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Autore: Raptor Pardus    08/03/2020    2 recensioni
Iolea è una anziana vedova ateniese, e ormai tutto ciò che le rimane solo il fratello minore Polistramide e la schiava germanica Geretrudis. La sua vita è monotona e priva di stimoli, prossima al tramonto, ma anche la storia di Atene è prossima al tramonto, e si rovescerà sulle vite di ogni suo cittadino.
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Iolea tesseva, seduta su uno sgabello al centro del gineceo. Con rapidi e silenziosi movimenti passava la spola di lana da una parte all’altra del ruvido ordito, fissando con occhi vacui il disegno che andava lentamente formandosi.
Dalla strada, attraverso il cortile della casa, giungevano i rumori della folla in festa, e i cimbali distanti la cullavano, tanto che non si accorse quando il fratello entrò nella stanza.
«Iolea!»
La donna sussultò, ricadendo dal suo iperuranio.
«Polistramide» sussurrò al gigante dai capelli scuri che era appena entrato. Nonostante fosse ben più giovane, emanava autorità. «Mi hai spaventato.»
«Torno ora dall’Ecclesia» continuò il fratello, avvicinando uno sgabello a sé. «Demostene ha chiesto altri fondi per Tebe. Non resta un’oncia di argento in tutta Atene ormai.»
Iolea riprese a filare. «La guerra procede male?»
«No, Megás è ancora bloccato in Illiria, da quel che sappiamo. Abbiamo tutta l’estate per fortificare la Beozia, di questo passo. Questa sera hai intenzione di venire ai misteri?»
«No» rispose lei, «Sai che non voglio, Polistramide. Ho perso interesse per queste cose.»
L’uomo si gettò sullo sgabello e contemplò l’anziana sorella.
«Smettila di pensare al tuo defunto marito e trovati un compagno, che si prenda lui cura di te, ti stai lasciando appassire tutta sola qui dentro. Io ho altro a cui pensare, più importante della tua vedovanza. Dov’è finita la tua dannata schiava?»
Iolea roteò gli occhi e sospirò, lasciando cadere il discorso. Il finale di simili discussioni era sempre lo stesso: che lei era un peso per le finanze del fratello, che quantomeno poteva uscire di casa e partecipare ai riti, che aveva preso la vedovanza troppo a lungo. Ma la verità era che Polistramide voleva semplicemente la casa tutta per sé.
Una schiava entrò nel gineceo e servì del vino a Polistramide, che accettò senza esitazioni, scivolando con lo sguardo lungo i fianchi della ragazza, come spesso faceva.
«Posso fare qualcosa per te?» chiese lei  con voce dolce alla padrona. Il suo greco, lingua a cui era stata costretta sin dall'infanzia, non nascondeva l'accento dei popoli del nord.
«No, grazie, Geretrudis, puoi aspettare qui.» rispose Iolea.
Si mise ad attendere in un angolo, mentre il suo incarnato da bianco si faceva rosso sotto lo sguardo di Polistramide, che rapido riprese a parlare di politica e del raccolto in arrivo. La sorella lo lasciava parlare e intanto continuava a far muovere le leve del telaio e la spola, mentre quello s'animava sempre più e infine usciva rovesciando e trascinando con sé il mobilio, blaterando di sacrifici e dei.
Iolea sospirò di nuovo.
«Perché non reagisci, padrona?» chiese Geretrudis avvicinandosi. «Non sei stanca di lui? Dovresti dargli ascolto, o andartene, o cacciarlo via.»
Iolea guardò la schiava con fare materno, sapendo che lei non poteva capire. La giovane chinò di nuovo il capo e mormorò delle scuse.
«È il mio tutore, così ha scelto l’Ecclesia. E lui non può a sua volta cacciarmi.» la donna si alzò e si allontanò dal telaio. Geretrudis con animo lieve si avvicinò per aiutarla, e lei lasciò che le sue mani dure la toccassero.
«A volte penso che questa non è una città per noi.» proseguì la schiava, accompagnandola in cortile.
«Oh, è così che va l’universo, noi non ci possiamo opporre.»
Geretrudis storse il naso, come spesso faceva.
«Non sono d’accordo, padrona. Non dovrebbe.»
 
Quel pomeriggio ci fu una processione, e sgozzarono un suino, come da tradizione. Ma mentre si accendevano le torce e si preparava il banchetto, prima che si distribuisse la carne, arrivò un maratoneta.
«Che succede?» chiesero i giovani allo ierofante, ma egli non seppe dare risposta. Si convocò d’emergenza la Boulé, e accorsero in molti, poiché già presenti ai riti dei Misteri.
Il corridore, spossato, era sorretto da due opliti.
Fu Demostene a prendere la parola.
«Parla, staffetta! Che notizie ci porti dalla Beozia?»
«Gravi, Ateniesi! Tebe è caduta!»
Il maratoneta s’interruppe, scosso da uno spasmo di tosse, e la folla radunata nell’Agorà fu attraversata da mormorii confusi.
«Caduta? Impossibile!» urlò Polistramide facendosi largo tra la folla, che si agitava sempre più, non domata dai pritani. «Come è potuto succedere?»
«Megás l’ha rasa al suolo.»
«Impossibile, Alessandro è morto!» urlò Demostene con voce spezzata.
«Le tue bugie ti si ritorcono contro!» gli urlarono contro i suoi rivali, capeggiati da Demade. «Ora siamo perduti!»
«Alessandro ora marcia verso di noi, dobbiamo organizzare la difesa di Atene e interrompere i Misteri Eleusini.» scandì con tono deciso un altro, Focione.
«Sarebbe un sacrilegio!»
«Ma non abbiamo altra scelta! O agiamo o siamo condannati a fare la fine di Tebe. E allora Atene non sarà più!»
«Ordine! Ordine!» urlavano i pritani alla folla.
«Tranquillizzatevi, vi fate prendere dal panico come un branco di agnelli che ancora non ha visto il lupo.» rispose Demostene. «Alessandro, o chiunque si stia spacciando per lui, perché so che egli è caduto in Illiria, non oserà distruggere la nostra città, non ha abbastanza uomini e ha troppo bisogno delle nostre navi per attraversare l’Egeo. Finché sarà spronato dal sogno che fu di suo padre, gli serviremo, e questo ci protegge.»
La platea era spezzata in due ali, e quella dei filomacedoni di Demade e Focione, sostenuta dalla paura s’andava ingrossando. «Demostene, tu ci hai promesso argento e libertà, ma finora ci hai consegnato solo vuote parole! Dovremmo esiliarti, o consegnarti al nemico, per punirti della rovina che ci hai portato.»
Le parole di Focione erano sterpaglia, e guerrieri usarono la legna grossa sugli animi più accalorati.
La Boulé si disperse, e la notte incubò i timori di ognuno. Sulla via del ritorno, Polistramide si sentì mancare, ricordando il disastro di Cheronea. Quella volta la paura gli aveva bagnato le gambe e insozzato la tunica, prima che le falangi cozzassero, e s’era ripromesso che non sarebbe più capitato. Ora iniziava a dubitarne.
 
Geretrudis era affaccendata in cucina, e fissava il fuoco davanti a sé. Una schiava più anziana le scosse la spalla e tolse la colazione dal fuoco, rimproverandola. Geretrudis si chiese ancora una volta perché la padrona non si decideva a vendere quella megera e il suo compagno, dato che faticava a mantenerli tutti e tre, ma ancora una volta si ripeté che quelle non erano faccende che riguardavano una schiava.
Iolea entrò nella stanza. «Megás è penetrato nell’Attica. I Macedoni sono a due giorni da qui.» esordì, cupa in volto. «Geretrudis, accompagnami all’Agorà, devo parlare con mio fratello.»
La schiava la seguì in silenzio, avanzando a rapidi passi in mezzo alla folla che già di primo mattino si andava radunando nella piazza poco distante. Una colonna di vacche bianche bloccò loro la strada. Pastori e guardie dei templi le spingevano verso l’Acropoli. L’aria era gravida di aromi e sudore.
«Vogliono ingraziarsi gli dei con un’ecatombe.» mormorò Iolea.
«Che gli dei ci ascoltino e ci proteggano, allora.» le rispose Geretrudis.
La padrona la guardò, di nuovo con quella smorfia materna. «Non servirà. Gli dei sono voluttuosi e sordi, sono più inclini a prendere che a dare, l’ho imparato a mie spese. Le faccende degli uomini devono risolversele gli uomini da soli, e noi donne possiamo solo stare a guardare.»
L’Agorà era in pieno fermento, con l’Ecclesia, riunita davanti al tempio di Ares, che discuteva quanto la Boulé aveva deciso la sera prima. Gli uomini si urlavano inutilmente addosso, convinti che la voce più grossa desse loro ragione. Polistramide era in prima fila, e urlava più di ogni altro.
Iolea si fermò in disparte sotto al colonnato dei re, cercando sollievo dal caldo impietoso, e mandò la schiava a chiamare il fratello. Lei non osava avvicinarsi a una tale folla: già mantenendo quella distanza sentiva il cuore accelerare e i respiri farsi più corti.
Polistramide arrivò subito, rosso in viso e con la pelle umida. «Finalmente hai messo la testa fuori di casa, sorella.» la schernì appena la vide.
«La situazione mi ha costretto. Cosa avete deciso di fare? Vi arrenderete ai Macedoni o non avete ancora ritrovato il senno?»
Polistramide le si avvicinò e la guardò dall’alto in basso. Il suo alito puzzava di vino.
«Donna, la politica non ti riguarda, è cosa per i cittadini, non per vergini, schiave e vedove. Tornatene in casa, ora che devi, e non farti vedere in piazza. Hai avuto il tuo tempo, ora lascia a me il mio.»
Iolea non arretrò di un passo. Polistramide era così vicino che poteva col seno sfiorarne il petto avvolto dal mantello. Geretrudis si mise in mezzo e spinse via l’uomo.
«Allontanati, ciclope. Non osare parlare così alla mia padrona!» sibilò.
La mano di Polistramide calò pesante sul volto della ragazza, con fragore violento. Geretrudis cadde all’indietro.
Iolea l’afferrò d’istinto. «Pazzo, guarda cosa hai fatto!»
Polistramide scostò l’himation e si portò la mano al chitone. Alla cintola portava un lungo pugnale.
«Fatti indietro, Iolea. Non lo ripeterò.»
Geretrudis si rimise in piedi barcollando. Aveva il labbro inferiore spaccato e un rivolo di sangue le scorreva fino al mento e gocciolando le bagnava il collo. Una furia selvaggia le brillava negli occhi.
L’Agorà esplose in urla inumane, e gli uomini saltarono come fiere affamate al collo dei propri compagni. La folla si contrasse e s’aprì, e alcuni fuggirono verso l’Acropoli. Demostene, al centro dell’assemblea, fu afferrato e trascinato via, e i suoi s’opposero. In mezzo alle tuniche e ai mantelli comparvero randelli e bastoni. Polistramide fece un passo indietro, indeciso se accorrere in aiuto dei compagni o colpire nuovamente la schiava, e col dorso della mano si asciugò le fauci.
«Andiamo, padrona.» sussurrò Geretrudis voltandosi.
«No.»
«Fermo!»
L’urlo stridente di Iolea fu un tuono in mezzo alla tempesta.
Polistramide afferrò la lama e prese la ragazza per il polso.
Geretrudis si voltò appena in tempo. La lama le strappò la veste e strisciò contro l’addome. Il peplo si fece caldo e umido e pesante, mentre Geretrudis si avvinghiava all’aggressore e affondava la testa nel suo collo.
Polistramide urlò di dolore, facendo cadere la lama e aggrappandosi alla schiava per i capelli. Quella si tirò via e sputò per terra. L’orecchio insanguinato di Polistramide rimbalzò sul lastricato.
«Sei una mia cosa, barbara!» urlò Polistramide, tastandosi il brandello di carne. «E sei morta!»
Cercò la lama con lo sguardo, ma per terra non c’era. Iolea tremava, il pugnale in mano.
«Geretrudis, andiamo via.»
La ragazza, con la veste strappata e i fianchi scoperti, abbracciò la padrona senza esitazione. Polistramide ruggì, accecato dal dolore e dalla rabbia, e le caricò.
La lama affondò nel suo ventre fino in fondo, spinta dal suo stesso peso. Polistramide sbuffò. Iolea tentò di lasciare il pugnale, ma Geretrudis la teneva bloccata sulla manica dell’arma. Le guardie accorsero verso i tafferugli della piazza.
«Dobbiamo andare.» sussurrò Geretrudis, lasciando andare il polso della padrona.
Iolea si piegò in due e vomitò, mentre Polistramide fece qualche passo indietro e si accasciò contro una colonna.
«Padrona, dobbiamo andare.»
 
Ad Atene regnava il caos. Demade e Focione e i loro avevano assaltato le case dei rivali, e nessuno sapeva più niente di Demostene. Intorno, i più poveri, ignari della stasis, accorrevano dalle campagne per trovare rifugio tra le mura cittadine, mentre i più ricchi fuggivano verso il Pireo alle loro navi, sperando di trovare la salvezza nel mare. Nella città si moltiplicavano i fuochi sacri, si aggredivano i granai, si assediavano i pozzi, e il pugnale arrivava dove non potevano la legge e l’esilio.
 
Iolea piangeva, piegata su una roccia a lato della strada battuta che saliva sull’Aigaleo. Aveva ancora le mani sporche del sangue del fratello. Geretrudis attendeva in silenzio, stesa sull’erba, le vesti ancora strappate, il petto che si sollevava e abbassava ritmico, provato dalle emozioni.
Rimasero lì finché il sole non raggiunse lo zenit. Finalmente Iolea si asciugò gli occhi e si tolse il mantello, porgendolo alla compagna. «Tieni, serve più a te che a me.»
Geretrudis ringraziò con un cenno del capo, ma non osò proferir parola.
«Dobbiamo andare via, la città è perduta, distrutta dal suo stesso terrore.» proseguì Iolea, guardando le lunghe mura che attraversavano la valle sotto di loro.
«Ma dove?» le rispose Geretrudis.«Non abbiamo nulla, se non l’amore che io provo per te, padrona. Ma l’amore non mette il pane e il pesce sotto i denti.»
«Troveremo un modo, Geretrudis, ho fiducia in te.»
«Non hai parenti in qualche altra città?»
Iolea sospirò, ripensando ancora una volta al marito morto a Cheronea tre anni prima.
«No, tutto ciò che avevo era ad Atene, ed è morto insieme a mio fratello.»
Geretrudis indugiò un attimo, poi si rimise in piedi e si sistemò il mantello sulla veste stracciata.
«Allora, padrona, andiamo.»
«Dove, quindi, Gera?» chiese Iolea serafica, non più turbata da quanto sarebbe durata la notte.
«Nelle mie terre, a nord. Possiamo provare. Lì saremo comunque più al sicuro che in qualsiasi città dell’Ellade.»
«Va bene, Gera, andiamo.» L’anziana donna si alzò e si appoggiò alla compagna, e insieme guardarono l’orizzonte verso Ovest, verso Eleusi e di lì all’Epiro. «Fammi strada.»
Le due si avviarono con calma, mentre a nord, ben distante da loro e dalla città, si avvertiva la musica di timpani e flauti che scandiva la marcia, e la strada si copriva d’una selva nera di sarisse.
   
 
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