; ma il dentista dice che devo solo lasciare stare.”

Esatto, lascia stare!” Carly lo guardava teneramente “fa parte di te.”

Non capiva come mai Lapis fosse tanto fissato con un difettuccio così lieve da non essere nemmeno un problema medico. Lei amava quei piccoli dettagli di lui.

Lui aveva fatto una smorfia: “Mia sorella a volte mi prende in giro.”

Allora è solo cattiva, sta a vedere che lei e’ perfetta...Aspetta, hai una sorella? In che classe è?”

Sì. In classe con me.”

 

Era passato tanto tempo, in teoria circa due anni, in pratica cento.

Ultimamente le capitava spesso di avere ricordi teneri e innocenti dei primi giorni della loro storia d'amore. Ma ormai Carly temeva che presto o tardi avrebbe perso tutto quello che ricordava. Col passare dei mesi, persino le sensazioni avrebbero smesso di essere un ricordo ancora vivido, perché il tempo è vincitore.

Tutto quello che riusciva a fare era crogiolarsi nell’enorme vuoto che sentiva dentro il proprio cuore; era come un abisso che la risucchiava in basso, più forte di lei.

Sapeva che non c’era niente di più deprimente che piangere sul latte versato.

Se solo avesse dato retta ad almeno uno dei ragazzi che si erano fatti avanti in tutto quel tempo, avrebbe almeno avuto qualcuno al suo fianco, per compagnia: ma ne valeva davvero la pena? Non ci riusciva.

Il solo pensiero la ripugnava; nella sua mente c’era sempre lui, un chiodo fisso che non le dava mai pace.

Come avrebbe potuto trovare attraente, interessante qualsiasi altro uomo dopo Lapis? Era stato amore a prima vista.

Le mancava da morire; le mancava la stretta delle sue braccia attorno ai suoi fianchi, le mancavano i baci sul collo e i morsettini affettuosi. Le mancava tutto, aveva bisogno di lui.

Si ricordava degli sguardi maligni e pieni di invidia delle sue amichette il giorno in cui gliel’aveva presentato. Le venne da sorridere.

Chissà se lui sentiva la sua mancanza, quando le notti si facevano lunghe e fredde; o se si era trovato un'altra da tenersi fra le braccia.

Ormai Carly stava per compiere ventun anni.

Le era capitata casualmente fra le mani una fotografia: ironia della sorte, mostrava quello che lei non voleva vedere.

Era una foto subacquea.

Si ricordò di quando lei e Lapis avevano deciso di passare un paio di settimane al mare per festeggiare il loro primo anno insieme. Si ricordava tutto, anche il viaggio in macchina con il sole in faccia e i bagagli che volavano a destra e a manca sul sedile posteriore. Per fortuna nessuno li aveva fermati per chiedergli la patente, che lui non aveva ancora. Erano stati dei giorni stupendi in cui finalmente aveva capito che aspettare tutto quel tempo ne era valsa la pena: quante volte aveva sospirato, considerando le sue amiche fortunate anche se i loro morosi erano brutti, stupidi o ignoranti.

Si ricordò della ragazza con la fotocamera subacquea: “Facci una foto!”

Lei e Lapis si erano tuffati nel mare, il loro bacio era stato lungo e tenero.

Carezzò la fotografia, osservandola in ogni minimo dettaglio: la sabbia bianca del fondale, l’acqua verde attorno ai loro corpi abbracciati, i capelli fluttuanti che si mischiavano nella luce rifratta dalla superficie dell’acqua; il costume a fiori hawaiiani di lui, il proprio bikini rosa, le bollicine d’aria fra le labbra.

Carly se la strinse al cuore:

 “Amore mio…”

Ormai aveva perso le speranze: erano due anni che lei, Kate e i detective cercavano i gemelli.

Lei si diceva in continuazione che doveva essere forte e non lasciarsi vincere dallo sconforto. Doveva farlo almeno per Kate, che non perdeva mai la speranza che un giorno li avrebbe ritrovati.

Come facesse a possedere tutta quella forza, Carly non lo sapeva: vedeva che era provata, tutti l’avrebbero capito, ma non si arrendeva mai.

Aveva persino lanciato un appello in televisione, ricavandone solo dei complimenti per la sua bellezza e per la sua tenacia.

Kate non sopportava i complimenti; continuava a dire di aver fallito, che una cagna sarebbe stata miglior madre di lei, che era tutta colpa sua.

Come non capirla? Anche se per Carly, Kate era una donna straordinaria.

Solo vederla però la faceva morire di nostalgia, era troppo uguale a suo figlio: avevano lo stesso viso,  gli occhi che l’avevano così colpita e i delicati capelli neri in cui le piaceva tanto deporre baci erano la sua eredità.

Ma in fondo che colpa ne aveva?

Mi sarei aspettata proprio di tutto, che mi scaricasse, che si stancasse: ma che morisse no, non avrei mai voluto neanche pensarlo.”

Non voleva credere che lui fosse morto, ma era un pensiero sempre più distruttivo nel suo cuore afflitto.

Non poteva scappare da lui.

Si ricordava delle volte in cui andavano a ballare, saltando e ridendo fino a essere tutti sudati, e poi restando abbracciati. Quante volte si era fatta dei film mentali, correndo nel futuro: ogni volta che lui la teneva per mano o la baciava lei vedeva già la loro casa, si vedeva madre dei suoi bambini.

Lui diceva sempre che lei era la tenerezza fatta a persona. 

Carly avrebbe dato il mondo per sentire ancora una volta la bocca morbida di Lapis sulla sua; per poterlo ancora sentire spingersi dentro di lei.

Era stato l’unico.

Aveva nostalgia di come lui la accarezzava prima di affondare dentro di lei con la sua brusca delicatezza, di come a volte lui si addormentava esausto con la testa sul suo grembo. Poi quando si svegliava facevano merenda; non chiedeva mica la luna, loro due apprezzavano le piccole cose.

La sua mente si era adattata in modo strano a quel trauma e alla depressione: aveva un vero e proprio orgasmo tutte le volte che si ricordava di quei momenti così intimi con lui.

Le piaceva tantissimo anche quando andavano a fare dei giri in macchina che erano peggio di una giostra e al ritorno rimanevano insieme a guardare il tramonto; Carly aveva perso il conto di tutti  i dolci e le porcherie che avevano mangiato seduti sul tetto della macchina.

Meno male che tu mangi” le diceva lui, sempre con la bocca piena.

Perché? Chi è che non mangia?”

Lazuli.”

Diventava triste quando ne parlava. Carly sgranava gli occhi, cos’aveva che non andava? Quella ragazza era alta e snella con un corpo forte e sodo; lei, se mai, che era piccolina e tendente al formoso, avrebbe avuto più da preoccuparsi per il fatto di corrispondere meno all’ideale imposto dalla societa’, invece che dare retta a Lapis che la rimpinzava come un’oca all’ingrasso, non calcolando minimamente che Carly si era allargata a furia di mangiare come lui.

Ma la verità era che non le importava: aveva il ragazzo dei suoi sogni, che l’amava così com’era, cos’avrebbe potuto importarle di qualche kg in più? Sembrava che a Lapis non dispiacesse nemmeno un po'.

Non mangia quasi niente, persino quando mia mamma ci porta a casa le cose che ci piacciono”.

Ma non devi preoccuparti amore, magari non ne ha voglia e basta”.

Lui alzava la testa e sorrideva: “Non mi preoccupo: ce n’è di più per me.”

Carly aveva sempre apprezzato il fatto che lui non la facesse mai sentire inferiore alla sua gemella, anche se doveva esserle legato da dentro molto più di quanto lo fosse a lei.

Non gliel’aveva mai fatto pesare.

Cosa avrebbe dato pur di toccarlo, di parlargli, di dirgli quanto lo amasse? I ricordi erano tutto quello che aveva, doveva cercare di non perdere Lapis anche lì.

Si ricordava di quanto le piacesse passargli le dita lungo la linea della mascella, sulle spalle, sulla sporgenza sulla gola.

 

Perché il destino ci ha fatti incontrare?” si diceva Carly nelle giornate buie in cui si interrogava su cose profonde. Ma poi scuoteva la testa e respingeva quel pensiero, così futile e banale, una frase ad effetto per romanzi rosa adolescenziali.

Non doveva cadere in quel circolo vizioso, non si doveva permettere di dimenticarsi il valore di quei momenti trascorsi con lui.

Chissà cosa gli era successo, chissà se l’aveva pensata prima di morire? Ormai non si chiedeva più se la stesse pensando nel presente. Quanti propositi si erano fatti! E ora era tutto finito.

Nei suoi sogni migliori lo immaginava fra le braccia di un bell’angelo che non era lei, poi si svegliava e piangeva.

Lei non era Kate: aveva il diritto di non essere forte.

   
 
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