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Autore: Persej Combe    08/03/2020    2 recensioni
Vieni da me, Augustine. Stasera i bambini sono con la madre. Vieni da me.
[Lubricantshipping]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri, Clem, Lem, Nuovo personaggio, Professor Platan
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
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- Questa storia fa parte della serie 'I racconti della scogliera'
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6












   Augustine gli stava sussurrando qualcosa all’orecchio, ma non capiva esattamente cosa, e tuttavia lo eccitava da morire. Sentiva unicamente la modulazione della sua voce, bassa e profonda, quasi stanca, che vibrava contro la propria tempia e si spostava in maniera scomposta, e a volte era vicina, a volte lontana, e il letto sotto di loro scricchiolava. Chiuse gli occhi, lasciandosi travolgere dal movimento ritmico e sinuoso dei loro corpi uniti assieme, e ad un tratto avvertì il calare di un buio intenso, elettrizzante, che gli offuscò d’improvviso la mente, e percepì le proprie membra contrarsi e irrigidirsi, i gemiti che erompevano dalla bocca come un’eco distante. Poi tornò a udire quella voce stanca e affannata, ad avvertire il proprio peso sul materasso e quello dell’altro sopra di sé. Guardò il viso di Augustine tendersi in una smorfia contrita, lo vide fremere e gridare senza voce, e gridava il suo nome, nello slancio disperato di un ultimo orgasmo; si accasciò sul suo petto e restò in silenzio.
   Meyer gli passò una mano lungo la schiena, lo sguardo fisso sul soffitto. Il calore dei loro corpi sudati gli risultava a tratti asfissiante, ma non aveva la forza di ritrarsi, né voleva farlo. Tutto pareva permanere in una qualche atmosfera ovattata, stranamente quieta, ora che anche l’altro taceva, e non intendeva sciuparla appena per un banale capriccio. Restò ad osservare la stanza illuminata dalla luce fioca del lumetto, e le coperte sfatte, gli abiti sparsi a terra, la porta lasciata aperta. Ogni cosa aveva il profumo di Augustine. Allungò le dita a toccargli le punte dei capelli, lo sentì rivoltare la testa e capì che lo stava guardando: le sue braccia magre si muovevano nel tentativo di cingerlo in qualche modo.
   Meyer lo strinse un poco a sé e lo baciò sulle labbra ancora rosse, vagamente salate. Lasciò scivolare le mani sul suo corpo mentre la bocca di lui si richiudeva ad avvolgergli la lingua in un tepore umido e gradevole. Restarono così ad accarezzarsi per qualche minuto, rigirandosi in mezzo ai cuscini, poi però con un sospiro Meyer si ritrasse, perché un bisogno più forte si era fatto impellente, per quanto avesse cercato di reprimerlo.
   «Scusami, ti dispiace se fumo?» chiese, un po’ timidamente.
   «No, no. Fai pure, non preoccuparti», rispose l’altro.
   Allora si allontanarono e intanto che Meyer apriva i cassetti del comodino a cercare le sigarette, Augustine si toglieva il preservativo dandogli le spalle.
   «...Tu ne vuoi una?».
   «Grazie, ma non mi va».
   «Okay».
   Tuttavia mentre Meyer si ristendeva sul letto assaporando l’aroma del tabacco, Augustine gli si avvicinò con fare lascivo:
   «Però, ripensandoci...» disse, allungando sinuosamente una mano ad afferrare la sua, sfilandogli la sigaretta dalle labbra e portandosela alle proprie «Un tiro non mi dispiacerebbe».
   La sua bocca si arcuò in un sorriso scaltro, accarezzato da un ricciolo di fumo, e Meyer ebbe l’incontrollabile impulso di mordergliela. Bastarono uno, due baci, e tornarono a stringersi di nuovo senza pietà.
   A tratti pareva ancora così strano riversarsi su quest’altro uomo, tastarne le forme nude del corpo e sentirle venire a contatto con le proprie senza che vi si frapponesse alcun tipo di ostacolo. E percepire quelle mani, quelle dita carezzevoli e allo stesso tempo spudorate, che lo cullavano mollemente fino allo sfinimento per poi stregarlo di colpo, correre e scorrere libere sopra le carni e lì dove neppure lui aveva mai avuto l’ardire di toccarsi, tutto quanto lo gettava in un abisso che era estasi e agitazione insieme, da cui non voleva più riemergere. Si scostò per un attimo dalle labbra di Augustine, guardò il suo viso e realizzò di avere e di avere avuto per tutta la notte questo bell’uomo nel letto, solo e soltanto per sé, pronto a soddisfare ogni suo vizio e capriccio senza che lo giudicasse mai una volta. Avvertì un piacevole e inaspettato senso d’intimità, e pensò fosse strano, ancora più strano rispetto al resto.
   Si chiese se non fosse semplicemente per quell’essere amorevole di Augustine, che una cosa tanto sterile come aveva pensato dovesse essere, avesse preso a coinvolgerlo così emotivamente. Ma forse si sbagliava, forse anche nel solo sesso fine a sé stesso doveva esserci un senso, una spiritualità occulta che non aveva mai considerato. Sospirò – non ne sapeva niente, ancora niente! – e piegò la testa a rintanare il viso contro il collo dell’altro. Sentì i suoi polpastrelli passare fra le ciocche di capelli e indugiare a lungo sulla nuca. Poi con lentezza essi incominciarono a strisciare verso il basso, a tracciare innumerevoli linee in mezzo alle scapole e oltre fino a quando le sue mani non si richiusero ad avvolgergli i glutei. Meyer vacillò.
   «Come va da queste parti?».
   «...Bene. Abbastanza bene».
   «Sai, in genere non lo faccio al primo incontro», confessò. «Preferisco concentrarmi su altro».
   «Su altro?».
   «Sì. Non c’è solo quello, dopotutto».
   «Cos’altro?».
   Sentì la sua gola vibrare di una calda risata, sottile, non troppo marcata, e assomigliava tanto a quella che faceva lui quando Clem gli chiedeva dove andasse il sole la notte e perché non volesse rimanere insieme alla luna, che poverina doveva starsene da sola al buio e al freddo.
   «Diciamo», rispose Augustine, dopo averci pensato un po’ su «Diciamo che non sembri esattamente il tipo da roba più spinta di quella che abbiamo fatto stasera...».
   Meyer sollevò la testa: di nuovo quel sorriso insinuante!
   «E sarebbe un male?».
   «Perché mai? Ognuno fa come si sente. È questo il bello».
   «Tu, invece, saresti il tipo?».
   «Suppongo dipenda dalla situazione».
   Dopodiché tacque, con i suoi segreti e i suoi misteri. Meyer lo vide arcuare le labbra, incalzato da qualche ricordo. Si chiese che cosa fosse, e tuttavia non avrebbe mai potuto saperlo. La sigaretta si consumava a poco a poco. Dovette girarsi a scrollare via la cenere.
   «Sei stato così carino a prendere in mano la situazione, che non me la sono sentita di dirti di no».
   Meyer non avrebbe potuto tenere il conto dei tanti – troppi – sottintesi che Augustine aveva infilato in quel prendere e poi in quella mano, e lo trovava ridicolmente infantile nel suo seminare di continuo – non aveva mai smesso, sin da quando era passato a salutarlo nel suo studio ore prima – allusioni e doppi sensi come un ragazzino malizioso, che prenda tutto poco sul serio. Ma gli piaceva questo suo carattere giocoso, spudoratamente frivolo.
   Quando avvertì le sue dita poggiarsi sulla spalla, si lasciò andare senza protestare al modo in cui lo trascinava giù a stenderlo sul materasso. Lo fissò dal basso, riempiendosi lo sguardo dell’immagine di lui che lo sovrastava mentre piano piano andava a piegarsi sul suo viso – sentiva i capelli ricadergli sulle guance, il suo respiro soffiare contro le labbra, e la prima cosa che gli venne in mente fu che l’avrebbe rifatto con lui ancora un’ultima volta, se soltanto non fosse stato così stanco e intorpidito. Le unghie che esitavano sopra il suo petto diffondevano un piacevole formicolio in tutto il corpo. Incrociando i suoi occhi ancora pieni di desiderio, Meyer arrossì. Allungò di poco il collo a raggiungere la sua bocca, ma Augustine si ritrasse.
   «Sei meno timido di quello che pensi», sussurrò, lasciandogli una carezza sulla guancia. Poi si rannicchiò al suo fianco dandogli le spalle, e Meyer pensò che si volesse riposare. Finì di fumare standosene nel suo angolo del letto. Cominciava a sentire anche lui una certa sonnolenza, quando:
   «È una bella idea, lo specchio qua davanti».
   Meyer sapeva che non stava tentando di fare altro che di lanciargli ancora le sue frecciatine, ma in quel tono basso, inframmezzato da uno sbadiglio, aveva un effetto completamente diverso e poco sensuale.
   «L’ho messo vicino al letto così quando i bambini vengono a dormire con me posso rimanere a guardarli», disse, anche se non poteva negare di essercisi guardato dentro anche prima, quando Augustine l’aveva fatto completamente suo, e di averne provato piacere.
   «Mh. È una cosa dolce. E quelle lassù invece, che sono?».
   «Ah, quelle sono le stelle».
   «...Stelle?».
   Meyer si chinò a spingere un altro interruttore accanto a quello del lumetto, e subito nel riflesso dello specchio fu un echeggiarsi e rincorrersi di tanti bagliori fiochi. Vide nel vetro Augustine stropicciarsi gli occhi e poi guardarsi intorno a osservare le stringhe di luci a forma di stelline appese sull’intero soffitto.
   «Ho fatto una modifica all’impianto elettrico, così possono accenderle appena entrano in stanza la notte. Sia Clem che Lem hanno ancora paura del buio».
   «Che bravo papà».
   «Ci si prova».
   Scrollando le spalle spense la luce del comodino lasciando accese solo le stelle. Vide che una lampadina si era fulminata, e si annotò a mente che avrebbe dovuto cambiarla. In settimana sarebbe passato in negozio a farne scorta, poi le avrebbe riposte nell’armadio degli attrezzi, avrebbe dovuto comprare una scatola apposita per non perdersele da parte come faceva sempre...
   «Loro come sono?».
   Augustine ancora non dormiva.
   «I bambini?».
   «I bambini».
   «Aspetta, te li faccio vedere».
   Meyer si alzò. Lasciò per un attimo Augustine da solo mentre andava a prendere il cellulare lasciato nella tasca del cappotto. La cucina e il salone erano illuminate di striscio dalla debole luce proveniente dalla stanza da letto. C’era qualcosa di diverso in quelle forme famigliari, radicate nella quotidianità, immerse così nella penombra. Meyer non se ne lasciò attrarre, e tornò indietro senza rivolgere loro lo sguardo.
   «Questo con le guance rosse e gli occhiali è Lem. Il batuffolo più in basso invece è Clem», disse ad Augustine mostrandogli la foto che teneva come salvaschermo: ne andava particolarmente fiero «Otto e tre anni».
   «Ti somigliano».
   «Hanno preso di più dalla madre, te l’assicuro».
   Rimasero entrambi in silenzio a contemplare la fotografia. Meyer vide Augustine particolarmente assorto, e si chiese a cosa stesse pensando.
   «Io non ho mai considerato l’idea di avere dei figli», confessò. Si era fatto d’un tratto serioso, le sopracciglia folte tese leggermente sopra le pieghe dell’occhio.
   «Hai la tua carriera all’Università, dopotutto. Non ti biasimo. Un figlio richiede tempo, e molti sacrifici. Io e Aura avevamo già trovato casa quando abbiamo iniziato a pensarci seriamente. Poco dopo esserci sposati è arrivato lui», e accarezzava teneramente con il dito la testolina bionda del maggiore impressa sullo schermo.
   «Aura».
   «Sì. Vedi, io e mia moglie...».
   Si bloccò. L’espressione sul suo viso si fece grave, la fronte attraversata da una ruga profonda, mentre gli occhi restavano socchiusi, intensamente distratti sopra le pieghe delle coperte accartocciate contro il bordo del letto e che l’indomani avrebbe di certo dovuto mettere a lavare, se non altro per cancellare quell’odore, quell’odore così estraneo che sapeva di lui e di Augustine insieme, maschile. Nell’aria cercò involontariamente un altro profumo, ma quel profumo non c’era, non una minima traccia, e lo trovò nei ricordi, in quella stessa spossatezza si sentì sollevare e avvolgere da un aroma d’arancia, se ne lasciò inebriare fino a quando la vista non si fece lucida e si accorse in quale razza di sentimento si fosse andato irrimediabilmente a cacciare. Un poco di cenere cadde sul lenzuolo e Meyer con gesto assente della mano la scansò via sul pavimento.
   «Cazzo, Augustine. Scusami», mormorò, con la sigaretta tra le labbra, dando un ultimo tiro prima di gettarla. Prese il posacenere e ve la spense dentro in una nuvola fumosa. «Io ancora la chiamo così».
   Le dita andarono a rintanarsi tra i capelli spettinati e percorsero tutta la testa per poi richiudersi a stringere una ciocca ribelle che penzolava oltre la nuca. Meyer si soffermò a lungo a strofinare le palpebre, sforzandosi di ricacciare indietro le lacrime. In qualche modo vi riuscì. Poi gli giunse la voce di Augustine, che fino ad allora era rimasto semplicemente a guardarlo, e nella sua voce un’affermazione: «Tu l’ami».
   E non era forse stupido? Se Meyer si fosse trovato nei panni di un’altra persona, probabilmente avrebbe riso di sé stesso, ed in effetti una risata iniziò a rintronare nella sua gola, ma presto si spense e morì in un sorriso penoso. Augustine stava sdraiato al suo fianco, ed era una grande odalisca, con la postura fiera delle spalle e il petto in fuori, proteso verso di lui, le forme del corpo spudoratamente scoperte a compiacere il suo sguardo e null’altro: gli ricordava una di quelle che aveva visto, nude, al museo insieme ai bambini e di fronte a cui Lem si era coperto gli occhi per l’imbarazzo, la perversione dinnanzi all’innocenza.
   «È passato un anno da quando ci siamo separati. All’inizio contavo anche i giorni, ma ormai che senso avrebbe?» si limitò a ribattere. A quel punto, voltandosi a rivolgere all’altro i propri occhi, nell’algida, orgogliosa sensualità di Augustine, Meyer notò anche un barlume di tepore, nel suo viso, che lo scaldò come l’abbraccio che gli era stato offerto all’inizio, quando si era smarrito.
   La sveglia sul comodino segnava le undici e qualcosa. Non avevano neppure fatto così tardi come era sembrato. Meyer si tirò a sedere, prese a raccattare la biancheria che era stata abbandonata senza troppi complimenti sul tappeto e chiese ad Augustine se avesse potuto offrirgli almeno una tazza di latte caldo con i biscotti, che non avevano nemmeno cenato.
   Mangiare a tavola con un uomo seminudo come fosse la cosa più naturale del mondo era stata un’esperienza decisamente surreale.
 
 
 
   La mattina dopo, Meyer si svegliò di buonumore. La consapevolezza di avere qualcuno che non fossero i suoi figli accanto a lui nel letto gli risultava per qualche motivo rassicurante. Non avrebbe potuto paragonare quella presenza alla stessa che aveva percepito per anni di Aura, tuttavia proprio questo essere un qualcosa di nuovo, insolito, totalmente diverso da ciò che erano le sue abitudini, gli dava una gradevole sensazione. Aveva ancora addosso l’odore dell’altro e di quello che avevano fatto, e non si dispiacque nel riportare alla mente qualche ricordo della notte appena trascorsa. Con la testa ancora infossata nel cuscino, forse arrossì un poco, e tanto comunque nessuno avrebbe potuto vederlo. Come era stato timido, eppure così sfrontato! Sorrise nel ripensare a certi momenti, e si sentì come un adolescente esaltato e curioso alle prese con le sue prime volte.
   Augustine dormiva lì vicino, disteso per lungo in tutta la sua magrezza, con la testa reclinata sul braccio che si piegava a cingere il capo, le dita abbandonate fra i capelli mossi. Era coperto a malapena da un lembo di lenzuolo, che gli fasciava un fianco e la coscia, là dove la mano sinistra ricadeva molle sul materasso. Meyer si perse nel percorrere con lo sguardo le gambe sottili che si incrociavano fra loro all’altezza delle ginocchia, ed ebbe l’impressione che la pelle di Augustine rilucesse come marmo bianco nella luce del mattino. Lo guardò ancora, l’impulso di piegarsi su di lui e prendere un altro po’ di quel che era stato la sera prima si fece improvvisamente calore, e Meyer se ne sentì avvampare in tutto il corpo; ma poi gli parve di approfittarsene troppo, così ritrasse le dita che già erano in cerca di quel petto poco villoso, e si alzò per andare a indossare la vestaglia.
   Mentre usciva sul corridoio si rese conto di quanto effettivamente si sentisse riposato. Poi lo colse l’inaspettata consapevolezza del lungo sonno che aveva fatto, privo dei soliti incubi e delle ansie che lo risvegliavano di continuo nel cuore della notte, lasciandolo in balia dei propri tremori e del sudore e delle coperte che lo avvolgevano e lo imprigionavano bloccandogli ogni possibile movimento. In quei momenti rimaneva a scrutarsi, solitario, nel riflesso dello specchio, cogli occhi sbarrati e le mani tra i capelli, un indemoniato, finché ad un certo punto non si allungava ad accendere le stelle, pregandole di fargli compagnia soltanto un po’, il tempo di una sigaretta o due per calmarsi. Allora Meyer diventava una montagna che sbuffa – così l’aveva chiamato Clem una volta quando l’aveva visto, una montagna che sbuffa; poi era arrivato Lem a correggerla: vorrai dire un vulcano, e lei si era opposta: no, no, una montagna che sbuffa.
   Stavolta invece, guardandosi nella specchiera del bagno, dopo essersi sciacquato il viso si sentì inspiegabilmente bello, e tranquillo. Non erano d’impiccio né le rughe sotto gli occhi, né l’eccessiva robustezza che si accumulava sulla pancia e sulle braccia. Si era trascurato tanto in quei mesi, per quanto difficile fosse ammetterlo, e sembrava che assieme all’amore di Aura fosse svanito piano piano anche ogni affetto verso sé stesso. Ma quella mattina era diverso, e non, non soltanto, per Augustine, ma piuttosto perché – un calore intenso e vibrante lo colmò in tutto il corpo – per la prima volta dopo non ricordava nemmeno quanto tempo si era mosso per qualcosa che desiderava senza tirarsi indietro e l’aveva ottenuta. A lungo aveva atteso il momento in cui finalmente sarebbe riuscito ad abbandonarsi ad un’altra persona, distaccandosi finalmente dal ricordo di Aura: sebbene ancora non avesse elaborato appieno la separazione (ma l’avrebbe mai fatto davvero?, si chiese; in cuor suo rimaneva inconcepibile) e sebbene ciò che era stato con Augustine si trattasse di un rapporto avulso da qualsiasi sentimento amoroso, romantico, nonostante egli fosse così tenero nei modi, tuttavia qualcosa era successo, nel momento in cui chinandosi sul viso dell’altro gli aveva detto Vieni da me. Ed era un che di straordinario. Meyer sentì le lacrime sgorgare dagli occhi come l’acqua che dalla sorgente rinasce fiume.
   Dopo la doccia tornò in camera per vestirsi. Augustine dormiva. Non lo volle svegliare. Sbucò sulla soglia della cucina soltanto più tardi mentre stava preparando la colazione. Meyer nel frattempo aveva avuto modo di riordinare casa e soprattutto di rimettere a posto i soldatini a guardia della stanza dei piccoli. Non aveva capito però come sistemare Psyduck, ed era rimasto anche troppo seduto lì sul pavimento, con le membra indolenzite che più in basso avevano iniziato a dargli fastidio, nel cercare di trovargli la posizione migliore accanto agli altri pupazzetti. Chissà perché, poi, arruolare Psyduck in un esercito? Ma i suoi bambini erano così imprevedibili che Meyer non poté trattenere una risata racchiusa tra le labbra.
   Augustine apparve quindi in cucina con due occhi piccoli di sonno, i capelli spettinati, e non lo si sarebbe mai riconosciuto come la stessa persona che percorreva avanti e indietro i corridoi del Dipartimento facendo svolazzare dietro di sé le falde del camice.
   «Ho lezione il pomeriggio, oggi», si giustificò, la voce impastata. «Posso usare il bagno?».
   Tornò all’incirca una mezz’ora dopo, ed era già perfettamente efficiente, con l’agenda nera e la penna in mano, mentre Meyer gli versava il caffè nella tazzina. Fecero colazione insieme, e non appena Augustine ebbe finito di riorganizzare gli impegni della giornata si salutarono, lo ringraziò per l'ospitalità e si avviò.
   Sulla soglia della porta però, Meyer lo chiamò prima che potesse andarsene via definitivamente.
   Lui si girò, lo guardò tenendo la tracolla stretta nelle dita.
   «Grazie. Ne avevo bisogno».
   A quelle parole, Augustine distese le labbra in un sorriso raggiante. Gli fece l’occhiolino, e non avrebbe potuto dileguarsi se non con un’ultima, maliziosissima battuta:
   «È stato un piacere!».



 
 
~ ~ ~



...E con l'anno nuovo sarei passata a un cambio di registro, così come anche Meyer avrebbe afferrato in mano le nuove occasioni della vita! Purtroppo questi primi due mesi non sono stati il massimo, e oggi dopo gli ultimi provvedimenti presi per il Coronavirus guardandomi intorno mi sento un po' giù di morale. Vorrei mandare un pensiero affettuoso e tutto il mio sostegno alle persone che in questo momento si trovano nelle zone rosse e a quelle che impegnate sul fronte medico stanno lavorando giorno e notte. C'è bisogno di collaborare tutti insieme, e adesso più che mai è importante ricordare che ognuno di noi nel suo piccolo può fare la differenza. Saranno inevitabilmente delle settimane dure, ma dobbiamo farci coraggio e avere pazienza.
Per quanto riguarda il capitolo di oggi non ho molto da dire, se non che l'incipit è stata la seconda cosa in assoluto che ho scritto subito dopo il prologo: questo pezzo non è altro che il continuo di ciò che stava succedendo quella sera. Mi diverte molto sperimentare con questi incastri e spero possa piacere anche a voi lettori!
Dopo questa pubblicazione, vorrei concentrarmi sulla conclusione di
Cara Samina, ed è molto probabile che ritorni ai miei aggiornamenti irregolari. Spero comunque di tornare il più presto possibile!
Ringrazio tutti quanti per essere passati per quest'ultima conchiglia, e in particolare czerwony per la gentile recensione alla precedente.
Un abbraccio a tutti, anche se da un metro di distanza, e un caro pensiero alle fanciulle di Efp ♥ Forza! ♥ 

Persej
  
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